Prima di Machiavelli
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Prima di Machiavelli

Politica e cultura in età umanistica

  1. 190 pagine
  2. Italian
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Prima di Machiavelli

Politica e cultura in età umanistica

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La letteratura politica di età umanistica si presenta agli occhi del lettore moderno come una ricca 'enciclopedia' di voci diverse, in cui convivono – alle soglie della modernità – slancio laico e recupero degli antichi, entusiasmo repubblicano, denuncia dei soprusi del potere, accondiscendenza cortigiana.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858122556

La mascherata del potere:
tragedia e commedia

1. Gli anni del disinganno

Leon Battista Alberti, si è detto, fu un esponente tra i più precoci della crisi dell’Umanesimo ‘civile’. La riflessione politica affiora in effetti da ogni pagina di questo autore sfuggente e a tratti indecifrabile. Non solo il Momus sive de principe, ‘rabelaisiano’ e grandioso romanzo di satira morale e filosofica, oltre che politica, ma più in generale buona parte della produzione di Alberti – le Intercenali, le rime in volgare, i libri Della famiglia, il Theogenius, il De iciarchia, persino gli enigmatici Apologi – descrive apertamente e criticamente o allude in modo obliquo e disincantato al mondo del potere. Ed è proprio in questi scritti dell’Umanesimo ‘civile’ disilluso – in Alberti dunque oltre che in Poggio – che si possono individuare le punte più avanzate e consapevoli della politica quattrocentesca.
Talvolta la riflessione dell’intellettuale appare come un ripiegamento parziale, una rinuncia alle conquiste della secolarizzazione umanistica. Così, per esempio, nel De miseria humanae conditionis di Poggio, che sembra evocare già nel titolo la dimensione ‘medievale’ del contemptus mundi e prendere dunque le distanze dal tema, tipicamente moderno, della centralità dell’uomo e del civis. O anche in quelle pagine in cui Alberti giunge a ribaltare, mascherando l’amarezza del pessimismo sotto il velo della farsa, il tópos umanistico della dignitas hominis, di cui Giannozzo Manetti – con largo anticipo su Pico della Mirandola – fu il più convinto celebratore nel primo Quattrocento:
Gli omuncoli – scrive Alberti nel Momus, con un’intonazione sarcastica che nel lettore moderno suscita il ricordo della Ginestra leopardiana – vantano un’origine divina per il solo fatto di avere, a differenza degli altri animali, il volto eretto a guardare le stelle; pensano così che sia affar loro sapere quello che fa o quello che pensa ogni singolo dio del cielo. Per di più si prendono il gusto di criticare parole e azioni dei celesti, e non hanno alcun ritegno a sottoporre a una forma di censura la moralità degli dei. Se darai retta a me, Giove, gli ordinerai di camminare sulle mani, a testa in giù e piedi all’aria, così si distingueranno da tutti gli altri quadrupedi e, dovendole usare per andare a spasso, terranno le mani lontane da furti, saccheggi, incendi dolosi, avvelenamenti, assassini e peculati e da tutti gli altri delitti per loro abituali1.
Ma il pessimismo di Alberti e Poggio fu soprattutto lo strumento che consentì di smascherare quanto di illusorio e di ingannevole il potere nascondeva: il che rappresentò, a ben guardare, il passo decisivo verso la demolizione dell’immagine ‘statica’ del potere medievale e, in definitiva, verso la laicizzazione del potere. Di qui l’insistente ricorrere, nei testi di questi autori, del tema – ovviamente antico – del teatro del mondo e della corte in particolare: tema che, è appena il caso di ricordarlo, sarà frequentissimo negli scritti politici cinque e secenteschi. Nel finale del De infelicitate principum gli uomini di potere erano descritti come «attori mascherati e ridicoli». E anche altrove, nel medesimo dialogo, prende corpo la spietata critica del teatro della vita e, in particolare, della politica, sulle cui radici lucianee e senecane ha opportunamente insistito Riccardo Fubini2:
Tralascio qui le tragedie antiche, che testimoniano con grande abbondanza l’infelicità dei principi: Edipo, le Troiane, Atreo, Tieste, Medea, Agamennone e molti altri personaggi, le cui vicende servirono ai sapienti poeti greci per indicare che l’infelicità vive con i principi quasi sotto lo stesso tetto [...]. Non c’è dubbio che la vita dei principi è come una tragedia, piena di disgrazie: ci si potrebbero comporre molti atti, allo scopo di rappresentare l’infelicità dei potenti proprio come sulla scena di un teatro3.
Il tema, trasferito da una prospettiva tragica ad una dimensione comica, ritornerà in un attento e geniale lettore degli scritti dell’Umanesimo italiano, Erasmo da Rotterdam. I debiti di quest’ultimo nei confronti degli autori quattrocenteschi, in particolare del suo ‘maestro’ Lorenzo Valla, sono stati ben investigati: sul versante politico l’umanista olandese ci appare sicuramente memore della lezione poggiana e albertiana. E così egli, nell’Elogio della Follia, scherza in tono irriverente intorno alla mascherata del potere:
Se i principi avessero solo una briciola di senno, che vi sarebbe di più malinconico o di meno desiderabile della loro vita? Né riterrà che valga la pena di impadronirsi del potere con lo spergiuro o col parricidio, chiunque consideri l’entità del peso che grava sulle spalle di chi vuole essere un principe sul serio. Chi assume il potere supremo deve occuparsi degli affari pubblici, non dei propri interessi, e deve pensare esclusivamente alla pubblica utilità; non deve scostarsi neanche di un pollice dalle leggi, di cui è autore ed esecutore; deve assicurarsi dell’integrità di tutti i funzionari e di tutti i magistrati; lui solo, agli occhi di tutti, può, a guisa di astro benefico, giovare enormemente alle cose di quaggiù coi suoi costumi senza macchia, oppure, come letale cometa, trarle all’estrema rovina [...]. Se, dico, il principe riflettesse su queste cose e su moltissime altre del genere – e ci rifletterebbe se avesse senno – non dormirebbe, credo, sonni tranquilli, né riuscirebbe a gustare il cibo.
Ma ora, con l’aiuto della Follia, i principi lasciano tutti questi motivi di affanno nelle mani degli dei e se la spassano, porgendo orecchio solo a chi sa dire cose gradevoli, perché una punta d’ansia non abbia mai a levarsi dal fondo del cuore. Ritengono di avere compiuto in ogni suo aspetto il dovere di un principe se vanno sempre a caccia, se allevano bei cavalli, se mettono in vendita per trarne un utile magistrature e prefetture, se ogni giorno escogitano nuovi stratagemmi per alleggerire i cittadini delle loro sostanze, facendole confluire nel loro tesoro privato: ma questo in modo acconcio, trovando dei pretesti, tanto da conferire una qualche apparenza di giustizia anche alla peggiore iniquità. E per conquistare comunque le simpatie popolari aggiungono qualche parola di adulazione. Dovete immaginare un uomo, come se ne vedono a volte, ignaro delle leggi, quasi nemico del pubblico bene, tutto preso dai suoi interessi privati, dedito ai piaceri, con un’autentica avversione per la cultura, la libertà e la verità, che non si cura minimamente della salvezza dello stato, che adotta come unità di misura le proprie voglie e il proprio tornaconto. Mettetegli al collo una collana d’oro, simbolo della presenza in lui di tutte le virtù riunite; mettetegli in testa una corona ornata di gemme che lo richiami al suo dovere di superare gli altri in tutte le virtù eroiche. Dategli lo scettro che simboleggia la giustizia e la cristallina purezza d’animo, e infine la porpora a significare il suo straordinario amore per lo stato. Se un principe paragonasse questi ornamenti simbolici con la sua vita reale, credo che finirebbe col provare solo vergogna della sua pompa e col temere che qualche critico spiritoso non si prendesse gioco di lui volgendo in commedia questo apparato scenico4.
Erasmo ha qui presente, tra l’altro, il modello di Alberti, il quale, con largo anticipo rispetto al dialogo poggiano sull’infelicità dei principi, nel De commodis litterarum atque incommodis del 1428 aveva denunciato per l’appunto la drammaticità – comica, secondo Alberti – di chi, sulla scena della vita, è inconsapevole del proprio ruolo e si rivela inadatto ad esso.
Questo tema – destinato a divenire topico nel pensiero politico moderno – ritorna, certo filtrato attraverso la lettura di una celeberrima pagina shakespeariana, in un altro ‘gigante’ della letteratura europea moderna, i cui debiti nei confronti della cultura umanistica sono complessi e molteplici. Nel volume secondo del Don Chisciotte, Cervantes mette sulla strada dell’eroe e del suo scudiero gli attori girovaghi della compagnia di Angulo il Cattivo, che sono in viaggio verso una località vicina dove hanno in programma di rappresentare il Corteo della Morte. Sul carro degli attori, già vestiti con abiti di scena, si vedono la Morte, la Regina, l’Imperatore, il Soldato e altre figure secondarie. Al sopraggiungere improvviso di un altro attore, travestito da buffone di corte, Ronzinante viene preso dal terrore e fugge, disarcionando il padrone. Ciò ovviamente scatena il desiderio di vendetta di Don Chisciotte, che vorrebbe lanciarsi all’attacco della compagnia girovaga: sennonché, convinto da Sancio, per una volta egli desiste dalla follia e volta le briglie del proprio ronzino. L’episodio suscita poco dopo una discussione tra Don Chisciotte e lo stesso Sancio intorno al valore delle spoglie (tra cui la corona d’oro della Regina) che, se avesse attaccato e sconfitto gli attori, il cavaliere avrebbe potuto acquistare e offrire poi in dono allo scudiero. Al che interviene Sancio con pragmatismo:
«Gli scettri e le corone degli imperatori da farsa non sono mai state d’oro, ma di similoro o stagnola».
«È vero – replicò Don Chisciotte –; poiché non sarebbe giusto che gli apparati delle commedie fossero autentici, anziché falsi e di pura apparenza, come è la stessa commedia, con la quale, Sancio, io voglio che tu resti amico [...]: non c’è nessun termine di confronto che ci rappresenti più vivamente ciò che siamo e ciò che dobbiamo essere come la commedia e i commedianti. E se no, dimmi tu: non hai tu visto rappresentare qualche commedia in cui s’introducono re, imperatori e pontefici, cavalieri, dame e altri differenti personaggi? Uno fa il furfante, un altro l’imbroglione, questo il mercante, quello il soldato, uno, uno stupido che ha buon senso, l’altro l’innamorato stupido; e terminata la commedi...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Parte prima. Dalla «libertas» al dissenso
  3. L’Umanesimo ‘civile’
  4. Repubblica vs monarchia
  5. La mascherata del potere: tragedia e commedia
  6. Il sistema delle fonti
  7. Parte seconda. La letteratura a corte
  8. Alla corte dei Medici
  9. Uno spaccato di vita cortigiana: cultura e potere a Napoli
  10. ‘Contro’ Firenze: l’Umanesimo cortigiano milanese
  11. Il buon cittadino e la formazione del principe
  12. Monarchia e repubblica
  13. Il palazzo
  14. Bibliografia