1.
Il problema della diagnosi
di Antonio Semerari, Fabio Moroni,
Giuseppe Nicolò, Antonino Carcione
1.1. Il problema: un caso complesso
Il primo colloquio si era appena concluso e il terapeuta non riusciva a dissipare il senso di confusione rispetto alla diagnosi. Cominciò a scorrere gli appunti.
Enrico è un giovane di 25 anni, studente universitario, dall’aspetto dimesso e dall’eloquio forbito, che da più di un anno è bloccato con gli esami e non frequenta i corsi. Figlio unico, vive in casa con i genitori e si è rivolto al Terzo Centro per un problema abbastanza insolito. Enrico sviene o forse – non sa dirlo – si addormenta improvvisamente mentre gli altri gli parlano, accasciandosi lì dove si trova, sulla sedia o sul divano. Di sicuro perde coscienza e la perde spesso, con una frequenza di 3-4 volte a settimana. Per questa ragione è stato ricoverato presso un prestigioso reparto neurologico di Roma. Dopo una serie accurata di esami, prove e accertamenti, erano state escluse epilessia, narcolessia o altre cause organiche. «È un problema psicologico!»: questo il verdetto dei medici, che gli hanno consigliato di rivolgersi al Terzo Centro.
Durante il ricovero i medici avevano avuto modo di assistere a una di queste perdite di coscienza e non avevano avuto dubbi nell’escludere ogni ipotesi di simulazione. I colleghi avevano gentilmente inviato un video insieme al tracciato EEG e alle misurazioni del tono muscolare. Nel video si vedeva il paziente accasciarsi sulla poltrona, nello stesso momento il tracciato elettroencefalografico mostrava che l’attività cerebrale proseguiva come in stato di veglia (il che permetteva di escludere una narcolessia), mentre l’elettromiografia evidenziava un totale crollo del tono muscolare. «Un faint?», pensò il terapeuta, ovvero una difesa dissociativa da una condizione di minaccia soverchiante caratterizzata dalla perdita del tono muscolare. Interrogando il paziente, però, nessun pensiero o rappresentazione di minaccia sembrava precedere gli svenimenti. Il terapeuta aveva cercato di indagare con cura le emozioni e le rappresentazioni immediatamente prima della perdita di coscienza, ma si era scontrato con un muro di «non lo so», «niente», «non ricordo». Alessitimico e con scarso monitoraggio metacognitivo, aveva annotato.
Comunque, rifletté il terapeuta, gli svenimenti sono il sintomo che lo ha condotto in un centro di psicoterapia, ma Enrico presenta almeno altri due problemi ciascuno dei quali meriterebbe di per sé un trattamento psicoterapeutico. Il primo è il ritiro sociale. Era apparso subito chiaro che Enrico esercitava un evitamento attivo dei rapporti interpersonali. In particolare lo metteva a disagio trovarsi in situazioni in cui doveva interagire con più di una persona. Purtroppo quando il terapeuta aveva cercato di approfondire la natura di questo disagio aveva incontrato il solito muro di «non lo so» e di risposte vaghe. Aveva chiesto esplicitamente a Enrico se temesse di essere criticato o giudicato male, se provasse emozioni di imbarazzo e vergogna, ma gli stati mentali erano rimasti sostanzialmente opachi. Tutto quello che ne aveva ricavato era che Enrico in mezzo agli altri provava una sensazione di disagio vagamente descrivibile come un senso di estraneità e di separatezza; «un qualcosa di strano», aveva precisato.
Enrico, del resto, non sembrava nemmeno soffrire troppo del suo isolamento sociale. Lo trattava come un dato di fatto, con un tono che esprimeva un rassegnato e moderato rammarico. Il ritiro dalle relazioni si era accentuato con l’inizio dell’università, ma sembrava decisamente un aspetto preesistente. La sensazione di distanza e di diversità dagli altri veniva fatta risalire alle elementari. C’era stata, è vero, una relazione sentimentale, una storia finita male con una ragazza, una rottura dolorosa avvenuta all’inizio dell’università, che sembrava aver ulteriormente scompensato il paziente e accentuato il ritiro. «Disturbo evitante?», «Disturbo schizoide?», annotò il terapeuta, calcando sui punti interrogativi.
Tuttavia aveva avuto modo di trattare pazienti con grave ritiro sociale. Le prime sedute erano sempre faticose, con la sensazione di dover cavare ai pazienti le informazioni dalla bocca e con un senso d’impaccio e fatica a mantenere la relazione con loro. Una fatica che rischia di trasformarsi in noia e in voglia di terminare al più presto la seduta. Invece con Enrico non era successo. A parte le difficoltà a esplorare i contenuti emotivi e ideativi degli stati mentali, la conversazione era scivolata via fluida. Certo, non si può far diagnosi sulle sensazioni, comunque l’impressione non era stata quella di trovarsi con una persona con gravi problemi relazionali.
L’altro problema di Enrico, che da solo avrebbe meritato una psicoterapia, era la sua ossessività. Su questo punto il paziente era stato meno opaco. Aveva raccontato di essere spesso assalito dal dubbio angoscioso di non aver chiuso il gas o la porta di casa. L’idea di poter essere responsabile, per trascuratezza o per dimenticanza, di un danno a qualcuno, specie ai suoi genitori, lo riempiva di una fortissima angoscia. Tuttavia, invece di dar luogo a compulsioni, come ci si sarebbe potuto aspettare, questi timori erano all’origine di complesse ruminazioni in cui il paziente cercava di stabilire per «deduzione logica» se avesse effettivamente chiuso o meno il rubinetto del gas o la porta. La spiegazione che ne dava era una dimostrazione, allo stesso tempo, del suo acume e della sua bizzarria. Queste preoccupazioni, aveva detto, lo tormentavano da molto tempo, sicuramente dall’adolescenza, e negli ultimi tempi si erano accentuate. All’inizio aveva effettivamente eseguito continui controlli per verificare che non avesse commesso le temute dimenticanze. Tuttavia si era accorto che i controlli non eliminavano il dubbio sulle dimenticanze: semplicemente lo trasformavano nel dubbio di non aver controllato bene. Per questo aveva deciso di cercare un ragionamento che avesse potuto dargli la certezza.
Il secondo aspetto rilevante dell’ossessività di Enrico era il suo carattere egosintonico. Prestare la massima attenzione a certe cose era per lui un obbligo morale, punto e basta. Non solo non avrebbe potuto, ma non avrebbe mai voluto fare altrimenti. Enrico presenta un disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), non c’è dubbio. Il terapeuta sapeva bene che a un DOC non necessariamente corrisponde un disturbo di personalità di tipo ossessivo. Rilesse una frase che lo aveva colpito e che aveva trascritto quasi parola per parola: «ogni giorno stilo un piano d’azione giornaliero. Cerco di programmare e di seguire la tabella di marcia. Ogni minimo cambiamento rispetto a quanto stabilito, sia che dipenda da me sia che dipenda dagli altri, mi manda in tilt». No, non sempre ossessività di stato e di tratto stanno insieme, pensò il terapeuta, ma questa volta sembrava proprio di sì. Provò a riassumere: disturbi della coscienza, alessitimia e basso monitoraggio metacognitivo, ritiro sociale, ossessività di stato e di tratto, il tutto condito con un pizzico di bizzarria, mentre nel contatto immediato non si percepiscono particolari difficoltà nella relazione. Ma come si mette insieme tutto questo? Quali sono gli aspetti più importanti della sua psicopatologia? Da dove cominciare la cura?
Nell’organizzazione del Terzo Centro, quando un terapeuta ha difficoltà nel ricostruire le interazioni tra i fattori psicopatologici di un caso complesso chiede di discuterne nella riunione clinica che si tiene ogni giovedì mattina e nella quale i terapeuti del Centro analizzano i casi clinici. Essendo materialmente impossibile discutere di tutti i casi, vengono selezionati solo que...