Geopolitica del XXI secolo
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Geopolitica del XXI secolo

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Geopolitica del XXI secolo

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Tra le vittime dell'11 settembre debbono essere annoverate le teorie geopolitiche che hanno dominato dopo la fine della guerra fredda: dal 'nuovo ordine mondiale' alla 'fine della storia'; dalla geopolitica alla geoeconomia; dalla morte dello Stato allo Stato postmoderno; dallo 'scontro di civiltà' al 'nuovo medioevo'. Tutte queste semplificazioni, ottimistiche o pessimistiche che siano, hanno lasciato spazio a una riflessione più moderata.Troppi sono gli attori e i fattori in gioco.Troppo elevata è la rapidità del cambiamento. Jean analizza insieme i fattori geografici e le risorse naturali, le scelte politiche e i fattori culturali, gli aspetti economici e tecnologici del panorama contemporaneo e gli equilibri in gioco.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858118221

Capitolo III. Gli Stati Uniti

1. Politica estera e ideologia «neocon» fra valori americani ed economia

Il dibattito geopolitico negli Stati Uniti – come in tutti i paesi – non è tanto o, almeno non è solo, sulla politica estera, ma riflette le tendenze prevalenti nella politica interna. Esso riguarda, cioè, la competizione dei gruppi dirigenti per il consenso e per il potere. La politica economica del presidente Bush è ispirata alla reaganomics: diminuzione delle tasse per stimolare la crescita, ma anche aumento delle spese militari e indebolimento del dollaro. Nel 2000 il bilancio federale presentava un avanzo di 250 milioni di dollari. Alla fine del 2003 avrà un deficit di 500 miliardi di dollari, che dovrà essere finanziato attraendo negli Stati Uniti investimenti stranieri con la capacità della Federal Bank di adottare strategie volte a internazionalizzare il deficit. A tale squilibrio si aggiunge l’enorme saldo negativo della bilancia commerciale. Gli Stati Uniti vivono al di sopra dei propri mezzi. Per continuare a poterlo fare è indispensabile che il mondo sia organizzato in modo da continuare a finanziarli.
La geopolitica americana riflette, però, anche le preferenze di fondo della società. Nell’era dell’informazione gli aspetti soggettivi e psicologici della geopolitica hanno più importanza dei condizionamenti geografici e degli interessi puramente materiali. Sul prevalere di determinate scelte politiche, tali preferenze – strettamente collegate con i miti dell’immaginario collettivo e dell’esperienza storica americana – hanno un’influenza enorme. Le preferenze metapolitiche determinano le scelte degli Stati e anche il «modo» con cui viene condotta la politica estera.
Il «neoimperialismo» è stato anche una reazione agli attentati dell’11 settembre, perché il presidente Bush ha saputo utilizzare tali miti per realizzare una mobilitazione patriottica senza precedenti. Essa è trasversale a tutte le forze politiche e ha consentito, almeno finora, di separare la politica estera dalla lotta politica interna. Gli americani sono persuasi di possedere, oltre al monopolio della forza, quello della virtù e, quindi, la capacità di rendere virtuoso il resto del mondo e la legittimità per farlo. Oggi, dopo le incertezze e i ritardi nella stabilizzazione dell’Iraq, tale entusiasmo si è indubbiamente attenuato. Ma, a metà settembre del 2003, circa il 70% degli americani approvava ancora l’operato del presidente Bush. Anche se le cose dovessero cambiare e gli Stati Uniti divenissero consapevoli dei limiti del loro potere imperiale – in particolare del fatto che non dispongono delle forze terrestri e della cultura d’intelligence necessarie all’occupazione e al controllo di un territorio per lunghi periodi –, hanno impegnato in Iraq il loro prestigio, quindi non possono ritirarsi.
I neoconservatives sono persuasi, in quello che i realisti definiscono il loro «delirio ideologico», di poter plasmare la realtà con la propria azione. Un europeo che, se fosse americano, sarebbe certamente un neocon, è il ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin. Nel suo studio su Napoleone egli accenna alla possibilità «di inventare la storia, cambiando le regole del gioco», ed è quanto ha cercato di fare nel caso della crisi dell’Iraq del 2003, anche se non si può dire con molto successo. Verosimilmente Villepin aveva sopravvalutato la potenza francese e sottovalutato la determinazione dell’Amministrazione Bush.

2. Gli USA dal mondo bipolare a quello unipolare

Alla geopolitica del mondo bipolare, centrata sul confronto fra URSS e USA, negli anni Novanta sembrava ormai subentrata una geopolitica centro-periferia, The West and the Rest. Per l’Occidente, alla periferia tradizionale del Sud del mondo se n’era aggiunta un’altra: l’Europa centro-orientale e l’ex Unione Sovietica. Subito dopo l’11 settembre sembrò emergere un ordine internazionale nuovo, centrato sugli Stati Uniti, ma gestito dall’ONU: era la «grande coalizione» antiterrorismo costruita da Colin Powell e di cui facevano parte quasi cento Stati, fra cui la Russia e la Cina. Non dando seguito alla dichiarazione del Consiglio atlantico di considerare l’attacco agli Stati Uniti come diretto contro l’intera Alleanza – ai sensi dell’art. 5 del Trattato di Washington – Washington dimostrò subito di non lasciarsi condizionare dai vincoli di una «guerra per comitato», come quella per il Kosovo, ma di volere fare da sé. Con ciò ha inferto all’Alleanza un duro colpo.
La crisi dell’Iraq ha nuovamente movimentato la geopolitica mondiale, con il rinnovo della richiesta di un mondo multipolare avanzata da Parigi, da Berlino, e, più sommessamente, da Mosca e ancor più indirettamente da Pechino. Il «mondo della pace», di cui il presidente francese Chirac si era proclamato rappresentante, si contrappose all’«impero della guerra». La «santa alleanza antiterrorismo» non reggeva la prova delle tensioni a cui la sottoponeva la disinvolta politica americana, nonostante tutti gli sforzi del fedele alleato britannico per salvaguardare in qualche modo il ruolo del Consiglio di sicurezza. In tale nuovo «strappo» transatlantico riemersero talune tendenze geopolitiche che si erano già manifestate in tutto il secondo dopoguerra, specie dopo il disastro della spedizione di Suez del 1956: il tentativo della Francia di affrancarsi dall’egemonia americana. Durante la guerra fredda tali tendenze erano neutralizzate dalla minaccia dell’URSS, che faceva paura all’Europa ed erano anche attenuate dal fatto che gli Stati Uniti avevano tutto l’interesse ad avere un’Europa forte militarmente e integrata economicamente, anche se non unita politicamente.
Oggi il mondo è profondamente mutato. È scomparsa la minaccia da est. Il «nucleo duro» dell’Europa, in particolare la Germania unificata, è meno condizionabile che in passato e gli Stati Uniti temono la concorrenza che l’euro potrebbe fare al dollaro. Molti settori dell’Amministrazione hanno puntato deliberatamente sulla divisione dell’Europa, a torto ritenuta da taluni un potenziale competitore globale di Washington. La Gran Bretagna ha cercato di continuare la linea politica seguita negli anni Cinquanta, prima di Suez, cioè di perseguire una «terza via»: allora fra gli USA e l’URSS; oggi fra gli USA e l’Europa. Insomma, il «gioco geopolitico» innescato dall’11 settembre ricorda per molti aspetti il passato, sia pure in forma diversa.
Basti pensare alle tesi sostenute dai fautori dell’allargamento a est della NATO, diretto a interporre la presenza degli USA fra Russia e Germania. Esse hanno ripreso concetti espressi da Mackinder già nel 1919, in Democratic Ideals and Reality. Violando a danno del popolo tedesco il principio wilsoniano dell’autodeterminazione dei popoli, la loro attuazione nella pace di Versailles portò alla costituzione di una fascia di Stati cuscinetto, garantita da Francia e Gran Bretagna, per separare la Germania dall’URSS. I due allargamenti della NATO hanno portato oggi alla presenza diretta degli Stati Uniti in quell’area, che rimane geopoliticamente critica per i rapporti fra l’Europa e la Russia.

3. Il dibattito geopolitico negli Stati Uniti

La migliore analisi sulle diverse tendenze presenti nel dibattito geopolitico statunitense è contenuta nel volume Washington et le Monde di Justin Vaïsse e Pierre Hassner. In esso sono descritte le varie scuole, tendenze, assunti e proposte geopolitiche in competizione fra di loro negli Stati Uniti. Queste ultime sono collegate dai due autori alle loro radici metapolitiche, storiche e religiose, nonché agli interessi economici delle varie lobbies. Tale approfondimento è essenziale. Infatti, oggi tutti gli Stati definiscono la propria politica e i loro interessi in relazione a quelli degli Stati Uniti.
Il dibattito geopolitico d’oltreoceano è incentrato su che cosa gli Stati Uniti debbano fare della loro potenza; su quale sia l’importanza relativa degli interessi rispetto ai valori; sulla rilevanza per il paese e gli interessi statunitensi delle alleanze permanenti e delle istituzioni internazionali; su quale sia la combinazione più opportuna fra quelli che Joseph Nye ha chiamato soft e hard power, fra unilateralismo e multilateralismo, fra idealismo wilsoniano e realismo, fra l’esistenza di una missione quasi messianica o, comunque, di un eccezionalismo degli Stati Uniti – che sembra oggi indurli a intraprendere una crociata per migliorare il mondo – e il normale comportamento di una grande potenza come tutte le altre, attenta a tutelare il proprio rango, i propri interessi e la propria sicurezza.
La comprensione del dibattito geopolitico in corso negli Stati Uniti e del suo linguaggio è essenziale. Gli altri Stati possono infatti influire sulle decisioni degli Stati Uniti solo agendo al loro interno, influenzando cioè i meccanismi decisionali dell’Amministrazione. Per quanto riguarda il linguaggio le cose sono altrettanto importanti. È probabile che quando Donald Rumsfeld parlò di «vecchia Europa», egli non intendesse riferirsi a un’Europa decadente, né al fatto che il baricentro dell’Europa si era spostato a est, dato l’allargamento dell’Unione a dieci nuovi membri. Quasi certamente, egli riprendeva l’espressione dei Padri pellegrini, relativa all’Europa dinastica dei loro tempi, divisa da egoismi e rivalità di potenza e da una visione ristretta degli interessi dei singoli Stati, ritenuti predominanti su quelli dei loro cittadini.
Il dibattito, spesso brutalmente polemico, fra le nuove scuole e i vari esperti permette di comprendere come si modifichino le percezioni, che cosa stia avvenendo negli Stati Uniti, quindi di anticipare quelle che saranno le scelte dell’Amministrazione. Tra gli attori di tale dibattito compare l’opinione pubblica, senza il cui consenso non è oggi possibile nessuna decisione politica, soprattutto negli Stati Uniti. Attribuire al solo Bush jr. il nuovo atteggiamento americano dopo l’11 settembre è una sciocchezza, così come è errato sopravvalutare l’influenza dei neoconservatives, oppure ritenere che la mancata rielezione di Bush nel 2004 cambierebbe la politica americana.
Beninteso, sulla geopolitica degli Stati Uniti – e in particolare sulle loro tendenze «imperiali», o per meglio dire estroverse, e su quelle isolazioniste o di ripiegamento «emisferico» sulle due Americhe – influiscono la loro posizione geografica, a cavallo fra l’Oceano Atlantico e quello Pacifico, le esigenze dell’economia, caratterizzata – come si è accennato – dai due enormi deficit – di bilancio e commerciale – che da una ventina di anni sono regolarmente «esternalizzati», il pluralismo etnico e culturale della società americana e lo spirito delle élites politiche e culturali, influenzate dai valori prepolitici propri dei padri fondatori. A più lungo termine, su di essa influirà la demografia, nelle sue dimensioni sia assolute che relative.
Nel decennio di transizione post-guerra fredda la geoeconomia sembrava aver assorbito la geopolitica. Gli anni Novanta videro un’enorme espansione sia dell’economia americana sia della globalizzazione. La prima era però già entrata in ciclo negativo prima dell’11 settembre, con la «bolla» della new economy. La scoperta della vulnerabilità americana aveva accelerato fortemente la tendenza al ribasso, erodendo il trionfalismo macroeconomico clintoniano.
La globalizzazione, a sua volta, sembrava per vari motivi bloccata. In primo luogo, vi era stato un ritorno degli Stati nella regolazione, se non nella regolazione dell’economia. Taluni parlarono addirittura di un ritorno di Keynes, della fine del liberismo e del riemergere del protezionismo. In secondo luogo, il controllo del finanziamento alle reti terroristiche ha obbligato a intensificare limitazioni e controlli dei movimenti finanziari, di quelli delle merci e delle persone. In terzo luogo, gli Stati – in particolare gli USA, che avevano «scoperto» la loro inattesa vulnerabilità alle nuove minacce – hanno dovuto rispondere alla domanda di sicurezza dei loro cittadini. La guerra al terrorismo e alla proliferazione è così divenuta il paradigma centrale della politica di Washington. Gli americani hanno ritrovato il nemico e la geostrategia è ridivenuta centrale nella geopolitica americana. Poiché le nuove minacce non sono arrestabili alle frontiere, l’unico modo per difendersi da esse consiste nell’attaccarle dove si manifestano, prima che possano colpire.
Ma gli Stati Uniti non si sono fermati qui. I neocons propongono loro di fare quanto fecero tutti gli imperi della storia: non limitarsi a raids punitivi, ma occupare i territori e «convertire» le popolazioni alla democrazia e al libero mercato, per sradicare in modo definitivo il maxiterrorismo hitech. La paura di nuovi, grandi attentati ha risvegliato lo spirito messianico o missionario americano. Il miglioramento del mondo si è trasferito dal campo dell’umanitario a quello della sicurezza nazionale. Da «sceriffi riluttanti», gli Stati Uniti si sono così trasformati non solo in gendarmi del mondo, ma anche – almeno nelle intenzioni dei neocons – in crociati della democrazia, in primo luogo in riferimento all’Islam, per renderlo omogeneo ai valori americani, modernizzarlo e farlo partecipare alla globalizzazione. Il risveglio di tale spirito messianico è stato permesso dall’accentuato rafforzamento della religiosità nella società americana. Esso era evidente nel programma di moralizzazione e di ritorno ai valori tradizionali propugnato da Bush nella campagna elettorale, contro il permissivismo del presidente Clinton. La necessità di «chiarezza morale» sia in politica interna che internazionale, più volte ricordata dal presidente Bush, appare brutale e arrogante agli altri paesi. Tale sensazione è confermata dal fatto che gli Stati Uniti si propongono esplicitamente, con la National Security Strategy, di imporre al mondo la «virtù», di cui si sono autoproclamati missionari. Persuasi di essere nel giusto, gli americani non accettano limitazioni alla loro libertà d’azione da parte del diritto e delle istituzioni internazionali e degli stessi alleati.
Per inciso, l’aumento negli Stati Uniti della popolazione cattolica – dovuta all’immigrazione di latinos – e le riserve vaticane sul nuovo corso della politica estera americana – che potrebbero radicalizzarsi in futuro – possono provocare tensioni fra Washington e la Santa Sede, con ricadute non trascurabili anche sulla politica italiana.

4. Secolo, impero, egemonia o leadership degli Stati Uniti

Sulla base delle considerazioni che precedono deve essere discusso anche il dibattito sul «secolo» o sull’«impero» americano. Quest’ultimo, comunque, è del tutto particolare per vari motivi. Innanzitutto, gli Stati Uniti nascono da una rivoluzione anticoloniale. Poi, pur avendo quasi 150 basi e diverse centinaia di migliaia di soldati all’estero – ben più di quanti ne avessero gli imperi romano, bizantino, ottomano o britannico –, l’influenza imperiale americana non è fondata sulle armi, cioè sull’hard power, ma soprattutto sul soft power.
È interessante la tesi suggerita da John Mearsheimer, esponente di punta della scuola del «realismo offensivo». Egli sostiene che gli Stati Uniti possono essere potenza egemone, o imperiale, solo nell’emisfero occidentale, cioè nelle due Americhe. Invece, nel resto del mondo, il loro ruolo è quello di «equilibratore esterno» (off-shore balancer), poiché mancano di una contiguità territoriale con la massa continentale eurasiatica. Tale affermazione può essere valida per l’Asia orientale e meridionale, ma non per il Golfo e l’Europa. La presenza americana nel Golfo durerà decenni, indipendentemente dall’andamento della stabilizzazione in Iraq. Inoltre, gli Stati Uniti hanno tutta l’intenzione, sostenuta sia da Clinton che da Bush, di rimanere una potenza europea, magari spostando verso est le loro forze dell’Europa centro-settentrionale. Nella crisi dell’Iraq – con la dichiarazione degli «Otto del Wall Street Journal», prima, e dei «Dieci di Vilnius» poi – essi hanno dimostrato di essere il fulcro dell’Europa. Con gli allargamenti della NATO prima e dell’UE, dopo, si sono interposti fra l’Europa occidentale e la Russia, divenendo in certo senso arbitri dei rapporti fra Bruxelles e Mosca. Putin – che non può fare a meno degli Stati Uniti, anche per mantenere gli equilibri nel Pacifico – è consapevole che per la Russia la via per Bruxelles passa da Washington.
Finora, a differenza degli imperi territoriali del passato, anche nei periodi di maggior potenza gli Stati Uniti hanno sempre cercato di ritirare quanto prima le loro forze dalle aree d’intervento, non disponendo delle fanterie necessarie per presidiare l’impero. Se ieri erano sceriffi riluttanti, oggi sono imperialisti ancor meno entusiasti. Lo dimostra la loro tradizionale avversione alle operazioni di supporto della pace, tanto popolari nei paesi europei (forse anche perché più corrispondenti alla ridotta potenza di cui questi ultimi dispongono). Gli europei hanno nel DNA della loro storia la pratica coloniale, cioè del presidio e controllo dei territori e delle popolazioni. Anche se la «missione democratizzatrice» degli Stati Uniti non è molto diversa dal dovere di «cristianizzare» o «civilizzare», che Kipling definiva «il fardello dell’uomo bianco», l’opinione pubblica americana resta contraria agli impegni permanenti (entangling engagements), contro i quali già George Washington l’aveva messa in guardia.
La nuova «crociata» americana è più ispirata da ideologie di «sinistra» che di «destra», per quanto possano oggi avere significato tali termini. Il nemico principale dei neoconservatives (Wolfowitz, Perle, Kristol, Krauthammer, Ledeen ecc.) – o imperialisti democratici – non è l’estrema sinistra di Chomsky o Wallerstein, ma l’estrema destra di Buchanan. Quest’ultima è contraria non solo a disperdere sforzi e risorse all’estero, ma anche al rafforzamento dello Stato federale, premessa indispensabile a ogni proiezione esterna di potenza. Buchanan sostiene, infatti, che la missione degli Stati Uniti non sia quella di «migliorare il mondo», ma di far stare bene gli americani.

5. L’impero diviso fra idealisti e realisti

Sia l’estrema destra isolazionista che i neoconservatori rappresentano, però, tendenze complessivamente minoritarie, se non addirittura marginali. Di fatto, la geopolitica americana continua a essere caratterizzata della presenza di due scuole: idealistica, o wilsoniana, e realista. Esse non si escludono a vicenda, ma nella pratica si combinano. Una separazione netta è politicamente impossibile, anche perché, in politica, la retorica – volta a ricercare il consenso interno e a convincere all’esterno – è sempre combinata con la logica, cioè con l’individuazione degli interessi e la valutazione del costo, dell’efficacia e del rischio delle varie scelte possibili. La religiosità di fondo diffusa nell’opinione pubblica americana e il fatto che la destra sia portatrice dei valori tradi...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Capitolo I. La geopolitica del post-guerra fredda: dal mondo bipolare a quello unipolare
  3. Capitolo II. La geopolitica dopo l’11 settembre
  4. Capitolo III. Gli Stati Uniti
  5. Capitolo IV. L’Europa
  6. Capitolo V. La Russia
  7. Capitolo VI. Il resto del mondo
  8. Capitolo VII. Scenari per il XXI secolo: la battaglia per l’unità dell’Occidente e le Nazioni Unite
  9. Bibliografia