L'Europa è un'avventura
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L'Europa è un'avventura

  1. 184 pagine
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L'Europa è un'avventura

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«Poiché non sono un profeta, devo evitare di esprimere giudizi prematuri. Tuttavia, vorrei condividere con il lettore unosservazione, la sola che la diagnosi sociologica mi autorizzi a fare. Quali che siano le sue radici o la fonte del suo potere, lo stimolo allintegrazione politica, e il fattore necessario affinché progredisca, è la visione condivisa di una missione collettiva. Dove trovare una simile missione nella nostra Europa del 2012?Esiste un ambito in cui lEuropa ha acquisito unesperienza storica e delle capacità che non temono confronti. E poiché si dà il caso che quellambito sia letteralmente questione di vita e di morte per il futuro del pianeta, è impossibile sopravvalutare leredità che noi europei possiamo dare al mondo che si globalizza rapidamente. Questo lascito è la forma storicamente assunta dalla cultura europea, ed è anche il nostro odierno contributo ad essa. Il futuro dellEuropa politica dipende dalle sorti della cultura europea».

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858105979
Argomento
Economia

1. Un’avventura chiamata Europa

Quando la principessa Europa fu rapita da Zeus trasformatosi in toro, suo padre Agenore, re di Tiro in Fenicia (la Siria di oggi), mandò i suoi tre figli maschi alla ricerca della sorella perduta. Uno di essi, Cadmo, fece vela verso Rodi, sbarcò in Tracia e vagò per le terre che in seguito avrebbero preso il nome della sua sventurata sorella. Giunto a Delfi, chiese all’oracolo dove si trovasse Europa. Su quel punto la Pizia, fedele alle sue abitudini, si mostrò evasiva, ma offrì a Cadmo un consiglio pratico: «Non la troverai. Prendi invece una vacca: la seguirai pungolandola, ma non lasciarla mai riposare. Nel punto in cui cadrà a terra sfinita, costruisci una città». Ecco la storia dell’origine mitica di Tebe (da cui, osserviamo noi col senno di poi, si avviò una concatenazione di eventi che fu il filo con cui Sofocle ed Euripide tesserono l’idea europea di legge, consentendo a Edipo di mettere in pratica quella che sarebbe divenuta la cornice fondamentale per l’indole, i tormenti e lo scenario di vita degli europei). «Cercare l’Europa – così Denis de Rougemont commenta la lezione di Cadmo – significa crearla! L’Europa esiste attraverso la sua ricerca dell’infinito, ed è questo che io chiamo avventura»1.
Avventura? Secondo l’Oxford English Dictionary questa parola in inglese medio significava ciò che accade senza un piano: il caso, la ventura, la sorte. Indicava anche un evento pieno di pericoli o una minaccia di perdita: rischio, azzardo, repentaglio; un’impresa arrischiata o un gesto sventurato. In seguito, avvicinandosi all’età moderna, adventure passò a significare il mettere alla prova la propria fortuna: un’operazione o un esperimento pieni di incognite, un’impresa nuova o eccitante, mai tentata prima. Nello stesso tempo nasceva un derivato: avventuriero (adventurer, attestato per la prima volta alla fine del XV secolo), termine altamente ambiguo, commisto di fato cieco e astuzia, di scaltrezza e prudenza, di inutilità e determinazione. Possiamo supporre che questi slittamenti semantici abbiano seguito la maturazione dello spirito europeo via via che faceva i conti con la sua stessa ‘essenza’.
Converrà notare che le peripezie di Cadmo non sono l’unica leggenda antica con questo messaggio – anzi! Secondo un’altra storia, i Fenici spiegarono le vele per trovare il mitico continente e scoprirono la realtà geografica destinata in seguito a diventare l’Europa... Infine, secondo un altro racconto ancora, dopo il diluvio, giunto il momento di spartire il mondo fra i suoi tre figli, Noè spedì Iafet (che tra l’altro in ebraico significa «bellezza») in Europa, per realizzare la promessa/ordine divino «siate fecondi e moltiplicatevi, siate numerosi sulla terra e dominatela» (Genesi, 9, 7). Noè rifornì Iafet di armi e lo rese baldanzoso con la promessa di un’espansione infinita, la dilatatio secondo la Vulgata e i Padri della Chiesa: «Dio dilati Iafet» (Genesi, 9, 27). Gli esegeti del messaggio biblico sottolineano che nella distribuzione di incarichi ai propri figli Noè doveva contare esclusivamente sulla valentia e l’industriosità di Iafet, dato che non gli diede nessun altro strumento di successo.
C’è un filo rosso che accomuna tutte le storie: l’Europa non è qualcosa che si scopre, bensì una missione, qualcosa da fare, creare, costruire. Per compiere quella missione occorrono un sacco di inventiva, determinazione e duro lavoro. Forse un lavoro che non finisce mai, una sfida a cui rispondere in toto, una prospettiva per sempre straordinaria.
Sebbene le storie divergano, in tutte indistintamente l’Europa è un luogo d’avventure. Avventure come i viaggi inter­minabili intrapresi per scoprirla, inventarla o evocarla; o come quelli che riempivano la vita di Odisseo, riluttante a ritornare alla piatta sicurezza della natia Itaca in quanto attratto più dall’eccitazione di rischi mai affrontati che dalle comodità della vita casalinga, e acclamato (forse proprio per questo) come precursore, o antenato, o prototipo dell’europeo. Gli europei erano gli avventurieri rispetto agli amanti della pace e della tranquillità: nomadi compulsivi e instanca­bili rispetto agli schivi e ai sedentari, vagabondi ed esploratori rispetto a quanti preferivano vivere in un mondo che fi­niva al recinto esterno del villaggio.
Vi è un’antica disputa che non ha ancora trovato soluzione: quel profondo e acuto osservatore che era Herbert George Wells aveva forse ragione quando affermava, riecheggiando un vecchio adagio, che «tra i ciechi l’orbo di un occhio è re»?2 O non sarà invece che, in quel paese, l’orbo può soltanto essere un mostro, una creatura sinistra e temuta da tutti i connazionali ‘normali’?
Con ogni probabilità, la discussione rimarrà aperta perché gli argomenti accampati da entrambe le parti sono ponderosi, e ciascuno di essi è a suo modo persuasivo. In ogni caso, occorre rilevare che nella disputa entrambi i contendenti danno per scontata una situazione ‘o/o’, là dove questa non esiste. Nel loro duello verbale è andata persa l’altra possibilità, quella di una situazione ‘e/e’: cioè che l’orbo sia un orco e al tempo stesso un re (circostanza certamente non rara nella storia sia passata che presente). Amato e odiato. Desiderato e avversato. Rispettato e insultato. Idolo da riverire e demonio da combattere all’ultimo sangue, a volte contemporaneamente, altre volte in rapida successione. Vi sono circostanze in cui il re orbo è sicuro di sé e può ignorare o liquidare, imperturbabile, i pochi acchiappa-mostri e gli occupatissimi detrattori e profeti di sventura che gridano nel deserto. Altre volte, comunque, il mostro orbo sarebbe più che lieto di rinunciare alle sue pretese regali, nonché alle sinecure e ai doveri che le accompagnano, per correre a cacciarsi in un rifugio sbarrando ben bene la porta dietro di sé. Ma forse non rientra nei poteri dell’orbo – di certo non soltanto nei suoi – scegliere fra regalità e mostruosità, come l’avventuroso europeo ha imparato e sta ancora imparando, con suo grande sconcerto o sconforto, dalle sue turbinose avventure.
Sono trascorsi più di due millenni da quando vennero composti i racconti delle origini europee, gli stessi che hanno creato l’Europa. Il viaggio iniziato e proseguito come un’avventura ha lasciato un deposito spesso e pesante di orgoglio e vergogna, affermazione e colpa. Ed è durato abbastanza a lungo perché sogni e ambizioni si concretassero in stereotipi, gli stereotipi si congelassero in ‘essenze’, e le essenze si fossilizzassero in ‘realtà’, dure come si presume che siano tutte le ‘realtà’. Come tutti i fatti veri, l’Europa, a dispetto di tutto ciò che l’ha resa ciò che è diventata, dev’essere una realtà e potrebbe (dovrebbe?) essere localizzata, inventariata e registrata. In un’epoca di territorialità e sovranità territoriale, si presume che tutte le realtà siano definite a livello spaziale e stabilite a livello territoriale, e l’Europa non fa eccezione. Nemmeno il ‘tipo europeo’ o gli ‘europei’ stessi fanno eccezione.
Aleksandr Wat, un insigne poeta dell’avanguardia letteraria polacca, che nel corso della sua vita passò dalle barricate rivoluzionarie al fango dei gulag che ha macchiato il continente europeo, ebbe modo di sperimentare appieno i dolci sogni e gli amari risvegli del secolo appena trascorso – tristemente noto per l’abbondanza di speranze e frustrazioni spaventose. Un giorno Wat si mise a rovistare fra i tesori e i rifiuti della sua memoria per svelare il mistero del ‘tipo europeo’, e alla domanda su quali fossero i suoi tratti caratteristici rispose così: «Delicato, sensibile, istruito, non viene meno alla parola data, non ruba l’ultimo tozzo di pane agli affamati e non denuncia i suoi compagni di cella al secondino...». Poi, dopo un istante di riflessione, aggiunse: «Uno così l’ho incontrato. Era armeno».
Una descrizione del genere si può contestare (in fondo, fra le caratteristiche degli europei rientrano anche quelle di non essere mai sicuri delle proprie caratteristiche, di dissentire e litigare su di esse), ma è difficile, suppongo e spero, contestare le due tesi implicate dall’apologo morale di Wat. Primo: la «essenza dell’Europa» tende a precorrere la «Europa reale», e rientra nell’essenza dell’«essere europei» avere un’essenza che sta sempre un passo avanti alla realtà e una realtà che sta sempre un passo dietro l’essenza. Secondo: mentre l’«Europa reale», quella dei politici, dei cartografi e di tutti i suoi portavoce – nominati da sé o a livello ufficiale –, può ben essere una nozione geografica e un’entità circoscritta nello spazio, l’«essenza» dell’Europa non si riduce né all’una né all’altra. Non si è per forza europei soltanto perché capita di nascere o di vivere in una città segnata sulla carta politica dell’Europa: si può essere europei anche se non si è mai stati in nessuna di quelle città.
Jorge Luis Borges, uno degli europei più eminenti in questo senso non-geografico, ha scritto della «perplessità» che inevitabilmente sorge ogniqualvolta si pensa alla «assurda accidentalità» di un’identità legata a uno spazio e un tempo particolari, e così facendo se ne svela la vicinanza a una finzione piuttosto che alla «realtà» – qualunque cosa pensiamo che sia quest’ultima3. È possibile che si tratti di una caratteristica universale di tutte le identità che si fanno risalire a un’eredità e a un’appartenenza, ma nel caso della «identità europea» questa caratteristica, quella «assurda accidentalità» menzionata da Borges forse risalta maggiormente e suscita più perplessità di tante altre. Sintetizzando la confusione che attualmente domina ogni tentativo di definire esattamente l’identità europea4, Alex Warleigh osservava di recente che gli europei (nel senso di ‘cittadini dei Paesi membri del­l’Unione Europea’) «tendono a porre l’accento sulle loro diversità anziché su ciò che hanno in comune»; d’altro canto, «quando si parla di un’identità ‘europea’ non è più possibile circoscriverne la portata agli Stati membri dell’Unione europea in alcun modo che sia valido analiticamente». E, come ri­badisce il grande storico Norman Davies, è sempre stato difficile decidere dove cominci e dove finisca l’Europa in ­senso geografico, culturale ed etnico. Sotto questo profilo, oggi non è cambiato nulla. L’unica novità è il rapido aumento delle commissioni permanenti e ad hoc, dei congressi accademici e delle assemblee pubbliche, tutti dedicati esclusivamente, o quasi, alla quadratura di questo particolare cerchio.
Ogni volta che sentiamo pronunciare la parola ‘Europa’ non ci è subito chiaro se essa si riferisca alla realtà territoriale concreta e circoscritta che esiste entro i confini stabiliti e meticolosamente tracciati da documenti legali e trattati politici non ancora revocati, oppure all’essenza che fluttua liberamente qua e là senza confini e sfidando ogni limite e vincolo spaziale. Ed è proprio questa difficoltà, diciamo pure questa impossibilità di parlare dell’Europa separando in modo chiaro e distinto la questione dell’essenza dai fatti della realtà, che caratterizza i discorsi sull’Europa rispetto a gran parte dei normali discorsi su entità dotate di riferimenti geografici.
La natura fastidiosamente eterea e l’ostinata extraterritorialità della ‘essenza’ insidiano ed erodono la solida territorialità delle realtà europee. L’Europa geografica non ha mai avuto confini fissi ed è improbabile che ne acquisirà mai finché la sua ‘essenza’ continuerà ad avere le caratteristiche che ha avuto finora: liberamente fluttuante, connessa solo vagamente (ammesso che lo sia) a una qualche regione dello spazio. E tutte le volte che gli Stati europei hanno cercato di tracciare le loro comuni frontiere ‘continentali’, di assumere guardie di confine armate fino ai denti e funzionari delle dogane e degli uffici immigrazione per farle rispettare, non sono mai riusciti a sigillarle, a renderle stagne e impermeabili. Ogni linea di confine rimane una sfida per il resto del pianeta e un invito sempre valido alla trasgressione, un’apertura allo sconfinamento.
L’Europa concepita come ideale (chiamiamolo «europeismo») sfida la proprietà monopolistica. Non può essere ne­gata all’«altro», dal momento che incorpora il fenomeno della «alterità»: nella prassi dell’europeismo lo sforzo perpetuo di separare, espellere ed esteriorizzare è frustrato costantemente dal chiamare in causa, ammettere, adattare ed assimilare l’«esterno». Hans-Georg Gadamer lo riteneva il punto a favore dell’Europa: la sua abilità «di vivere con l’altro, vivere come l’altro dell’altro», la capacità e necessità di «imparare a vivere insieme all’altro» anche se gli altri non le sono simili. La vita europea è condotta nella presenza costante e in compagnia degli altri e dei diversi, e il modo di vita europeo è una negoziazione continua che prosegue a dispetto dell’alterità e della differenza che divide coloro i quali sono impegnati nella e dalla negoziazione stessa5.
Dipende forse da tale interiorizzazione della differenza che segna la condizione dell’Europa, se l’Europa (secondo la memorabile formulazione di Krzysztof Pomian) è il luogo di nascita di una civiltà trasgressiva, una civiltà della trasgressione (e viceversa!)6. Possiamo dire che, se misurata in base ai suoi orizzonti e alle sue ambizioni (ma non sempre anche in base ai suoi atti), questa civiltà o questa cultura era e rimane un modo di vita allergico alle frontiere, anzi a ogni fissità e finitezza. Sopporta a stento i limiti. È come se tracciasse dei confini unicamente allo scopo di orientare il suo impulso indomabile alla trasgressione. È una cultura intrinsecamente espansiva, caratteristica questa strettamente legata al fatto che l’Europa è stata il luogo dell’unica entità sociale che, oltre a essere una ‘civiltà’, si sia anche definita e si sia considerata tale, cioè il prodotto di una scelta, di un progetto e di una gestione, e così facendo ha rimodellato la totalità delle cose, compresa se stessa, come qualcosa di non finito in linea di principio, oggetto di attento esame, di critica e magari di intervento riparatore. Nella sua versione europea, la ‘civiltà’ (o la ‘cultura’, concetto difficilmente separabile da quello di civiltà, malgrado le sottili argomentazioni dei filosofi e i meno sottili tentativi dei politici nazionalisti) è un processo continuo di rifacimento del mondo, sempre imperfetto eppure ostinatamente in lotta per raggiungere la perfezione. Anche quando tale processo è attuato in nome della ­conservazione, l’inguaribile incapacità che hanno le cose di restare come s­ono e la loro abitudine di sfidare con successo ogni manipolazione indebita (ma non una manipolazione opportuna) costituiscono l’assunto comune di ogni conservazione, vista (come la vedono, appunto, i conservatori) come un lavoro da svolgere, anzi quell’assunto è il motivo principale di considerarla alla stregua di un lavoro che va fatto.
Parafrasando la battuta di Hector Hugh Munro (altrimenti noto come Saki) potremmo dire che la gente dell’Europa ha fatto più storia di quanta ne potesse consumare a livello locale. Per quanto concerne la storia, l’Europa era senz’altro un paese esportatore, con un saldo commerciale con l’estero (fino a un periodo abbastanza recente) coerente­mente positivo...
Affermare che tutti i gruppi umani possiedono ‘una cultura’ è banale, ma non lo sarebbe se l’Europa non avesse scoperto la cultura come un operare degli esseri umani sul mondo umano. È stata questa scoperta (per utilizzare i memorabili termini di Martin Heidegger) a estrarre la totalità del mondo umano dalle buie distese del zuhanden (ciò che è «a portata di mano» immediatamente, nei fatti, per consuetudine e quindi «in modo non problematico»), e l’ha trasferita sul palcoscenico illuminato a giorno del vorhanden (l’àmbito delle cose che si devono tenere d’occhio, maneggiare, manipolare, impastare, plasmare, rendere diverse da come sono, per adattarle a noi)7. A differenza del­l’universo del zuhanden, il mondo in quanto vorhanden implica il divieto di star fermi e un invito permanente, se non addirittura un comando, all’azione.
Ebbene, questa scoperta del mondo-come-cultura, una volta compiuta, non ci è voluto molto perché divenisse conoscenza comune. Era, potremmo dire, un genere di conoscenza singolarmente inadatto alla proprietà privata, per non dire al monopolio, nonostante gli sforzi in tal senso di paladini e custodi dei «diritti di proprietà intellettuale»: l’idea di cultura, in fin dei conti, era sinonimo della scoperta che tutte le cose umane sono fatte dall’uomo, altrimenti non sarebbero umane. Nonostante questa conoscenza comune, i rapporti fra la cultura europea – l’unica a rivendicare la scoperta di sé – e tutte le altre culture del pianeta sono stati tutt’altro che simmetrici.
Secondo la brillante formulazione di Denis de Rougemont8, l’Europa ha scoperto tutte le terre della Terra, ma nessuno ha mai scoperto l’Europa: essa ha dominato tutti i continenti, uno dopo l’altro, ma non è mai stata dominata da alcuno di essi; e ha inventato una civiltà che il resto del mondo ha tentato di imitare, oppure è stato obbligato con la forza a replicare, mentre non è mai accaduto (almeno finora) il contrario. Queste sono le «verità nude e crude» di una storia che ha portato noi, e il resto del pianeta insieme a noi, al punto che tutti condividiamo adesso. Quindi l’Europa, secondo Rougemont, si può definire in base alla sua «funzione globalizzante». Essa potrebbe essere stata, a lungo e coerentemente, un angolo insolitamente avventuroso del globo; ma le avventure in cui si è imbarcata nei suoi oltre due millenni di storia «si sono rivelate decisive per l’intero genere umano». Anzi, proviamo solo a immaginare la storia del mondo orfana dell’Europa.
Goethe definì prometeica la cultura europea. Prometeo rubò il fu...

Indice dei contenuti

  1. Ringraziamenti
  2. 1. Un’avventura chiamata Europa
  3. 2. All’ombra dell’impero
  4. 3. Dallo Stato sociale allo Stato di sicurezza
  5. 4. Verso un mondo ospitale per l’Europa
  6. Postfazione. Lo spettro della «sovranità vestfalica»
  7. Note