Filosofia politica
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Filosofia politica

Storia, concetti, contesti

  1. 392 pagine
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Filosofia politica

Storia, concetti, contesti

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Virginio Marzocchi ripercorre il pensiero politico dei maggiori filosofi, da Platone a oggi, mettendo in luce i concetti di fondo, attraverso cui l'ambito del politico viene ritagliato e illuminato. Al contempo questa tradizione di pensiero è posta in relazione ai contesti geo-storici (dal mondo mediterraneo prima e cristiano-europeo poi a quello globalizzato), giuridico-istituzionali (dal diritto romano e medioevale alle Costituzioni degli Stati nazionali verso un ordine internazionale) e culturali, a loro volta connessi con l'affermarsi di nuovi saperi (la teologia sistematica, le scienze esatte della natura, l'economia politica, la sociologia) e di differenti forme di trasmissione di questi saperi (dalle accademie alle università).

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858117965
Argomento
Filosofia

1. L’antichità greca e romana

1.1. La nascita della politica

Quando parliamo di mondo greco-antico, in particolare «classico» ovvero intorno ai secc. V-IV a.C., ci riferiamo principalmente a quell’insieme di città (singolare pòlis, plurale pòleis), comprensive di un territorio agricolo circostante più o meno vasto, che ricoprivano la penisola greca, ma anche a molte altre pòleis sparse lungo le coste del Mar Nero e del Mar Mediterraneo (soprattutto, ma non esclusivamente, lungo le coste dell’Italia meridionale e della cosiddetta Ionia, cioè in quella parte dell’Asia Minore, attuale Turchia, prospiciente la penisola greca).
Questo mondo greco-antico classico, da un lato, conosce la fine della rilevanza della pòlis e, dall’altro, si espande ulteriormente, sotto il profilo linguistico e culturale, a seguito delle conquiste operate dal re macedone Alessandro Magno (fino al 323 data della sua morte) ai danni dell’Impero Egiziano e dell’Impero Persiano. Nel periodo «ellenistico», successivo alla morte di Alessandro, il mondo greco si attesta stabilmente in Asia Minore, Siria ed Egitto, fino e oltre le conquiste romane di questi territori (iniziate nel I sec. a.C.).
Nel seguito presenterò i grandi filosofi Platone e Aristotele, che hanno scritto e insegnato nell’Atene del IV sec. a.C. (tra la condanna a morte di Socrate, maestro di Platone, nel 399 e la morte di Alessandro Magno nel 323).
In vero, però, sono stati i tragici, di cui ricordo la trilogia tragica di Eschilo, Orestea (rappresentata nel 458 ad Atene) e la tragedia di Sofocle, Antigone (rappresentata nel 442 ad Atene), insieme con gli storici, di cui ricordo le Storie di Erodoto (484-425 ca.) e La guerra del Peloponneso di Tucidide (460-400 ca.), a preparare il terreno per il successivo discorso dei filosofi. I primi, tragici e storici, mostrarono maggiori simpatie, di quanto non abbiano fatto poi i filosofi, per la democrazia.
Esiste comunque un tratto che li accomuna tutti. Un tratto connesso anche con l’esperienza delle 2 vittoriose guerre contro l’Impero Persiano in espansione, dotato di forze e mezzi largamente superiori alle città greche, minuscole in proporzione per territorio e popolazione. La prima guerra è segnata dalla vittoria dell’esercito ateniese a Maratona (a una quarantina di chilometri da Atene) nel 490. La seconda si conclude con la decisiva vittoria navale della flotta ateniese e spartana presso l’isola di Salamina (prospiciente l’Attica) nel 480 e con la definitiva sconfitta dell’esercito persiano da parte delle forze greche unite a Platea (Beozia) nel 479. Tale tratto consiste nel considerare quale regime propriamente politico, cioè adatto alle pòleis greche, al di là delle sue diverse forme, solo un governo esercitato secondo leggi su cittadini liberi e consenzienti; un governo risultante dalla ponderata presa in considerazione delle diverse componenti della città e delle loro plurime esigenze. Al governo politico viene contrapposto il potere impositivo di volontà arbitrarie, volte all’affermazione di sé; questo potere, bollato come «tirannide», viene considerato una modalità non-politica, in quanto dissolvitrice della unità rappresentata dalla pòlis, quindi barbara, cioè non-greca, straniera, orientale. Proprio la messa in rilievo del momento deliberativo, sulla scorta di cognizioni, e ponderativo dell’insieme articolato della pòlis consente poi l’inserimento del discorso filosofico.
Tuttavia non dovremmo dimenticare che l’unità rappresentata dalla pòlis (da cui deriva il termine «politica»), come pure le unità a essa più simili, rappresentate poi dalla civitas (da cui deriva il termine «civile») romana nell’antichità e quindi comunale nel Medioevo, sono state unità sia geograficamente sia storicamente poco diffuse, soprattutto se comparate a quelle unità, ben più ampie in termini territoriali e durevoli nel tempo, che, pur non stentando oggi a connotarle come politiche, chiamiamo di solito imperi. Già abbiamo incontrato l’Impero Persiano, come pure quello Macedone, creato da Alessandro Magno e sfaldatosi subito dopo la sua morte nel 323, ma per dar luogo ad altri imperi. Potremmo ricordare anche quelli d’Egitto, della Mesopotamia (assira e babilonese), dell’India e della Cina; quindi l’Impero Romano (da Augusto, morto nel 14 d.C., al 476 in Occidente e al 1453 in Oriente) e il Sacro Romano Impero (sviluppatosi a partire dall’incoronazione di Carlo Magno nell’800 d.C.).
Con il termine «impero» (per buona parte corrispondente al greco basilèia e derivato da un’accezione tarda rispetto al significato dell’originaria parola latina imperium, indicante il comando militare) intendo una unità politica differente tanto dalla pòlis e dalla civitas quanto dai regna medioevali e dagli Stati europei della modernità. Indico (qui e nel seguito) tutte queste entità, appena menzionate, col termine generico di «unità politiche», estendendo a esse (così come noi oggi usiamo fare) quella qualificazione «politica», che i Greci invece riservavano alla pòlis e a un certo modo di intenderne il governo. Allo stesso tempo però desidero sottolineare che tra i vari tipi di unità politica si danno grandi differenze: sia a riguardo delle componenti costitutive (parti, ceti o individui) e delle loro reciproche relazioni, sia a riguardo degli elementi considerati esterni (o perché non-politici o perché esteri, avversari, nemici).
L’«impero» è caratterizzabile come un’unità politica, la quale prevede, entro il territorio controllato ovvero tra le varie popolazioni (a volte molto diverse per etnia, lingua, modi di vita e religione) in essa ricomprese, il sussistere, rispetto al centro del comando imperiale, di altre forme di governo e potere, variamente ma comunque mai totalmente subordinate al centro stesso, sì superiore ma integrato da quelle altre e varie forme, in quanto considerate non derivanti dal centro, bensì dotate di una propria indipendente consistenza e vigenza. Inoltre l’«impero»: presenta una vocazione universalista, volta a inglobare l’intera popolazione del globo (quella che verrà chiamata poi l’oikumène); tende alla infinità temporale; avanza una pretesa carismatica nella figura del suo reggitore supremo, in quanto investito della sua autorità da un’istanza superiore a quelle umane, in modo tale che l’impero si configura come una forma politica mai pienamente regolabile (e così controllabile dal basso dei governati nella sua corrispondenza alle regole statuite) ovvero mai costituzionalizzabile in sé, sebbene possibile fonte non tanto di creazione quanto di riconoscimento e promulgazione di norme sovraordinate a quelle variamente in uso.
Ogni pòlis, invece, non solo risulta territorialmente circoscritta e internamente omogenea per lingua, cultura, religione, ma resa quel che è da una propria politèia (interna costituzione o meglio conformazione). La politèia, plasmata e statuita da uomini, da adattare alle diverse situazioni, deve assicurare, in quanto riconosce e definisce il contributo delle differenti parti componenti la pòlis, la produzione e la corretta messa in atto di deliberazioni o leggi (singolare nòmos, plurale nòmoi) secondo quella giustizia (dìke, dikaiosne) che, attribuendo a ogni parte il suo, consente l’integrazione di ciascuno in una autoconsistente e delimitata unità.
Tale intento complessivamente integrativo della politica (nella sua accezione greca classica) fa sì che essa potenzialmente abbracci ogni aspetto e ambito della vita, senza conoscere le distinzioni o separazioni proprie di altre epoche e culture (come quella tra spirituale e temporale, tra civile e religioso, tra pubblico e privato, tra Stato e società), attraverso cui la sfera politica si definirà demarcandosi e delimitandosi. La pòlis, strutturata dalla corrispondente politèia, si configura come l’orizzonte ultimo e complessivo, in cui si situa e può dispiegarsi la vita riuscita di ciascuno e, in particolare, dell’uomo (ànthropos) che sia e divenga pienamente tale; in tal senso la politica, in quanto sapere che guida e integra le parti della città e mediatamente l’agire del singolo, si propone come «egemonica» (direttiva) in Platone o «architettonica» (dispositiva dell’intero) in Aristotele.
A tale intento integrativo si somma però in Platone e Aristotele, ma ciò vale anche per il romano Cicerone, un momento difensivo e marcatamente ricompositivo, con cui reagire a processi che, da loro avvertiti come di decadenza e corrosiva dissoluzione, comportano comunque una effettiva perdita di rilevanza e incidenza per l’unità politica cittadina, la quale, a poca distanza dalla stesura delle loro opere, o verrà ricompresa nell’Impero Macedone (come nel caso greco) o si trasformerà da respublica (in vero non più cittadina a seguito dell’estensione della cittadinanza ai socii italici dall’89 a.C.) nel principato di Augusto prima e nell’impero poi (come nel caso romano). Mentre il pensiero politico moderno (a partire dal sec. XVI con Machiavelli in Italia, Bodin in Francia e Hobbes in Inghilterra) sarà fortemente progettuale – con l’anticipazione di strutturazioni politiche innovative, che si propongono di mettere a frutto emergenti dinamiche –, il pensiero politico antico, dei 3 pensatori qui poi considerati, intende invece ripristinare e ridare interna coesione a unità, segnate da destabilizzanti lotte intestine e da una crescente divaricazione economica, tra ricchi e poveri, la quale scompagina le vecchie distinzioni tra il ristretto patriziato aristocratico e il più numeroso popolo (dèmos) o la plebe (plebs). Ciò cui si ha da porre rimedio è la fazione o sedizione (stàsis) o anche la discordia intestina. Essa risulterebbe dal fatto che una parte della città, smarrendo la consapevolezza di esser tale ovvero di poter sussistere solo in quanto componente e articolazione dell’intero cittadino, tenta di ridurre il tutto a sé tramite forza e imposizione. Di qui il concentrarsi dell’interesse su una politèia o conformazione della città, la quale, sulla scorta della conoscenza e determinazione delle sue indispensabili parti, le integri nel tutto o intero che le rende possibili, eliminando, tramite una giusta o equa ripartizione dei ruoli e delle funzioni, il conflitto. Quest’ultimo, infatti, viene letto non come sensore di profondi disagi, spinta alla ricerca di più adeguate, innovative risposte, motore per ulteriori aggregazioni, bensì come inevitabile risultante di un fazioso processo di lacerazione, in cui le parti, separandosi, rendendosi unilaterali, intendono affermarsi in modo patologicamente oppressivo l’una ai danni dell’altra. Si tratta così di individuare una stabile (non in quanto garantita da un potere prevalente su quello delle singole parti, bensì in quanto giusta o equa rispetto al contributo di ciascuna) Costituzione, cioè strutturazione di base, globalmente ricompositiva della società cittadina. Il pensiero antico nei suoi principali esponenti trasmetterà un ideale politico come armonia e concordia, che eviti l’insorgere di contrasti o conflitti, in quanto corrosivi e non rigenerativi: un’armonia che, presupponendo una pluralità di componenti, da un lato prevede una indispensabile articolazione sociale e dall’altro tende a conservarla nel suo predato ritaglio.
A tale ideale è connessa un’idea di giustizia o equità, in cui consiste il criterio regolativo del corretto governo cittadino, non come distribuzione o redistribuzione di beni singolarmente ripartibili e fruibili in funzione dell’assicurazione di una qualche uguaglianza (concetto spesso da noi oggi collegato a quello di giustizia), bensì in primo luogo come cognizione delle differenze rilevanti e quindi, sulla base di un tale riconoscimento, quale attribuzione dei ruoli e delle competenze convenienti alle diverse parti per la vita e la guida dell’intero o unità organica, che la città è e sola può rappresentare.
Da questa prospettiva la forma democratica di governo non poteva non apparire come pericolosa, in quanto priva di forma ovvero negatrice di quelle differenze, il cui riconoscimento avrebbe permesso la determinazione della corretta, giusta politèia.
Andrebbe innanzitutto notato che la forma democratica di governo, nello stesso mondo greco classico, si attestò solo per un certo periodo e in alcune città. Quando si parla di democrazia, pensiamo soprattutto a quella affermatasi nella pòlis di Atene, in cui tra l’altro si formarono e operarono per larga parte della loro vita Platone e Aristotele. A partire dal primitivo regime monarchico e passando, a seguito delle riforme di Solone (594), per la timocrazia fondata sul censo, la democrazia si instaura ad Atene con la riforma di Clistene (509) e si sviluppa ulteriormente in seguito a ulteriori disposizioni introdotte nella cosiddetta età di Pericle (443-429), il quale, rieletto annualmente stratega (supremo responsabile militare), può esercitare, grazie alle simpatie popolari, una durevole influenza sulla vita cittadina, al punto che l’Atene di questo periodo verrà giudicata da Tucidide «di nome una democrazia, ma di fatto la monarchia del Primo Cittadino». È appunto l’Atene democratica a risultare vittoriosa nelle 2 guerre offensive, sopra ricordate, condotte dall’Impero Persiano contro le città greche, e quindi a imporre la sua egemonia su di esse; ma è ancora l’Atene democratica a dover capitolare nel 404, al termine della trentennale Guerra del Peloponneso, che, aprendo un periodo di notevole instabilità politico-istituzionale in Atene, segna la momentanea affermazione dell’egemonia dell’oligarchica Sparta sulle città della penisola greca, ma soprattutto pone le premesse all’imporsi dell’Impero Persiano sulle città greche della Ionia (387) e quindi al controllo sulle città della penisola greca da parte del monarca macedone Filippo II, padre di Alessandro Magno, a seguito della vittoria di Cheronea (338) e della creazione della Lega di Corinto (337), patrocinata dallo stesso Filippo II.
In secondo luogo, la democrazia greca, in particolare ateniese, non solo è segnata da fenomeni di influenza quasi personale, bollata sovente come «demagogica», all’interno e da mire egemoniche sulle altre città all’esterno, ma presenta caratteristiche distintive rispetto alle forme di democrazia specifiche degli Stati moderni, in particolare quelli del sec. XX.
Giustamente, caratterizzando la democrazia greca come diretta, si rammenta primariamente l’assenza dell’istituto della delega e, più propriamente, della rappresentanza. In prospettiva moderna ovvero in una certa prospettiva moderna, alla rappresentanza spetta il compito, attraverso l’istituzione di una persona o di un organo rappresentativo, di produrre un soggetto politico (popolo, nazione) dotato di un’unica volontà collettiva e generale, che, unificando, trascende e così si rende autorevole nei confronti dei particolari e, nella loro unilateralità, contrastanti voleri dei singoli o gruppi. Essa spinge così verso l’idea di auto-nomia: nel duplice senso sia di costituzione di uno stabile, unico soggetto politico, in cui coincidano i cittadini, così come suggerisce l’introduttivo autòs, qui traducibile con «stesso»; sia soprattutto nel senso di produzione di nòmoi o leggi, valide ugualmente per tutti, in quanto la legge disegna e regola tratti a tutti comuni. La rappresentanza allargata dovrebbe assicurare la produzione di uno stabile (sebbene rivedibile) e completo corpo di leggi generali e uguali per tutti, così supponibili come da tutti parimenti volute, al di là delle varie preferenze di fatto nutrite da ciascuno, e quindi giustamente a tutti imponibili. A me sembra, invece, che nella democrazia ateniese risulti centrale il programma (che rinveniamo, pur variamente trasformato, anche in autori non mossi da intenti democratici) di «governare ed essere governati a turno», esteso e reso possibile a tutti i maschi liberi (cioè non schiavi, nati da ateniesi nelle stesse condizioni), rispetto a forme di reggimento restrittive (per nascita, censo, educazione) della partecipazione dei liberi al governo. Tutti i liberi, prendendo parte assieme alla produzione di deliberazioni (non aventi necessariamente la forma astratta e generale delle leggi moderne) rilevanti per la vita cittadina, quindi partecipando a turno alla loro messa in atto e ai giudizi dei tribunali, avrebbero potuto sviluppare la capacità di condurre la propria vita (e quelle degli altri da essi dipendenti) in modo corrispondente a regole, obiettivi e valori, seguiti in modo consapevole e volontario, in quanto insieme vagliati e così perspicui nella loro indispensabilità, bontà e comune proficuità. Rispetto al concetto di autonomia tramite rappresentanza, nell’ideale del «governare a turno» l’accento viene a cadere non sulla formazione di un’unica e superiore volontà, produttiva di leggi poi giustamente imponibili anche tramite coercizione, bensì sulla cognizione e sull’apprendimento di valori o finalità, a partire dai quali giungere alla formulazione di disposizioni cui si aderisce volontariamente nella vita quotidiana.
Tale lettura rende conto, a mio avviso, della stretta connessione esistente nella democrazia ateniese tra partecipazione diretta nell’assemblea, da un lato, ed elezione, sorteggio, collegialità, brevità, indennità, obbligo di rendiconto per gli incarichi direttivi o amministrativi e giudiziali...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. L’antichità greca e romana
  3. 2. L’affermarsi del cristianesimo
  4. 3. Il Medioevo
  5. 4. Alle soglie della modernità
  6. 5. La modernità annunciata del secolo XVII nel Nord-Europa
  7. 6. Il secolo XVIII delle 2 grandi rivoluzioni: nord-americana e francese
  8. 7. Il secolo XIX delle Costituzioni nazionali
  9. 8. Il secolo XX degli Stati democratico-costituzionali
  10. Bibliografia