Il cittadino e il politico
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Il cittadino e il politico

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Il cittadino e il politico

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«Il mondo è vuoto dopo i Romani»: il grido scoraggiato di Saint-Just esprime a suo modo la nostalgia già espressa da Rousseau; Sparta e soprattutto «Roma Repubblica» rappresentano, nella storia, l'ultimo e forse il solo esempio di organizzazione civica. Voltando le spalle alla modernità, Rousseau aveva cercato, nel Contratto sociale, di identificare e fondare le condizioni di ogni «società civile». Ma egli concepiva quest'ultima solo in quanto essa si completava e si realizzava in un contratto politico che trasformava ogni uomo in cittadino o che, più esattamente, definiva l'umanità attraverso la qualità di cittadino: è veramente uomo solo colui che è anche cittadino, come è davvero popolo solo quello libero e sovrano. Ora questi principi che, in un certo senso, avrebbero dovuto costruire l'avvenire, affondano in realtà le radici, per Rousseau, in un passato quasi inaccessibile e compiuto: l'età aurea della città è dietro di noi, sulle rive dell'Eurota e del Tevere.Acquista l'ebook e continua a leggere!

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858100318
Argomento
Storia
Categoria
Storia antica

Il cittadino, il politico

«Il mondo è vuoto dopo i Romani»: il grido scoraggiato di Saint-Just esprime a suo modo la nostalgia già espressa da Rousseau; Sparta e soprattutto «Roma Repubblica» rappresentano, nella storia, l’ultimo e forse il solo esempio di organizzazione civica. Voltando le spalle alla modernità, Rousseau aveva cercato, nel Contratto sociale, di identificare e fondare le condizioni di ogni «società civile». Ma egli concepiva quest’ultima solo in quanto essa si completava e si realizzava in un contratto politico che trasformava ogni uomo in cittadino o che, più esattamente, definiva l’umanità attraverso la qualità di cittadino: è veramente uomo solo colui che è anche cittadino, come è davvero popolo solo quello libero e sovrano. Ora questi principi che, in un certo senso, avrebbero dovuto costruire l’avvenire, affondano in realtà le radici, per Rousseau, in un passato quasi inaccessibile e compiuto: l’età aurea della città è dietro di noi, sulle rive dell’Eurota e del Tevere.
In qualche maniera i moderni non hanno fatto che perpetuare questa nostalgia retrospettiva. La Repubblica romana ha continuato ad affascinare gli storici e a ossessionare l’inconscio collettivo. Fascino del successo, in primo luogo: i suoi legionari, generali, funzionari e coloni hanno saputo conquistare, pacificare e unificare uno spazio gigantesco – un terzo del «mondo conosciuto» dagli antichi – al cui interno la loro impronta ha rappresentato, essenzialmente, la matrice dell’Europa moderna. Immagine di grandezza di una «repubblica imperiale» che, tutto sommato, si riverbera su ciascuno dei suoi «cittadini». Ma forse la grandezza di «Roma Repubblica», non è solo conquistatrice. Essa risiede anche, per i moderni, nel fatto che la storia interna del popolo romano descrive, forse in maniera esemplare e unica, tutte le ipostasi possibili della politica: la nascita di una comunità, l’organizzazione dei poteri necessari a una città, la conquista dell’uguaglianza dei diritti da parte del popolo contro «i grandi», le rivendicazioni di libertà contro l’oppressione, ma anche, certo, le grandi questioni «sociali» (come ancora non si diceva): la povertà, i debiti, la «legge agraria», i «sussidi pubblici». E quando, alla fine del XVIII secolo, l’aurora della libertà sembra reintrodurre nel mondo moderno questi antichi processi, sono ancora le deviazioni dal modello romano che si temono: le rivoluzioni sono come guerre civili, e Robespierre è d’accordo con Caterina II nel predire: «Cesare verrà». Insomma, nella sua grandezza come nella sua depravazione, Roma è il modello ammirato o temuto. Essa offre all’umanità la panoplia completa del cittadino.
Ci si meraviglierà di tale ossessione? I nostri antenati erano, su questo punto, le vittime consenzienti di una tradizione scolastica e moralizzatrice che, tutto sommato, risaliva essa stessa all’antichità. È proprio leggendo Cicerone, Livio, Plutarco e, a rigore, Tacito che essi si erano fatti un’idea della Grecia e di Roma. Ora, questi autori (dei quali, del resto, venivano ripetuti solo i brani più celebri) erano tutti autori «scolastici». Direttamente o indirettamente, essi scrivevano per esaltare un’immagine esemplare, e forse abbellita, dei giorni dorati della città. Un mondo in cui prevaleva la virtù civica e militare, che veniva rappresentata in piena azione; nell’età della Repubblica conquistatrice, o come un lancinante rimpianto sotto principi snaturati; il civismo, anche in negativo, è presente sia in Tacito che in Svetonio.
La questione, in effetti, sembra chiara; i Romani, sotto la Repubblica come sotto l’Impero, sono dunque cittadini. Umili o potenti, governati da assemblee, da magistrati annuali e da un senato, o da un principe a vita (accanto al quale, d’altronde, permangono le antiche istituzioni), nessuna esitazione è possibile: ogni romano è cittadino, e chiunque possieda o acquisisca il «diritto di cittadinanza», la «cittadinanza» romana, è automaticamente romano. Quanto al «popolo romano», esso non è mai stato altro che la totalità estensiva di tutti i cittadini romani. Non v’è distinzione, a Roma, all’interno del «popolo», tra alcuni che godrebbero del diritto di cittadinanza e altri che ne sarebbero sprovvisti. La città romana è, in linea di principio, unitaria.
Saremmo dunque in presenza di una sorprendente anticipazione della situazione (teorica) degli stati moderni, scaturiti dai «princìpi» del 1789, nei quali nazionalità e cittadinanza collimano quasi perfettamente, e in cui l’intera popolazione, senza altre restrizioni se non l’età e il sesso, gode, in linea di principio, dello stesso diritto civile, è regolata dallo stesso diritto criminale e partecipa ugualmente ai diritti politici? Alcuni l’hanno sostenuto, in maniera tanto più legittima dal momento che, come ho detto, i fondatori delle libertà moderne (tra gli altri, i giacobini francesi) partivano alla riconquista di una antichità perduta. Eppure tale affermazione è problematica e occorre sfumarla molto, ricordando qualche dato particolare.
Cominciamo dal problema del numero dei cittadini in rapporto alla popolazione totale. Fatta salva una fondamentale disuguaglianza giuridica (ne parleremo fra poco), si può ritenere che alle origini della Repubblica – allorché Roma non dominava ancora neanche il Lazio – c’erano praticamente, nel suo territorio, solo schiavi (privi di diritti) e uomini liberi (tutti cittadini). Senza dubbio, si può notare subito una caratteristica fondamentale della città romana: gli schiavi liberati (liberti) vi penetrano con pieno diritto e godono, in linea di massima, di tutti i diritti civili e anche di alcuni diritti politici. Ciò non toglie che questa coincidenza tra il «popolo» e la «popolazione», tra il corpo civico e l’insieme di coloro che si possono dire romani, cessi di esistere sin dalla fine del IV secolo a.C., cioè da quando Roma parte alla conquista dell’Italia. Portata a termine nel 272 a.C., questa conquista unisce ormai sotto la stessa sovranità (quella di Roma) popolazioni d’importanza e statuti diversi. Da una parte i «Romani» (che certo non sono tutti discendenti degli antichi abitanti dell’Urbe), che sono «cittadini di pieno diritto» (optimo iure). Dall’altra, gli Italici che, membri (spesso loro malgrado) dell’«alleanza» romana (symmachia), sono, per certi versi, assimilabili ai Romani (per tutto ciò che concerne gli obblighi militari e fiscali), mentre per altri versi se ne distinguono: in primo luogo perché non partecipano alla sovranità (le decisioni comuni sono loro imposte unilateralmente); ma anche, a dire il vero, per una grande autonomia locale, per diritti privati e istituzioni diverse da quelle di Roma. Quindi, se consideriamo questa «alleanza» come un insieme omogeneo (dopo tutto, malgrado le defezioni, essa resistette ai tentativi di secessione al tempo della guerra di Annibale) che sta per intraprendere a suo vantaggio la conquista del mondo, dobbiamo constatare subito che il gruppo dei cittadini con pieno diritto rappresenta ormai solo una parte, ben presto minoritaria, della popolazione totale. È dunque con la globalità di quest’ultima che bisogna confrontare le cifre, giunte fino a noi, dei «censimenti» romani; anche incomplete o a volte trasmesse in modo dubbio dai testi, esse sono la sola base solida delle nostre conoscenze della demografia antica: variano da 165.000 individui censiti verso il 340 a.C. a 270.000 all’inizio della seconda guerra punica, a 325.000 intorno al 150, a 395.000 verso il 115 a.C. Diciamo subito che, in quei secoli, tali cifre erano lontane dal rappresentare la totalità del gruppo dei cives Romani: esse si riferivano, in realtà, solo ai maschi adulti e mobilitabili, ed escludevano quindi sicuramente le donne e i bambini, forse i vecchi (ma la cosa non è sicura, poiché questi ultimi non erano mai esclusi dalle funzioni politiche), e forse anche, a seconda dei momenti, i più poveri tra i cittadini. È probabile dunque che la popolazione civica (vecchi, donne e bambini compresi) fosse in realtà tre o quattro volte più numerosa. Ma, accanto a essa, c’è la folla dei «Latini e alleati» italici, sia che risiedano nelle città o in territori che non sono formalmente quelli dei cittadini, o che siano emigrati a Roma, o in municipi o in colonie romane. Notiamo del resto che all’interno stesso delle comunità «autonome» di Latini o di alleati, una minoranza sempre crescente della popolazione riceve a sua volta il diritto di cittadinanza romana, come privilegio ottenuto a titolo individuale o anche (è il caso dei Latini) automaticamente, tramite l’esercizio delle magistrature: la cittadinanza romana, per queste popolazioni, non rappresenta più la condizione egualitaria di tutti, ma, al contrario, uno status giuridico privilegiato (dal punto di vista fiscale e politico in particolare) e dunque, in concreto, un gruppo sociale. Abbiamo solo testimonianze indirette per tentare di valutare l’importanza di questa popolazione non-romana, e dunque non-cittadina: le cifre – quando sono note – dei contingenti di truppe ausiliarie da essa forniti, su richiesta dei Romani. Grosso modo, l’entità di questi contingenti è valutabile tra la metà e i 2/3 degli «eserciti romani». Dunque, gli Italici rappresentano, in totale, una popolazione almeno uguale a quella dei Romani. Ma tale stima è senza dubbio inferiore alla realtà, poiché non è sicuro che i Romani abbiano fatto pesare gli obblighi militari in misura uguale sui loro alleati e sui loro stessi concittadini.
Nondimeno è evidente che, se si considera la popolazione globale dell’Italia romana, i cittadini, in epoca medio-repubblicana, non erano che una minoranza: tale situazione resterà immutata fino alla «guerra sociale» del 90-89 a.C., un’immensa guerra di secessione paradossalmente vinta dagli sconfitti, che ottennero dai vincitori ciò che non avevano potuto strappare loro con le armi. Ora – benché la registrazione e l’integrazione concreta della totalità della popolazione abbiano impiegato molti decenni per divenire effettive – tutta la popolazione libera italica (a eccezione naturalmente degli «stranieri» di passaggio) era ritenuta cittadina: il numero dei maschi adulti raggiunse senza dubbio il milione verso il 70, la popolazione libera totale era forse tre o quattro volte più grande.
Con l’instaurazione dell’Impero, e per ragioni che ho tentato di mostrare altrove, le procedure e le finalità del censimento si modificano; ormai – a partire dal 28 a.C. fino al 47 e al 73 d.C. – è la totalità della popolazione cittadina, vecchi, donne e bambini compresi, ad essere registrata, a Roma, in Italia e nelle province (in quest’ultimo caso si tratta di membri di colonie e di municipi di cittadini, o di indigeni che hanno ricevuto il diritto di cittadinanza altrove). Essa passa da un po’ più di 4.000.000 a quasi 6.000.000 dal 28 a.C. al 47 d.C. Ma queste cifre impressionanti (e del tutto esorbitanti in rapporto alle città antiche) devono essere paragonate, per essere a...

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