L'uditore e lo spettatore
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L'uditore e lo spettatore

  1. 20 pagine
  2. Italian
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L'uditore e lo spettatore

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I Greci sono un popolo di spettatori. Curiosi per natura gli uni degli altri, attenti alle differenze tra loro e l'Altro i non Greci, i «barbari», sono buoni osservatori e abili narratori. Entrambe le qualità spiccano in tutta l'opera dei due grandi narratori che si situano all'inizio e alla fine dell'età arcaica: Omero, che compose e recitò oralmente i suoi grandi canti epici alla fine dell'VIII secolo a.C., ed Erodoto, con il racconto delle guerre persiane degli anni 490-479 e l'ampia rassegna delle civiltà che circondavano quella greca.Acquista l'ebook e continua a leggere!

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858100295
Argomento
Storia
Categoria
Storia antica

L’uditore e lo spettatore

Visione, monumento, memoria

I Greci sono un popolo di spettatori. Curiosi per natura gli uni degli altri, attenti alle differenze tra loro e l’Altro – i non Greci, i «barbari» –, sono buoni osservatori e abili narratori. Entrambe le qualità spiccano in tutta l’opera dei due grandi narratori che si situano all’inizio e alla fine dell’età arcaica: Omero, che compose e recitò oralmente i suoi grandi canti epici alla fine dell’VIII secolo a.C., ed Erodoto, con il racconto delle guerre persiane degli anni 490-479 e l’ampia rassegna delle civiltà che circondavano quella greca.
Tutti e due sono affascinati dalle immagini che fluttuano sulla superficie del mondo, a tutti e due piace fissare nelle parole l’infinita varietà dei comportamenti umani: il modo in cui gli uomini si vestono, parlano, adorano i loro dei; il sesso, il matrimonio, la famiglia, la guerra, l’architettura, e così via. Ad entrambi è anche noto il potere di seduzione della curiosità, il desiderio di vedere e di conoscere. L’Odissea si apre con l’eroe che «di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri» (1.2). All’inizio delle sue Storie, Erodoto narra la storia di Candaule e Gige, un racconto imperniato sul potere della visione, l’osservazione segreta del corpo di una donna, attraverso cui il re di Lidia, Candaule, intende mostrare al suo luogotenente la straordinaria bellezza della sua amata moglie (1.8.2). Erodoto, infatti, fa introdurre la storia da Candaule, con l’affermazione di tipo generale secondo cui «gli uomini prestano meno fede a quello che odono, in confronto a quello che vedono» (1.8.3). Ma nella storia cui egli dà inizio in questo modo è la visione ad essere all’origine di un tragico intreccio di amore, voyeurismo, tradimento, vergogna e inganno. In Omero, l’impatto visivo della bellezza femminile è altrettanto potente, e altrettanto foriero di tragiche conseguenze. Quando gli anziani di Troia vedono «Elena venire verso la torre», la paragonano ad una dea immortale, e per un attimo arrivano forse a pensare che valga la pena di combattere una guerra per lei (Iliade, 3. 154-60).
In scene del genere noi, i lettori, diveniamo effettivamente spettatori del potere stesso della visione. Per rimanere ai nostri due esempi, sia Omero che Erodoto tendono a stimolare e ad amplificare l’immaginazione visiva dei lettori. Il guerriero omerico sta dinanzi a noi «splendido a vedersi», thàuma idèsthai, secondo la ricorrente formula epica. La sua forza è immaginata visivamente: fulgido nelle sue armi scintillanti, spicca per la terribile cresta e per le piume dell’elmo, ed è spesso rappresentato in rapido movimento, tale da suscitare paragoni con esempi tratti dal mondo della natura e che colpiscano l’occhio, come grandi animali, uccelli rapaci, il fuoco, il fulmine nel cielo. Analogamente, Erodoto seleziona e descrive ciò che è «degno di essere visto», axiothèeton. Il complesso della sua opera è un’«esposizione», o «descrizione», apòdeixis (1.1). Ad Erodoto, come ad Omero, interessa la conservazione delle grandi imprese degli uomini con qualcosa di verbalmente equivalente al monumento.
Con Erodoto, siamo di fronte ad uno dei primi esempi di scrittori in prosa che siano stati autori di opere di grande mole, e abbiano lasciato queste memorie del passato, appunto, in forma scritta. Ma anche per il poeta orale la conservazione delle grandi imprese avviene potenzialmente attraverso l’occhio quanto attraverso l’orecchio. Ettore, sfidando i capi greci nel settimo libro dell’Iliade, promette che la memoria del suo avversario vivrà in forma di un «tumulo», il suo monumento funebre (sèma) sull’Ellesponto. Qui ispirerà altre parole, come quelle che verranno dette da «qualcuno tra gli uomini futuri / navigando con nave ricca di remi il livido mare: / ‘ecco tomba d’eroe che morì anticamente: / l’uccise – ed era un forte – Ettore luminoso’. / Così dirà qualcuno, e non perirà la mia fama» (7.88-91).
Ma da solo il monumento, anche se «visibile da lontano», non può parlare. Ha bisogno della voce di un uomo, e in questo caso il poeta provvede con le parole dette da Ettore. La situazione è analoga a quella delle antiche statue. L’iscrizione dà voce alla pietra muta, dicendo: «Io sono la tomba, il monumento o la coppa del tale». Un monumento che non possieda questa voce non può venire ricordato: non ha una storia da raccontare, non ha klèos (fama, da klùein, udire) cui gli uomini possano «prestare orecchio» nei tempi a venire. È solo una cosa inerte, come il segno che serve a delimitare il campo di gara per le corse dei carri ai funerali di Patroclo, semplicemente «tomba d’un uomo morto in antico» (Iliade, 23.331). L’espressione è la stessa usata da Ettore nel settimo libro, ma qui il segno non ha nulla da dire, non può destare alcun ricordo, e così rimane muto, niente più che una cosa su cui i carri si avventano, per passare poi oltre.
Ciò che è «memorabile» diviene klèos, in grado cioè di resistere al tempo, dopo che è stato «udito». La peggior sciagura per un uomo è in Omero il morire akleès, senza lasciare una storia che possa eternare la sua memoria in una comunità. Sarebbe stato meglio, dice Telemaco nel primo libro dell’Odissea, se Odisseo fosse morto a Troia, perché allora «tutti gli Achei gli avrebbero fatto una tomba / e anche a suo figlio avrebbe acquistato gran gloria (klèos) per dopo. / Ma ora se lo portarono ingloriosamente (akleiòs) le Arpie». In questo modo, anche «ciò che si dirà» di un uomo nella sua città può diventare il criterio primario per l’azione, come nella fatale decisione presa da Ettore di sfidare Achille in battaglia (Iliade, 22.105-8). Ettore è l’esempio più compiuto che si possa ritrovare nell’epica di questo nuovo ethos della polis, l’eroe in cui più forte e sostanziale è il rapporto con questa voce della comunità.
Questa funzione dell’«ascolto» come meccanismo di controllo sociale, comunque, è solo una piccola parte dell’esperienza acustica collegata all’epica. Omero ed Esiodo insistono con grande piacere sulla dolcezza e sulla limpidezza della voce e della lira. Il canto, i racconti e l’ascolto dei racconti costituiscono una parte importante della trama dell’Odissea. Nell’Iliade, Achille, al momento della visita degli ambasciatori, «con la cetra sonora si dilettava, / bella, ornata» (9.186), raro esempio di canto solitario. C’è pathos anche nei due pastori effigiati nello Scudo, che «si dilettavan col flauto», ignari del tranello che li attende (18.525 sgg.). I grandi momenti culminanti sono segnati da suoni poderosi: il tuono di Zeus alla fine del settimo libro dell’Iliade; il grido di dolore di Achille alla morte di Patroclo, udito da Teti nelle profondità marine (Iliade, 17.35), o il suo urlo dal fossato, che risuona come uno squillo di tromba intorno ad una città fortificata (Iliade, 18.207 sgg.). Raccontando il suo assassinio da parte di Clitennestra, Agamennone aggiunge, particolare toccante, di «aver udito» mentre moriva la voce di Cassandra che veniva uccisa accanto a lui (Odissea, 11.421 sgg.).
La sopravvivenza nella memoria dipende dall’udito; ma nell’epica, come nella tragedia, è la vista che permette la rappresentazione più vigorosa ed articolata delle emozioni. L’agnizione tra Odisseo e Penelope, più volte rimandata, avviene con un delicato gioco di sguardi: lui, seduto dinanzi a lei, abbassa il suo (23.11), mentre lei siede in silenzio e guarda ora lui, ora le sue vesti, e ribatte all’impazienza e alla stizza di Telemaco di non poter né rivolgersi a lui direttamente, né «guardare diritto il suo volto» (105-7).
La visione domina anche la scena culminante dell’Iliade. Priamo ed Achille si scambiano sguardi di stupore e di ammirazione (24.629-34). Ma qui la visione illustra anche la precarietà di quest’attimo di sospensione. Priamo chiede di poter riscattare suo figlio, «che possa vederlo» (24.555). Achille, come Omero, conosce l’enormità della reazione che una tale vista avrebbe potuto scatenare; così ordina che il corpo di Ettore sia lavato in un altro luogo, «ché Priamo non lo vedesse, / e nel cuore angosciato non trattenesse più l’ira / alla vista del figlio, e l’animo si gonfiasse ad Achille, / e lo uccidesse, violasse il comando di Zeus» (24.583-86).

Gli spettacoli della gloria: re, guerriero, atleta

Dato il profondo radicamento della poesia greca nelle funzioni comunitarie del canto e del racconto nell’ambito di una cultura orale, le stesse occasioni in cui essa viene recitata possono essere trasformate in esibizioni dell’ordine sociale, ...

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  1. L’uditore e lo spettatore