Il povero
Se si volessero tessere le lodi di un imperatore romano vissuto dopo il II secolo dell’era cristiana, sarebbe quasi d’obbligo paragonarlo al grande Traiano, che visse all’inizio di quel secolo. Marco Cornelio Frontone, cortigiano e confidente dell’imperatore Marco Aurelio, scrisse nel 165 d.C. una Introduzione alla storia, dedicata alle imprese partiche del fratello dell’imperatore, Lucio Vero, in cui Traiano era inevitabilmente chiamato in causa per mostrare come conquistarsi il favore del popolo. Ma ciò che Frontone dice è abbastanza rivelatore del modo in cui l’aristocrazia romana considerava le classi inferiori: «Affidandosi ai principi più alti della saggezza politica, l’imperatore non trascurava mai gli attori e gli altri protagonisti del circo e dell’anfiteatro. Egli sapeva bene che i Romani sono conquistati da due cose soprattutto, la distribuzione di grano e i pubblici spettacoli. Il governo di un imperatore è valutato sul metro dei divertimenti non meno che delle cose serie. Trascurare gli affari importanti può provocare un danno più grande, ma trascurare i divertimenti provoca maggiore malcontento. L’elargizione di doni gratifica solo i plebei iscritti nelle liste frumentarie, e solo uno per volta quando è chiamato il loro nome. Ma dagli spettacoli sono gratificati tutti» (17).
Questo passo è carico dei pregiudizi tipici del romano ricco verso il povero, in particolare verso la sua dissennata devozione al pane e al circo di cui il poeta Giovenale tracciò una caricatura immortale nelle sue satire più pungenti (10, 79-81). Ma esso contiene anche un’allusione a ciò di cui meno spesso si fa menzione: il fatto che un’intera fascia dei poveri di Roma che frequentava gli spettacoli non ricevette mai una pubblica elargizione di grano o di denaro. Se poi consideriamo che anche il più grande degli spettacoli, i giochi del Circo Massimo, poteva essere visto da non più di 250 mila persone (il Colosseo poteva contenerne soltanto 50 mila), allora cominciamo a renderci conto che dell’intera popolazione cittadina (da un milione a un milione e mezzo di persone) una parte considerevole dei «veri» poveri non assisteva ad alcuna delle spettacolari blandizie che si vuole corrompessero la plebe romana. Naturalmente anche i ricchi si accalcavano agli spettacoli e a volte non disdegnavano di mettersi in coda per i buoni annonari senza sentirsi degradati. Plinio il Giovane, dal canto suo, apprezzava i giochi gladiatorii in quanto preparavano gli spettatori alla morte e alla sofferenza.
Nel corso della storia i ricchi hanno creato, a loro uso e consumo, un’immagine stereotipata della povertà. «Una delle caratteristiche dell’ineguaglianza», afferma una recente indagine su questo tema, «è che molte delle persone che da essa hanno più da guadagnare, non ne sono coscienti o non vogliono pensarci». Questa indifferenza deriva dalla radicata, istintiva convinzione che i poveri siano una parte – persino subumana – dell’ordine naturale e stabilito del mondo (quasi una struttura). Al tempo stesso, si ritiene paradossalmente che i poveri siano da biasimare per la loro stessa condizione (una congiuntura). L’esistenza del povero in un’età di relativo benessere forniva al filosofo del Seicento John Locke la convinzione che la povertà non venisse dalla «scarsità di derrate alimentari» né «dalla mancanza di occupazione» ma da «un rilassamento della disciplina» e «dalla corruzione dei costumi».
Il crimine, dunque, le tare mentali e fisiche, l’ignoranza congenita e le famiglie troppo numerose diventavano parte degli aspetti strutturali e naturali della povertà, ai quali, nella mente dei ricchi, si riconnetteva l’inevitabile e conveniente corollario che in fin dei conti i poveri erano contenti della loro sorte. La povertà congiunturale, comunque, ha sempre scoraggiato la carità e le attività assistenziali, in virtù del pregiudizio secondo cui, per questa via, si creano fannulloni, parassiti, scrocconi, che finiscono per provocare disordini sociali e politici. Nelle comunità rurali dell’Europa preindustriale era opinione comune, malgrado i cattivi raccolti e le carestie, che le opere di assistenza spingessero i campagnoli più oziosi ad affollare i centri urbani. Città come Bergamo nel XVI secolo, o Lione nel XVII, escludevano dalle liste di carità i vagabondi, gli emigranti e i forestieri.
Ciò che importa di tali stereotipi non è se essi rispondessero a verità, ma il fatto che legittimavano i ricchi al godimento del loro benessere.
Non ci sorprende dunque che Greci e Romani rappresentassero in modo quasi identico la tipologia strutturale e congiunturale della povertà. Sono questi i pregiudizi più diffusi nelle nostre fonti, scritte dai ricchi per i ricchi. Aristotele immagina una società ideale, in cui i poveri «siano a tal punto sottomessi da non poter comandare ma solo obbedire... uno stato di schiavi e padroni» (Politica, 1266b). Dal momento che il lavoro e la proprietà si escludevano a vicenda, Platone descriveva sia gli schiavi che i lavoratori poveri e nullatenenti, come esseri che non erano padroni di se stessi né dei loro naturali istinti animali (Repubblica, 590c; cfr. Lettere, 7, 351a). Secondo Plotino, la sola funzione dei lavoratori manuali era di produrre gli oggetti necessari agli uomini virtuosi. «Il lavoro salariato – affermava Cicerone – è sordido e indegno di un uomo onesto» (Dei doveri, 1, 150). Non c’erano bellezza né dignità nelle arti del lavoratore (Seneca, Lettere, 88, 21). Era dunque naturale che le classi lavoratrici fossero povere e soggette a ogni vizio. La frode e la menzogna erano inevitabilmente tipiche di coloro che si applicavano ad un lavoro disonorevole (Cicerone, Tuscolane, 1, 1-25). «Nella povertà – diceva Seneca – c’è posto per un solo genere di virtù, quella di non farsi piegare o schiacciare da essa» (La vita beata, 22).
Tuttavia, nonostante questo radicato modo di sentire la povertà strutturale e malgrado la visione pessimistica del lavoro, i Romani non mancarono mai di moraleggiare sulle virtù romantiche del duro lavoro – solitamente quello dei campi – e sulle colpe del povero che non ne era capace. «Un prolungato, duro lavoro», scrive Virgilio, «ha ragione di ogni difficoltà» (Georgiche, 1, 145) e Seneca afferma che non c’è virtù raggiungibile senza lavoro (Della vita beata, 25, 5). Il termine latino iners, riferito all’uomo senza lavoro, implica pigrizia, e il linguaggio dei poeti e dei prosatori è ricco di simili epiteti dispregiativi che si riferiscono alla povertà considerata «un male immondo e turpe, incline al crimine». Sentiamo risuonare la disapprovazione morale della povertà in un graffito pompeiano: «Odio i poveri. Se qualcuno vuole qualcosa per niente, è pazzo. Deve pagarla» (CIL 4, 9839b). Un uomo povero era automaticamente considerato nei tribunali un testimone sospetto «poiché la sua povertà può far pensare che cerchi un tornaconto» (Digesto, 22, 5, 3). Aristotele ci fornisce anche un accenno al moderno stereotipo del povero di incauta sessualità e numerosa famiglia, quando afferma che «se non viene imposta alcuna restrizione alla prolificità... la povertà è l’inevitabile risultato» (Politica, 1265b).
Una delle fonti più significative è lo storico e uomo politico della tarda repubblica Sallustio, che scrisse un piccolo trattato morale sulla cospirazione di Catilina del 63 a.C. La sua opera rivela una paura e un odio patologici nei confronti dei poveri, piena com’è di espressioni quali «l’insania dei poveri», che «invidiano i buoni e apprezzano i cattivi», che «odiano i vecchi» e «odiano la loro stessa condizione». Egli esprime un tipico modo romano di considerare la povertà congiunturale, che è molto simile a quello del XVI secolo, combinando un totale disinteresse per il lavoro malpagato con il terrore dell’impudenza e della criminale amoralità della plebs urbana: «La gioventù, che nelle campagne aveva trascinato una vita misera col lavoro delle braccia, allettata dalle largizioni pubbliche e private, aveva preferito l’ozio alle ingrate fatiche... Non c’è da meravigliarsi, dunque, che uomini bisognosi, di indole malvagia e sconfinata ambizione, avessero per lo Stato la stessa considerazione che avevano per se stessi» (La congiura di Catilina, 37).
Tutti i moderni studi sulla povertà convengono assiomaticamente sul fatto che essa è una condizione più facile da descriversi che da definirsi. Tutti i tentativi di classificarla sono arbitrari, relativi e fondati su una mutevole scala di privazioni. Il filo...