Il passato di bronzo
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Il passato di bronzo

L'eredità della guerra civile nella Spagna democratica

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Il passato di bronzo

L'eredità della guerra civile nella Spagna democratica

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È giusto che i teatri del lutto e del sangue lascino il posto alla pace quotidiana, a lunghi momenti di oblio e a una conoscenza degli eventi passati meno carica di sentimenti di rivalsa e di ogni altra passione distruttiva che possa essere evocata dal vivido ricordo dei caduti di una guerra fratricida. Sentire troppo l'uno o l'altro dei singoli dolori di cui si compone una guerra civile impedisce di sentire il dolore collettivo e di attenuarlo quel tanto che occorre per capirne le ragioni. Nella Spagna attuale gli impedimenti perché questo avvenga sono ancora molto forti. Lo spazio civico è ancora molto ingombro di salme della guerra civile. Ma ciò non avviene perché gli spagnoli siano più di altri implacabili e inclini alla vendetta. C'è una sequenza di eventi che spiega questo. Essi attengono più alla storia recente che a quella remota. Ed è dunque dalla storia recente che occorre partire per capire le ragioni di quella sorta di immortalità della guerra civile, la sua perdurante presenza nella vita degli spagnoli, che li ha costantemente accompagnati nel corso del tempo come fantasma familiare sia nel silenzio che nelle dispute aperte.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858118627
Argomento
Storia

III. Il peso del passato

Quando il monumento al Caudillo è stato rimosso dal paseo de la Castellana, anche tra coloro che non avevano alcuna nostalgia del Generalissimo ci sono stati diversi commenti sfavorevoli. Alcuni temevano che il provvedimento potesse provocare nuove fratture, nuovi conflitti, nuove risorgenze aggressive della destra estrema. E questo mostra quanto lontano sia arrivata nelle sue ultime propaggini l’onda lunga della paura che ha accompagnato tutto il percorso della transizione. Ma altri si sono detti contrari perché, come dichiarava Gonzalo Anes, direttore della Real academia de la historia, le statue di Franco «sono testimonianze del passato, come gli archivi e i documenti, e dobbiamo conservarle perché sono la memoria che ci resta»1.
Posto che il problema non è conservare ma esporre al pubblico, alla base di questa opinione, condivisa da altri, c’è un’idea della funzione dei monumenti da museo delle cere, dove le effigie di Enrico VIII o di Hitler figurano accanto a quelle di Thomas Becket o di Roosevelt con pari dignità, indipendentemente dalle ragioni per le quali quegli uomini sono passati alla storia. E tuttavia in ogni paese, qualunque ne sia il regime, la tradizionale funzione dei monumenti non è questa. Essi servono ad onorare coloro che possono essere considerati «glorie nazionali» di ogni epoca e a celebrare in particolare gli uomini politici, i governanti, i combattenti che hanno contribuito a edificare, consolidare e difendere le vigenti istituzioni dello Stato. Attraverso l’esempio dei personaggi su cui richiamano l’attenzione trasmettono, soprattutto alle giovani generazioni, un messaggio formativo diretto a rafforzare il rispetto e la valorizzazione del sistema politico che quegli uomini hanno instaurato, fatto progredire o difeso. Se si tratta di un sistema dittatoriale mediante i monumenti del dittatore si perseguirà il rispetto e l’esaltazione della dittatura. Per questo la Spagna era zeppa di statue di Franco. Se si tratta di un sistema democratico quei monumenti hanno il compito di rafforzare il rispetto e la valorizzazione della democrazia. Per questo in Francia vi sono monumenti al generale De Gaulle e non al maresciallo Pétain, e in Italia a De Gasperi – pochi per la verità – e non a Mussolini.
Invece nella Spagna degli ultimi trent’anni, durante i quali si è andato costruendo un sistema politico di compiuta democrazia liberale, si è continuato a tenere in onore, attraverso le sue rappresentazioni monumentali, un uomo come il generale Franco che della democrazia è stato ed è rimasto costantemente un acerrimo nemico. Perché, come ebbe a mostrare più volte, con dichiarazioni e atti, nel corso della sua lunga dittatura, per lui «il comunismo era naturalmente una creazione satanica; ma la democrazia e il liberalismo erano qualcosa di peggio, poiché attentavano dall’interno contro l’essenza della nazione spagnola»2.
Il che equivale a dire che nella Spagna democratica si sono mantenuti intatti i monumenti in bronzo o in marmo all’antidemocrazia. Con la conseguenza che il peso di quel bronzo e di quel marmo, simboli dell’impunità del franchismo – e anche del minaccioso fantasma dei suoi eredi militari –, non ha finito di gravare sulla vita politica del paese, ha continuato a distorcere la percezione del passato, ha impedito di superare definitivamente la guerra civile attraverso una giusta presa di distanze.
Una democrazia in cui ci sono ancora i monumenti all’antidemocrazia non ha infatti basi abbastanza solide, perché non potendo sconfessare fino in fondo dittatore e dittatura attraverso l’elementare ma pregnante atto simbolico dell’abbattimento dei loro idoli, non riesce ad esaltare a pieno il suo stesso valore. Tanto più se non ha luoghi di memoria suoi propri mediante i quali impartire la sua educazione civica democratica. Perché nemmeno questo si è osato o si è riusciti a fare: innalzare in luoghi ancora più eminenti e visibili monumenti il cui significato evidente fosse il ripudio della dittatura e un’esaltazione della democrazia.
In realtà qualcosa si è fatto che da alcuni è stato interpretato come un primo passo in questa direzione. Tra il 1984 e il 1985 a Madrid, a poca distanza dalla statua equestre di Franco, sono stati collocati due monumenti – in verità assai più modesti di quello del Caudillo – dedicati a Largo Caballero e a Indalecio Prieto. I busti di quei personaggi, anch’essi situati opportunamente distanti tra loro, visto che i due si erano sempre fieramente avversati all’interno del movimento socialista, dovevano rappresentare, nelle intenzioni di coloro che avevano stabilito di erigerli e porli in quel luogo, un contrappeso democratico al monumento alla dittatura. Così li hanno certamente intesi gli estremisti di destra che li hanno imbrattati di vernice per vendicare la rimozione della statua del Generalissimo. Così ne apprezzava il significato, esaltandone la valenza simbolica, Víctor Pérez-Díaz, quando scriveva: «Gli spagnoli hanno combinato simboli che prima erano contrapposti, e li hanno fatti coesistere gli uni accanto agli altri. Così si possono trovare strade intitolate a generali franchisti vittoriosi, o intitolate a figure della sinistra dell’epoca repubblicana», ed indicava come «espressione più eloquente di questa politica simbolica di coesistenza pacifica» proprio il fatto che accanto alla statua di Franco fossero state erette quelle dei due leader socialisti3.
Tuttavia, anche accettando come pienamente realizzata «questa politica simbolica di coesistenza pacifica» – ma in realtà il bilancio dei luoghi di memoria era assai squilibrato a favore dei franchisti – di essa può dirsi la stessa cosa che si può dire di tutta la transizione spagnola. È stata quanto possibile. Nessuna persona assennata potrebbe pensare che sarebbe stato meglio un passaggio più traumatico alla democrazia, se non altro perché si sarebbe probabilmente concluso con la vittoria di un’altra dittatura. Così pure, un abbattimento a furor di popolo di tutte le vestigia del regime, seguito dalla glorificazione monumentale degli eroi della Repubblica, avrebbe fatto correre un serio rischio di arrivare a quello stesso risultato.
Ma bisogna avere ben chiaro che quella «coesistenza pacifica», a lungo inevitabile, anziché costituire l’optimum per la democrazia l’ha debilitata, impedendo proprio il giusto distacco – asimmetrico ma distacco – soprattutto delle giovani generazioni, da tutto quel travagliato passato e dai suoi protagonisti. Un distacco che avrebbe dovuto essere una premessa assolutamente necessaria a una piena valorizzazione dell’attuale sistema democratico. Tenendo in onore gli uni e gli altri si è data invece l’immagine di istituzioni incerte della loro legittimità storica o, peggio ancora, incapaci di rivendicarla. Istituzioni che timidamente ammiccavano una loro predilezione per la passata Repubblica ma non prendevano posizioni nette, limitandosi a lasciare ai sostenitori degli antichi contendenti degli spazi monumentali commisurati alla loro forza. Spazi quindi squilibrati in favore dei franchisti, mentre si lasciava rappresentare il contrappeso repubblicano – inteso senz’altro come sinonimo di democratico – a chiunque del fronte antifranchista lo avesse preteso con più vigore, perpetuando un malinteso che alla democrazia poteva solo nuocere.
Il caso del monumento a Largo Caballero ne è l’esempio più significativo. Perché, quali che possano essere le valutazioni che del personaggio si possano dare in sede storiografica, è certamente fuorviante affidargli, oggi, il compito di contrappeso democratico alla dittatura. E affidargli quindi, in quella dialettica di monumenti, il compito di rappresentare le radici dell’odierna democrazia.
In verità qualche dubbio su tale rappresentatività doveva essere già venuto a qualcuna delle autorità che avevano accolto la richiesta di innalzare quel monumento. E l’espressione di quel dubbio e imbarazzo sta nell’iscrizione che vi appare nel piedistallo: «Francisco Largo Caballero ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale 1931-1933». Un’iscrizione le cui omissioni appaiono quasi ridicole, perché la circostanza che la statua sia stata collocata proprio davanti al Ministero del Lavoro non può assolutamente giustificare la rimozione da quella dedica del fatto che Caballero ha occupato un ruolo di ben maggior rilievo in uno dei periodi più drammatici della storia del paese, e cioè quello di capo del governo repubblicano durante la guerra civile, dal settembre del 1936 al maggio del 1937.
Il fatto è che in quel ruolo egli si distinse per la sua decisa ostilità ad ogni possibile restaurazione di un sistema di democrazia liberale. A Stalin che nel dicembre del 1936 gli raccomandava di rimettere in funzione le Cortes onde «evitare che i nemici della Repubblica vedano in essa una repubblica comunista», rispondeva elusivamente affermando che comunque in nessuna delle forze che si battevano contro Franco si contavano «difensori entusiasti» del parlamento. Risposta falsa nella sua generalizzazione, ma molto veritiera per quanto riguardava lui stesso e tutte quelle forze rivoluzionarie socialiste, anarchiche e comuniste di cui il suo governo fu largamente espressione. Cosicché non solo egli si guardò bene dal restaurare le Cortes, ma fu soprattutto durante il periodo del suo governo che in tutta la Spagna repubblicana, dove più dove meno, si lasciò libero corso a un processo rivoluzionario fatto di micropoteri anarco-socialisti – naturalmente al di fuori di ogni processo di rappresentatività democratica – di espropri, di collettivizzazioni, di «tribunali del popolo» e più spicciative forme di «giustizia di classe»4.
Né si deve pensare che Caballero si fosse limitato ad assecondare un movimento popolare che aveva trascinato lui stesso ad assumere posizioni più radicali rispetto all’anteguerra. Al contrario, fin dal 1933, da quando i socialisti furono costretti ad abbandonare il governo, egli cominciò a proporre al suo partito la necessità di una conquista violenta del potere. In seguito, nell’ottobre del 1934, dopo la vittoria elettorale del centro-destra e nel timore di un colpo di Stato fascista, si fece promotore di una «rivoluzione preventiva» dagli esiti disastrosi che fu una vera «prova generale» di guerra civile. Quando poi nel 1936 si tornò alle urne – visto che il colpo di Stato fascista era stato più un fantasma che una realtà – espose con molta chiarezza in un pubblico discorso con quale spirito intendeva andare alla prova elettorale nella coalizione di Fronte Popolare:
Il nostro dovere è portare il Socialismo. E quando parlo di Socialismo [...] parlo di Socialismo marxista. E quando parlo di Socialismo marxista, parlo di Socialismo rivoluzionario [...]. La nostra aspirazione è la conquista del potere politico. Con quale metodo? Quello che potremo impiegare! [...]. E sia ben chiaro che andando [alle elezioni] con i repubblicani di sinistra non compromettiamo assolutamente in nulla la nostra ideologia e la nostra azione5.
Così, dopo che il Fronte Popolare ebbe vinto le elezioni, si oppose con tutte le sue forze alla costituzione di un governo repubblicano-socialista che si limitasse a riprendere la strada delle riforme, perorando costantemente che si imboccasse la via rivoluzionaria, annunciandola imminente, contribuendo così – visto che le sue esortazioni soffiavano su un fuoco già divampante – a fare precipitare il suo paese nella guerra civile6.
Forse, assai più dei suoi discorsi, vale a rappresentare l’atteggiamento con cui vivevano quella vigilia di guerra civile Caballero e gli uomini a lui più vicini quanto scriveva in quei giorni uno di essi, l’italiano Fernando De Rosa, stretto collaboratore del leader socialista, in una lettera alla madre:
Non ho un minuto di tempo libero, perché la marcia della rivoluzione spagnola si fa sempre più rapida e non è lontano il giorno in cui i repubblicani saranno travolti da un popolo che ha fame ed è stanco di ascoltare i discorsi di cinque o sei professori di filosofia, ingenui e romantici [...]. Viviamo così ore di lotta. Ogni notte o quasi ogni notte s’aspetta un colpo di stato degli ufficiali monarchici, che questi imbecilli di repubblicani non osano fucilare. Continuamente gli operai occupano nuove fabbriche ed i contadini nuove terre. La rivoluzione è in marcia7.
Quella di De Rosa non era solo l’intima confessione di un giovane un po’ esaltato, ma l’espressione privata di un’esaltazione rivoluzionaria che era comune a gran parte del movimento socialista e allo stesso Caballero, il quale, seppure con un linguaggio meno aggressivo nei confronti degli «alleati» repubblicani, si esprimeva in termini che nella sostanza erano altrettanto minacciosi non solo verso la destra, ma anche verso l’ordinamento democratico liberale allora vigente8. E, sia detto per inciso, quando lo studio della storia di quegli anni ci mostra in tutta evidenza che il colpo di Stato militare non può trovare alcuna giustificazione come azione preventiva rispetto a una cospirazione comunista, mai esistita9, e neppure in una effettiva capacità dei socialisti di Caballero di attuare una vera rivoluzione, quello stesso studio ci mostra però che la paura di una rivoluzione di tipo bolscevico, che ispirò l’appoggio di molti al golpe, era del tutto comprensibile.
Ma al di là delle più complesse valutazioni storiche sull’intera vicenda, che peraltro fanno apparire del tutto comprensibile anche l’impulso rivoluzionario di gran parte delle masse popolari, visto che le pessime prove date in passato dal sistema liberale spagnolo non potevano essere compensate da un tardivo e insufficiente riformismo sociale10, resta comunque il fatto che per tutto quanto detto la figura di Caballero appare assolutamente inidonea a rappresentare il contraltare della dittatura – alla dittatura franchista egli opponeva la «dittatura del proletariato» – in nome della democrazia. Attribuirgli simbolicamente questo compito significa perpetuare un equivoco che per un verso continua a proporre agli spagnoli una visione del loro passato paradossalmente consonante, ancorché dalla prospettiva contraria, con quella proposta dal regime franchista; per l’altro impedisce, attraverso la confusione di ideologie, politiche, ruoli e responsabilità in un unico calderone antifranchista, un’efficace educazione alla democrazia che consenta un consapevole superamento del passato.
L’equivoco consiste nel presentare tutto lo schieramento delle forze politiche che si batterono per la Repubblica come fronte della democrazia tout court, stabilendo per di più un nesso diretto tra quel fronte del passato e la democrazia del presente. Gli esempi di questo equivoco sono infiniti. Ma è particolarmente significativo, anche dei percorsi mentali ed emotivi che lo hanno favorito, quanto dichiarato al momento dell’istituzione della Comisión de recuperación de la memoria histórica dalla vicepresidente del governo María Teresa Fernández de la Vega quando indicava che il suo obiettivo era «riscattare la dignità e recuperare la memoria di quelle persone che hanno sofferto carcere, repressione o morte per difendere i valori su cui oggi si fonda la nostra società democratica»11. Finalità sacrosanta, la quale tuttavia implica di fatto, poiché sarebbe assolutamente inopportuno – e addirittura grottesco nel caso dei sepolti nelle fosse comuni – sottoporre le vittime del franchismo a un vaglio di democraticità, che esse siano tutte quante aggregate nel campo dei difensori della democrazia.
Ma non è vero che la totalità – e neppure la maggior parte – di coloro che soffrirono la repressione franchista la subirono per aver difeso i valori dell’odierna democrazia. Dire questo è collocarsi nella stessa ottica di Franco che massacrò senza distinzioni liberali, anarchici e comunisti. È accettare, sulla sola base della sorte comune delle vittime del franchismo, un loro livellamento e una loro omologazione democratica, che è poi lo scopo di una parte di coloro che amplificano il clamore sulle «fosse di Franco»12.
Questa omologazione ha le sue lontane radici nel Fronte Popolare e nell’immagine della Repubblica spagnola minacciata dal fascismo internazionale. Ma del Fronte Popolare la democrazia fu un collante poco più che nominalistico, poiché in quella alleanza convivevano concezioni assolutamente antitetiche, come quella liberale e quella comunista, a cui durante la guerra civile spagnola si associò addirittura quella del comunismo anarchico – che comunque restò sempre al di fuori del Fronte Popolare – completamente estranea alle altre due. In Spagna il collante del solo antifascismo si rivelò molto debole, cosicché liberali, comunisti, anarchici e socialisti, con le loro diverse anime, finirono per ammazzarsi a vicenda, e neppure la repressione uniformatrice operata dal regime riuscì a resuscitare un’alleanza antifranchista nel nome di una comune concezione della democrazia. E d’altro canto in quello scorcio di...

Indice dei contenuti

  1. Prologo
  2. I. I ricordi nel dimenticatoio
  3. II. Storie di antichi dolori sempre presenti
  4. III. Il peso del passato
  5. Nota dell’autore