L’uomo e la guerra
Guerra e pace
Avvezzo alla guerra, e anche bellicoso: tale fu, di certo, l’uomo greco. Lo si può dimostrare con facilità e in vari modi. Con un’idonea documentazione si potrà registrare la frequenza delle guerre, per accorgersi, ad esempio, che l’Atene classica vi si dedicò in media più di due anni su tre, senza mai godere della pace per dieci anni di seguito; a ciò si aggiungerà l’insicurezza cronica provocata da svariate forme più o meno legali di violenza sulla terraferma e ancor più sul mare (atti di rappresaglia, diritto di naufragio, pirateria privata, semipubblica o a carattere decisamente statale). Dal punto di vista archeologico, si ricorderanno parallelamente le fortificazioni erette con grandi spese attorno ai principali centri di residenza e di potere (cercando di immaginare cosa potesse rappresentare, un tempo, il fatto di vivere in una città «chiusa»), e quelle, di varia natura, che si incontravano nelle campagne (torri di guardia o per abitazione, posti di controllo, rifugi) – senza dimenticare che la grande maggioranza di monumenti e di opere d’arte che ornavano i grandi sacrari e i luoghi pubblici altro non erano che offerte di vincitori. La documentazione epigrafica mostrerà il carattere temporaneo e precario dei trattati che mettevano fine alle ostilità per un periodo spesso limitato a cinque, dieci o trenta anni, quasi come se la pace vi fosse avvertita, sin dal primo momento, come precaria, se non addirittura concepita come una sorta di tregua prolungata.
Solo la guerra sembra, agli storici greci, un soggetto davvero degno di memoria: essa fornisce il tema unificatore delle loro opere (le guerre persiane per Erodoto, la guerra del Peloponneso per Tucidide, l’imperialismo romano per Polibio) o scandisce, quanto meno, le loro cronache. Nell’esistenza quotidiana, la guerra è una preoccupazione costante per i cittadini: parteciparvi è, per essi, un obbligo che, ad Atene, andava dai diciannove ai cinquantanove anni (nell’esercito attivo fino a quarantanove anni, poi nella riserva); deliberare in merito ad essa costituisce, dappertutto, la competenza minima delle assemblee popolari. A tutti i livelli e in tutti i campi si afferma la pregnanza del modello guerriero: nella vita familiare, il soldato rappresenta, come si osserva nelle decorazioni dei vasi attici, la figura centrale attorno alla quale si organizzano le relazioni interne dell’oikos; nella vita religiosa, le divinità dell’Olimpo sono dotate ognuna di una specifica funzione militare; nella vita morale, il valore di un uomo dabbene (agathòs), la sua aretè, consiste in primo luogo nel coraggio assennato che egli manifesta tanto nel suo intimo, lottando contro le passioni meschine, quanto sul campo di battaglia dove lo attende la «bella morte», la sola che abbia un significato sociale.
Malgrado il suo attivismo guerriero, tuttavia, l’uomo greco non può definirsi un homo militaris, se con ciò intendiamo un uomo amante della violenza fine a se stessa, a prescindere dalle forme che essa riveste e dagli obiettivi che le sono assegnati.
La guerra civile (stasis), che metteva uno contro l’altro i membri di una stessa comunità politica, concepita a immagine della famiglia, era unanimemente considerata disastrosa e ignominiosa. Sola a poter essere valorizzata era la guerra tra comunità, il pòlemos, e neanche incondizionatamente. La guerra sfrenata e selvaggia, quella dei lupi, era considerata, infatti, una trasgressione scandalosa (hybris) alle norme di convenienza – in altri termini, di giustizia, – che gli uomini dovevano rispettare sia tra di loro che nei confronti degli dei. Il pòlemos propriamente detto, al contrario, non poteva prescindere dall’osservanza di determinate regole: dichiarazione di guerra in debita forma, esecuzione di sacrifici appropriati, rispetto dei luoghi (sacrari), delle persone (araldi, pellegrini, supplici) e degli atti (giuramento) riguardanti la divinità, autorizzazione ai vinti di raccogliere i propri morti e, fino a un certo punto, astensione da crudeltà gratuite. Ciò è vero soprattutto per le guerre tra Greci, criticate per principio (senza effetto apparente) persino nel IV secolo dagli apostoli del panellenismo; ma è altrettanto vero, più o meno, per le guerre, giuste per definizione, scatenate contro i «barbari». Così condotte, esse non provocavano alcuna lordura per il sangue versato e non esigevano nessun rito di purificazione finale dei combattenti. Tali «leggi», considerate comuni per i Greci se non addirittura per l’umanità intera, contribuivano, malgrado la loro imprecisione e le numerose eccezioni di cui furono oggetto, a ridurre l’ampiezza dei conflitti.
D’altra parte, sarebbe cedere a un’illusione ottica immaginare che la guerra abbia sempre infiammato la totalità del mondo greco. Non bisogna infatti dimenticare che, per semplici ragioni documentarie, l’uomo greco che ci è familiare e di cui parleremo prima di tutto, è quello dell’Atene e, in minor grado, della Sparta classiche, che si trovò impegnato in vasti scontri di tipo imperialistico, e non quello della Grecia «profonda», divisa in più di un migliaio di piccole città che condussero generalmente un’esistenza modesta ai margini e sotto la protezione delle grandi potenze. Ciò che intravediamo, in questo caso, sono dei conflitti localizzati che oppongono tra loro città limitrofe con obiettivi e mezzi molto limitati. Nonostante la loro molteplicità, essi non dovevano provocare che modesti strappi, presto accomodati, in un tessuto fittamente lavorato. Così dicasi per vari atti di «pirateria». La conclusione di alleanze poteva certo allargare tali strappi: ma, anche in questo caso, bisogna guardarsi dall’esagerarne gli effetti, nella misura in cui, di regola, esse imponevano soltanto di contribuire all’invio di un contingente di soccorso in difesa del territorio degli alleati e non implicavano l’apertura delle ostilità contro gli aggressori. Non risulta neanche, per esempio, che l’epoca arcaica sia stata globalmente altrettanto bellicosa rispetto alle epoche seguenti. Tutte queste limitazioni di diritto o di fatto ci aiutano a comprendere che l’onnipresenza della guerra non significa assolutamente che la totalità della Grecia si sia trovata in permanenza a ferro e fuoco.
A una visione militarista della storia greca si oppone infine il posto eminente riservato alla lode della pace sia nell’opinione pubblica che nell’opera dei teorici. Si potrebbe proporre un vasto florilegio, molto ripetitivo, da Omero alla fine dell’epoca ellenistica, di testi celebranti i suoi benefici. Sempre la stessa antifona: la pace è l’abbondanza, il dolce vivere, la gioia, il godimento dei piaceri semplici dell’esistenza; la guerra è l’astinenza, la fatica (il ponos), il dolore e la tristezza. Parallelamente, a livello concettuale, c’è l’affermazione di Platone che «è nella pace che bisogna vivere, e meglio che si potrà, la maggior parte della propria esistenza» (Leggi, 7, 803d) o quella di Aristotele che «la pace è il fine ultimo della guerra, come lo svago quello del lavoro» (Politica, 7, 1334a) – il che impediva loro di fare di Sparta, dove questo rapporto sembrava invertito, un modello.
Se ne dedurrà che si affrontarono e trionfarono, volta per volta, due correnti, di fautori della guerra e di pacifisti, ugualmente convinti, per ragioni di principio, della assoluta giustezza della loro causa? Certamente no. In primo luogo, semplicemente, perché le valutazioni più spesso avanzate a tale riguardo o sono soltanto dichiarazioni di circostanza, talvolta contraddette nello stesso autore da affermazioni di senso contrario, oppure vertono unicamente sull’opportunità di questa o quella guerra e non sulla guerra in sé (è per questo che non si ha notizia di alcun ateniese del V secolo che si sia opposto all’imperialismo in quanto tale). Poi, e soprattutto, perché la pace è considerata solo da un’angolazione personale, edonista e, per così dire, esistenziale, senza nessuna considerazione di carattere propriamente umanitario e senza nessun desiderio di veder cambiare a tale riguardo le basi della società o la natura dell’uomo. Essa è soltanto il punto d’arrivo, particolarmente gradito, che deve coronare le prove guerriere. Essa corrisponde al momento in cui il contadino ha il piacere di accumulare e di consumare i frutti delle sue dure fatiche. Tale concezione non contraddice assolutamente la necessità, la razionalità e lo splendore della guerra; essa tende, al contrario, a giustificarla, assegnandole come fine ultimo la felicità.
Funesta in sé, la guerra socializzata può dunque caricarsi positivamente di tutti i valori di cui l’élite civica mena vanto.
Le cause della guerra
«Supponiamo che si ...