L'impero di Augusto
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L'impero di Augusto

  1. 322 pagine
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L'impero di Augusto

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Un giovane di 19 anni irrompe sulla scena politica romana alla vigilia di una tremenda guerra civile e ne diventa il protagonista. In pochi anni tutti i suoi rivali sono uccisi, sconfitti, messi a tacere. Gli altri invocheranno la sua clemenza. Si chiama Gaio Ottavio questo giovane figlio adottivo di Giulio Cesare, che presto farà suo lo splendido soprannome di Augusto. Nessuno, quando nel 27 il senato gli conferisce quel nome, osa porre una domanda molto semplice: quando e perché la repubblica è passata sotto la sua potestà. In effetti la storia di Augusto racconta di uno dei più grandi successi politici di tutti i tempi: raccogliere quello che resta della repubblica romana ormai moribonda e creare un nuovo regime di tipo monarchico. Bisogna avere un'intelligenza eccezionale e un talento politico fuori del comune per raggiungere l'obiettivo, e saper scegliere accuratamente i tempi e i modi per superare le diffidenze dei romani che odiano la monarchia e temono le cose nuove. Con sublime ambiguità e un consenso né facile né scontato, Augusto attua una rivoluzione dando l'impressione di essere il restauratore delle istituzioni tradizionali, degli antichi culti, della morale degli antenati. Morirà dopo quarant'anni di regno, lasciando ai romani un nuovo regime e ai successori il difficile confronto con il mito della sua persona.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858101056
Argomento
History
L’impero di Augusto
di Andrea Giardina*
Nel 1937 ricorreva il bimillenario della nascita di Augusto, avvenuta il 23 settembre del 63 a.C. L’Italia fascista aveva appena conquistato l’Etiopia con una strana guerra, arcaica e moderna al tempo stesso. Arcaica perché anacronistica e intrapresa nel momento stesso in cui i grandi imperi coloniali vivevano una stagione autunnale ormai carica, per chi volesse vederle, di tinte invernali. Moderna perché condotta con l’impiego di una tecnologia mai usata prima in simili contesti e con la costruzione di imponenti infrastrutture. Il carattere effimero di questa impresa si sarebbe palesato in pochissimi anni, ma allora essa sembrò a molti, in Italia come all’estero, una dimostrazione di autentica potenza. Gli antichi romani non avevano mai conquistato quelle regioni. Nelle sue Res gestae – l’elenco delle imprese civili e militari da lui compiute, pervenuto attraverso alcune copie epigrafiche1 – Augusto si era vantato di aver inviato una spedizione militare in Etiopia, di aver annientato eserciti nemici, di aver preso molti centri abitati e di aver spinto le sue legioni fino alla città di Nabata (RG, 26, 5), che si trova all’altezza della quarta cateratta del Nilo. Questa campagna non si era concretizzata tuttavia in un’occupazione stabile e aveva riguardato una regione che nella geografia moderna appartiene all’area sudanese. Nella cultura greco-romana «Etiopia» era un termine dal significato molto ampio, così come «Etiopi» designava genericamente gli individui dalla pelle scura o nera. Non si poteva dunque dire, nel 1936, che gli italiani avessero restituito all’Etiopia la romanità perduta, come si era affermato qualche decennio prima a proposito della Libia: nessun esercito romano, infatti, aveva mai combattuto ad Adua e a Macallè o aveva mai messo piede ad Addis Abeba. E tuttavia almeno quattro erano i motivi che autorizzavano ad affermare che dopo la conquista dell’Etiopia l’impero era riapparso «sui colli fatali di Roma», come proclamò Mussolini il 9 maggio del 19362: le sue dimensioni territoriali, che raggiungevano ormai il livello della decenza, la rapidità delle operazioni belliche, il valore dei soldati italiani, il fatto che questi stessi soldati, proprio come gli antichi legionari, avevano esibito grandi capacità nell’associare l’azione sui campi di battaglia all’ingegneria militare (la retorica della strada romana, premessa bellica alla civilizzazione pacifica, ebbe allora un forte sussulto).
Subito dopo la proclamazione dell’impero, Mussolini salì in Campidoglio per deporvi l’alloro dei fasci, proprio come aveva fatto Augusto: «Deposi l’alloro dei fasci al Campidoglio – aveva lasciato scritto il principe – sciogliendo così i voti che avevo pronunciato in ciascuna guerra» (RG, 4,1). Era infatti abitudine dei generali romani, prima di partire per una campagna militare, formulare voti in Campidoglio «per l’andata, per il ritorno e per la vittoria» (pro itu, reditu et victoria); conseguito il successo, il generale rendeva grazie ponendo in grembo alla statua di Giove l’alloro che decorava le sue insegne, se i soldati gli avevano tributato l’appellativo di imperator.
Il 23 settembre del 1937 fu inaugurata, nella capitale, la Mostra augustea della Romanità, una straordinaria vetrina della Roma antica e del suo culto fascista: i visitatori venivano introdotti agli usi, ai costumi, alle tecniche, alla cultura del mondo romano e insieme ai valori antichi che il fascismo aveva reso contemporanei3 (fig. 1). Il successo fu enorme (un milione di visitatori nell’anno di apertura) e altrettanto l’eco internazionale. In contemporanea, fu riaperta la Mostra della rivoluzione fascista, che era stata inaugurata nel 1932 per celebrare i dieci anni del regime4. Roma fu meta in quegli anni di un pellegrinaggio imponente, che per le sue dimensioni aveva ben pochi termini di paragone nella storia della capitale5. Un tempo la gente comune veniva a Roma per vedere il papa, la basilica di San Pietro e gli altri luoghi sacri: ora veniva a Roma anche (e forse soprattutto) per vedere il duce o almeno il suo studio di Palazzo Venezia con la finestra sempre illuminata, ammirare i monumenti restaurati, inebriarsi dei nuovi scenari romani aperti dal regime, contemplare in sincronia le glorie dell’impero romano e quelle dell’impero fascista.
Fig. 1. Roma, Mostra Augustea della Romanità, architettura effimera sulla facciata del Palazzo delle Esposizioni, 1937.
Roma contemporanea deve ad Augusto un tratto caratteristico del suo paesaggio, un’impronta antica destinata a moltiplicarsi nei secoli e a diventare un segno inconfondibile, uno stile. Egli fu il primo a far trasferire nella capitale due obelischi egiziani6. Il primo, quello di Ramses II prelevato a Heliopolis, fu posto lungo la spina del Circo Massimo e si trova oggi al centro di piazza del Popolo; il secondo, appartenente a Psammetico II, fu usato come gnomone dell’orologio monumentale fatto costruire da Augusto nel Campo Marzio, e si trova ora in piazza Montecitorio (fig. 2). La scelta aveva due motivazioni intrecciate, una politica, l’altra estetica: quegli obelischi potevano essere considerati un bottino di guerra, e ricordavano che Augusto aveva sconfitto Cleopatra e annesso l’Egitto al dominio romano; al tempo stesso essi appagavano una moda egittizzante che si andava affermando a Roma da alcuni decenni a partire dall’ambito religioso, soprattutto in seguito alla diffusione del culto isiaco. Il duce volle anche lui il suo obelisco e fece trasportare a Roma il gigantesco obelisco di Axum (24 metri di altezza e 10 tonnellate di peso) che fu collocato davanti al palazzo del ministero dell’Africa italiana, poi diventato sede della Fao (fig. 3). A differenza degli obelischi egiziani, che si erano inseriti armoniosamente nei contesti monumentali della Roma antica, rinascimentale e barocca, quello di Axum non ha mai trovato una sua nuova vita nel paesaggio della capitale ed è servito per alcuni decenni ad adornare una rotonda spartitraffico. Nel 2005 il governo italiano ha restituito il monumento all’Etiopia, contribuendo al suo restauro e alla sua collocazione nel sito originario.
A questo obelisco, bottino di guerra, il duce volle aggiungerne uno moderno, il grande monolite in marmo di Carrara recante la scritta «Mussolini dux» e adorno di una cuspide dorata, che fu posto nel Foro Mussolini (poi Foro Italico), il complesso sportivo dove venivano celebrati, attraverso statue, mosaici e iscrizioni, i temi della bellezza e della forza fisica della nazione (fig. 4).
Fig. 2. Roma, 2009. L’obelisco usato come gnomone dell’horologium Augusti, oggi in piazza Montecitorio.
Fig. 3. Roma, 28 ottobre 1937. Inaugurazione dell’obelisco di Axum.
Fig. 4. Roma, 1937. Monolite del Foro Mussolini, oggi Foro Italico.
Roma contemporanea non conservava grandi tracce monumentali della pervasiva politica edilizia di Augusto, da lui stesso descritta meticolosamente in ben tre capitoli delle Res gestae (19-21), che elencano sia gli edifici da lui costruiti ex novo sia quelli restaurati. Lo stesso Foro di Augusto, che fu costruito con il bottino della battaglia di Filippi e ospitava il tempio di Marte Ultore, votato da Ottaviano pro ultione paterna, «per la vendetta del padre», si disperdeva – dopo gli sventramenti degli anni Trenta – nel più ampio scenario dei Fori imperiali, sovrastato dalle alte strutture dei Mercati Traianei, che sorgono accanto, e non si prestava a essere adibito a teatro di celebrazioni attualizzanti (fig. 5). Con un esito alquanto paradossale, i monumenti maggiormente adoperati per le rappresentazioni della potenza romano-fascista furono il Colosseo e l’Arco di Costantino, ovvero due opere che non avevano nulla o poco a che fare con i temi romani cari al fascismo. Il primo era stato un’arena per combattimenti esecrati dalla morale comune, ma la sua imponenza e la sua bellezza ne facevano uno scenario ideale: cominciò allora una disattivazione del ricordo degli antichi massacri – di gladiatori, di cristiani, di condannati comuni, di animali – connessi con il Colosseo e la sua trasfigurazione in emblema della maestà romana, in simbolo della città di Roma e del suo mondo. La «civiltà» dell’architettura cominciò a prevalere sulla «barbarie» della funzione, con una tendenza che si è accentuata negli anni a noi più vicini, malgrado la celebrazione della via crucis. L’arco di Costantino era invece collegato all’imperatore cristiano che ebbe un momento di celebrità pubblica in occasione della stipula dei Patti Lateranensi7, ma che il fascismo non valorizzò mai con autentica convinzione, sia per le sue origini non italiche sia perché nella propaganda ufficiale l’universalismo laico prevaleva decisamente su quello cristiano. Tuttavia per la sua posizione, le sue dimensioni, lo stato di conservazione, esso si prestava perfettamente a essere usato come arco di trionfo fascista, indipendentemente dalle sue precise origini storiche (fig. 6).
Fig. 5. Il Foro di Augusto. Pianta e ricostruzione prospettica da sud.
Fig. 6. Roma, parata militare delle «giovani generazioni fasciste» tra l’Arco di Costantino e il Colosseo.
Ciò che restava del più imponente monumento dell’età di Augusto, il gigantesco Mausoleo costruito nella zona settentrionale del Campo Marzio, si trovava inglobato nell’Augusteo, l’auditorium dove si esibiva l’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia: «L’auditorium era poggiato come una sorta di ampio copricapo sulla sommità del monumento antico, circondato da un denso tessuto edilizio che si arrampicava sui suoi fianchi»8. Al termine dei lavori, inaugurati da Mussolini con una cerimonia che replicava quella organizzata con un grande successo mediatico internazionale in occasione dell’avvio degli sbancamenti nell’area dei Fori – il duce operaio picconava sui tetti e faceva volare le tegole verso il suolo (fig. 7a-d) – la delusione fu grande come le attese: ciò che restava del Mausoleo augusteo erano rovine di grande interesse archeologico ma assolutamente p...

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