La frontiera addosso
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La frontiera addosso

Così si deportano i diritti umani

  1. 288 pagine
  2. Italian
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La frontiera addosso

Così si deportano i diritti umani

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«Se l'Europa è una fortezza, e per molti una prigione, l'Italia può essere peggio di un incubo: può essere un brutto risveglio. Qualcosa da cui non puoi uscire. Una cintura militare fatta di armi, diritti negati, omicidio, carcere, tortura, disegna i confini attuali di tutta l'Europa, quelli che devono garantire il benessere di chi è all'interno. Questa è l'Europa. L'importante è che il meccanismo non sia troppo vistoso. L'importante è che tutto sia fatto prima che il nostro sguardo li intercetti. La frontiera non è più un luogo: è una colpa, una condanna, qualcosa che chi ha avuto la sfortuna di incontrare non si toglierà mai più di dosso».

Un libro coraggioso e provocatorio sulle violazioni dei diritti a danno di migliaia di migranti, storie di donne e uomini respinti da un continente intero. Donne e uomini a cui si nega accoglienza, su cui si spara alle frontiere d'Europa, donne e uomini rimpatriati in base ad accordi bilaterali poco trasparenti e spesso riconsegnati alle tragedie e ai carnefici a cui tentavano di sfuggire, donne e uomini a cui viene rifiutato lo status di rifugiati o anche solo la possibilità di avere un lavoro e una casa. Donne e uomini le cui vite dannate segnano la fine ingloriosa di una civiltà giuridica, quella delineata nei trattati internazionali, come la Convenzione di Ginevra o la Carta dei Diritti dell'Uomo, con cui il nostro mondo tentava di darsi un profilo migliore dopo le guerre mondiali.
Insieme, in queste pagine, troveremo i dati del primo rapporto complessivo sul tema del diritto d'asilo in Europa commissionato da Caritas e Fondazione Migrantes, i dati delle istituzioni internazionali e delle organizzazioni non governative, l'operato dell'agenzia Frontex, le fonti del diritto internazionale, un glossario, un vademecum di buone pratiche, un vero e proprio manuale per ottenere il rifugio politico o per dare aiuto a chi richiede asilo e una rassegna degli accordi bilaterali tra gli Stati per la riammissione dei migranti.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858117972
Argomento
Economics

1. Tre gradi di segregazione

Tra noi c’è un mondo di condannati a morte da noi.
Talvolta, anche per giusta insofferenza, tenta di ribellarsi: col mitra
e la galera si risponde. Si smetta di star dalla parte dei più forti,
di lasciare a loro la possibilità di soffocare gli altri, proprio per sistema, alla luce del sole.
Non credo che tutti siamo tanto crudeli da voler continuare ad ammazzare,
e a lasciar ammazzare, così. Non ci credo. Si sappia, anche, e la vita non può non scorrere.
Danilo Dolci

Non proprio qui

Un pensiero-zecca, da rimuovere con cura. Uno di quei pensieri molesti che ti si fermano in testa durante i momenti di insofferenza per il mondo. Probabile figlio dell’insoddisfazione, un tentativo frustrato di dare spiegazioni accettabili a una realtà altrimenti sfuggente. Ecco: già questo modo di definirlo è un tentativo per liberarmene, forse neanche del tutto onesto.
Questo è il pensiero: quello di una vita fondata sulla rimozione, di una civiltà fondata sulla rimozione, e soprattutto sulla rimozione dei massacri. Nel diluvio di informazioni quotidiane non posso evitare di incrociare prima o poi le tracce lasciate da un massacro: da telespettatore, da cittadino responsabile, da viaggiatore, o da studioso. C’è tanta abbondanza di carneficine che è difficile non saperne nulla. Mangio davanti al telegiornale, giro le pagine dei quotidiani per vedere lo sport o seguire le morbonotizie su qualche scandalo di politici e puttane, saltello in internet in cerca di libri in vendita on line, schivando continuamente la traccia di un numero incalcolabile di ecatombi. Eccolo il pensiero molesto: che io uso ogni giorno una gran parte delle mie energie mentali (forse la maggior parte delle mie energie mentali, forse la maggior parte delle mie energie, forse è questo il mio solo vero lavoro) per rendermi tollerabile la convivenza con questo flusso continuo di stragi. E magari è proprio questo lavoro della mente il fondamento del mio modo di stare al mondo. Questo sguardo che non guarda. Ho allontanato spesso questo tarlo, con cura e argomenti ragionevoli, facendo uso di espressioni dotte e credibili come «eterogenesi dei fini», «contingenza storica», cose così. Mantra, temo.
La cronaca esibisce il suo catalogo di ecatombi, le tecnologie della comunicazione me lo mettono a disposizione, in versione originale da reportage o telegiornale, ritoccato con photoshop o, se voglio, in forma di cimento da playstation, oppure me lo offrono confezionato e pronto all’uso come un campionario di argomenti, per quel dibattito eternamente preelettorale che è la politica di casa mia, o di spunti di indignazione e mobilitazione, addirittura come rassicuranti garanzie della mia identità di cittadino informato, critico, socialmente impegnato. Eppure, se c’è un elemento comune a tutti quei massacri è che si tengono sempre a una certa distanza dalla mia tavola: sono fatti che accadono da qualche parte che a buon diritto posso chiamare «altrove». Magari alle porte di casa, come le guerre nello spazio jugoslavo, ma insomma: non proprio «qui».
«Qui» è una parola ambigua: difficile da definire in un contesto che mi mette continuamente in relazione con realtà di ogni genere, indifferentemente dalle distanze materiali. Un incidente finanziario a Wall Street, per i suoi effetti, ha molte più probabilità di rappresentare qualcosa che accade «qui», nella mia vita, di quante ne abbia ciò che avviene in una clinica occupata da somali ed eritrei a otto isolati da casa mia o in una coda davanti agli uffici della Questura. O a un miglio dalla spiaggia. «Qui»: la prima di molte parole ambigue che verranno ad allinearsi in queste pagine, uscite da un contesto che sembra organizzato per confondere le coordinate spaziali e togliere senso a quei puntatori verbali che il linguaggio mi offre per orientarmi e definire la mia posizione rispetto al resto, rispetto a tutto: parole come «qui», appunto, «lì», «questo», «quello». Ma anche per togliere senso a categorie di prossimo disuso, come «frontiera», «distante», «diverso». E a molti termini cari al diritto delle genti.
Eppure – nonostante la difficoltà di focalizzare ciò che vedo e distinguere ciò che mi riguarda e ciò che non mi riguarda – per riferirmi alle tragedie di questi anni ho a disposizione un vocabolario, approssimativo ma emotivamente convincente, che mi permette di pensarle come vicende «caucasiche», «balcaniche», «asiatiche», «mediorientali». Affari altrui.
Ed eccolo ancora il pensiero molesto, che si definisce meglio. Nonostante ogni buona volontà, sento un granello di residua mentalità nazista annidato al fondo della coscienza, mia e di tutti. Un residuo infinitesimale collocato in una regione interiore quasi inaccessibile. Una zona al confine tra la sfacciata ammirazione da parte di Adolf Hitler per lo sterminio – riuscito – dei nativi americani da parte dei coloni di origine europea, e il principio goebbelsiano di rimozione secondo cui una bugia ripetuta migliaia di volte diventa una verità e una malefatta dev’essere talmente colossale da indurre il dubbio che non sia realmente accaduta. È un retaggio del secolo in cui sono nato. Ed è in virtù di quel granello nazistoide che riesco a vivere bene e distogliere lo sguardo in mezzo ai massacri. Massacri immensi, piccoli, globali, locali. Maledizione, il pensiero-zecca arriva a rovinarmi anche un bel western in tv: sto dalla parte giusta, cerco di fare onore a certi concetti con cui il mio mondo, il mondo che mi piace, ha definito la sua identità: «cittadinanza», «democrazia», oppure «libertà», «fraternità», «eguaglianza». O anche «Occidente», «libero mercato», «merito» e «meritocrazia», vanno bene anche questi. Sto con i buoni, in mezzo alla civiltà che ha dato vita alla Convenzione di Ginevra e alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, e che non viene certo messa in discussione dal fatto che al suo interno vi sia chi non le rispetta...
Il piccolo parassita mentale non si scoraggia, insinua che in fondo tutti i parametri con cui cerco di definirmi come cittadino si sono andati elaborando nel corso di un processo storico che ha a suo fondamento non uno ma una lunga catena di massacri, una storia di genocidi lunga cinquecento anni: la storia contemporanea del continente americano. È un pensiero intollerabile, fu caro a Hitler, appunto, che ne fece un modello per la sua concezione del mondo. E per rimuoverlo ho a disposizione molte strategie, anche opposte fra loro: per esempio l’antiamericanismo facile di chi si chiama fuori e lo fa per così dire «da sinistra», oppure certe forme di negazionismo rozzo alla John Wayne. Senz’altro è un pensiero che una mente sana collocherà in una vasta prospettiva storica, in un ordine mentale e teorico, che permetta di convivere...
Accidenti: convivere...

Primo: attaccarsi. Appendersi con quel che ti resta delle forze a un troncone di scaletta arrugginita, per venir via dal gommone che si sta sgonfiando, lentamente. È per quella scaletta che si va in Italia. In italiano la scritta sulla fiancata: «Guardia di Finanza».
Secondo: lottare. C’è da lottare, come sempre quando si apre uno spiraglio di salvezza, vero o illusorio che sia. E allora ti batti: a gomitate, morsi, spintoni, per afferrare il pezzo di ferro che fa da ringhiera. C’è chi tira in basso il più debole, per l’istinto naturale di allontanarsi a qualunque costo dalle sorgenti della morte. O è il passato, la memoria delle facce impenetrabili di trafficanti, funzionari, sbirri che hanno accompagnato il tuo viaggio: tutte cose che vorresti lasciare nel canotto. Magari invece tirano su la scaletta e in mezzo a quella roba, sul canotto, ci resti anche tu.
Terzo: chiedere aiuto. Difficile. Sembra che la bocca non voglia andare, e poi in che lingua? Chi ti capisce, se balbetti in tigrigno?
Ma poi non la chiudono, la porta: i militari italiani sono abituati ai salvataggi in mare. E forse qualcuno di loro non sospetta neppure che questa volta non si tratterà precisamente di salvare. Distribuiscono acqua, e non è più salata, hanno steso teli sul ponte, dopo la ressa puoi lasciarti cadere sul ponte. Siete in ottanta. Dodici sono donne. Bottigliette, stracci, qualche scatola di cibo, affondano con il gommone: erano tutto quello che avevi. Però la vita è salva.
Se conosci una lingua europea puoi scambiare qualche parola con i marinai: intorno c’è anche gente euforica; speranze, aspettative, sollievo, un incubo alle spalle. E il sole a destra. Si parla di trafficanti, di bende sugli occhi, estorsioni, marce senza fine, di gente fucilata e altra che cade sulla sabbia-graticola del Sahara e non si rialza mai più, e poi di notti in mare a congelare, quando il carburante del gommone finisce e la sola forma di realismo è cedere alla disperazione.
Ora è diverso: su una nave italiana sei in territorio italiano, Europa, Convenzioni, Diritti. Ora disperarsi sarebbe un atteggiamento poco realista. Da qui in poi sarà soltanto dura, semplicemente dura. Direzione: Lampedusa, dove sei uno che ha fatto naufragio, non un nemico del mondo ricco. Un’ora di navigazione in direzione del sole calante.
Ma il sole è a destra.
E il tempo passa, più tempo del necessario, anche se fame, sonno, debolezza ti aiutano a non accorgertene. E poi sei bagnato fradicio, la sola cosa che vorresti ora è un panno asciutto. La nave va, intanto, intercetta altri due gommoni, altra gente sale a bordo, sarà per questo che si perde tempo. Alla fine sul ponte ci sono 227 persone, oltre all’equipaggio. Quaranta sono donne. Puzza, freddo, c’è chi vomita, chi mangia, chi si scalda sul vano-motori.
E poi è buio. Una donna che conosce la posizione delle stelle comincia a chiedere: «Dove andiamo?». Ma dove andiamo? Un medico ha distribuito sacchi neri della spazzatura che diventano coperte, maglie, pezzi di casa. Ci penserai quando arriva il sole a dove stai andando, e quando arriva il sole ci sarà chi prega e chi canta, e ci sarà chi conta le ore: dodici da quando ti sei arrampicato su quella scaletta. Troppe. E poi ci sarà chi guarda l’orizzonte in silenzio e vede comparire le case. Troppe, troppo alte, troppo ammassate, troppo in silenzio. Allora il nervosismo inizierà a salire, prenderà anche i militari. La nave si avvicina a un molo.
Dicono che c’è stato chi ha singhiozzato, e che i marinai invece temevano una rivolta. Ma i naufraghi avevano lasciato Tripoli di notte, molte notti prima, e ora non la riconoscono. Un funzionario in bianco si presenta, registro alla mano. Di là dai container si profila la recinzione del mercato vecchio, rete di occhi, sguardi spaventati che sfuggono l’incrocio pericoloso di altri sguardi: è fra quegli steccati che di notte si ammassano i disperati che tenteranno la traversata per l’Europa, è lì che stavi anche tu, poche notti fa. A bordo della nave italiana ora c’è un silenzio carico di rabbia, di incredulità, o di quella cortina che ti metti intorno alla mente quando hai disperatamente bisogno di non capire, almeno per un istante ancora. Molti vengono portati a terra di peso, qualcuno sviene. Anche i marinai sono angosciati, c’è chi bestemmia sottovoce e chi prega. «Ammazzateci almeno»: ci proveranno in molti a esaudirti, nei prossimi giorni. Ma non ora, e non certo questi funzionari in missione di accoglienza e in odore di legalità. Per adesso si limitano ad ammassarti con gli altri sul retro di un furgone, vi censiscono e vi lasciano lì per ore.
È la storia della motonave Bovienzo. Una giornata particolare: il 6 maggio del 2009 in Europa, per mano italiana, nella luce di una piena legalità, torna l’istituto della deportazione. A più di 200 persone viene impedito di approdare in Europa, ed eventualmente chiedere asilo politico.

A mezza via

Roma, 9 dicembre 2009, le agenzie di stampa battono un comunicato: il freddo ha ucciso un altro barbone, il corpo congelato su un marciapiede all’angolo fra via Principe Eugenio e piazza Vittorio. Sono notizie che si ripetono ogni inverno. In questi casi si titola Emergenza freddo, e si invocano provvedimenti adeguati da parte dell’amministrazione pubblica. A Milano, per esempio, lasciano aperti di notte i mezzanini delle metropolitane per dare riparo a chi non ha casa. A Roma si chiede l’attuazione immediata del «Piano per il freddo» annunciato dal Comune, per evitare che altri homeless rimangano uccisi.
Un homeless, un barbone, uno come tanti, un pachistano, 52 anni, di nome Mohammed. Quasi tutti si chiamano Mohammed. Alle spalle storie simili: lui era vissuto alla stazione Termini, «senza soldi, senza dignità, con l’ossessione della legalità», come aveva detto lui stesso1. Qualche periodo in stabili occupati, poi la solita trafila di sgomberi, cacciate, deportazioni da un quartiere all’altro, da una periferia a un’altra, da città a città, da slum a slum. E poi aggressioni subite per strada o nei luoghi dove si accampava. Lavoro in nero, ovviamente, di quelli che – come si dice – «gli italiani non vogliono più fare». E l’immancabile periodo rinchiuso nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria. Poi la strada, la morte, un titolo formulare in cronaca: Emergenza freddo.
Invisibile no, però: Mohammed Muzzafar Alì lo conoscevano in tanti, lui era Sher Khan, la tigre. «La prima volta che sono sceso in piazza mi ha portato Sher Khan»: è una frase che si sente spesso fra i migranti di Roma; Mohammed era un leader nel movimento antirazzista, si batteva perché a chi era dovuto fuggire fossero riconosciuti qui i diritti che nei paesi di origine erano negati. Aveva dato vita all’Uawa, Unione dei lavoratori asiatici: afgani, pachistani, bengalesi, indiani, cinesi, cingalesi. Insieme a don Luigi Di Liegro, il padre fondatore della Caritas italiana, aveva guidato la storica occupazione della Pantanella nel 1991, quando 3 mila persone avevano alzato la testa per trovare un luogo dove – appunto – non morire di freddo. No, non era uno come tanti, Sher Khan. Si era battuto contro lo schiavismo diffuso nelle nostre campagne, dove il ricatto della clandestinità costringe migranti di tutto il mondo a lavorare in condizioni di degrado estremo, mancanza di libertà e di igiene, e spesso a morire in cattività. Un vanto esclusivo dell’Italia, almeno entro l’Unione Europea. Si prendeva cura della tutela legale delle persone che assisteva: portava gli stranieri che si rivolgevano a lui in Questura, faceva da mediatore, interprete, si perdeva con loro nei labirinti della burocrazia che sembrano studiati per allontanare e sfinire, e con loro ne usciva, sapeva trovare un avvocato, un consulente, un sindacato, un medico per qualunque problema. In tanti lo seguivano, non sempre per benevolenza: a volte erano squadracce neofasciste che cercavano lui e quelli come lui. Ma, anche se lo prendevano, ogni volta lui si rialzava. Aveva organizzato manifestazioni, scioperi della fame: l’ultimo proprio a Ponte Galeria, per denunciare la reclusione senza colpe riservata ai migranti, e le strutture fatiscenti e antigieniche in cui vengono rinchiusi. Aveva fatto da mediatore fra comunità in conflitto fra loro, e non si era lasciato assorbire dalle associazioni «per gli stranieri», e dal loro modello organizzativo quasi aziendale. La sua gente si fidava di lui, perché lui aveva vissuto tutte le vite di chi è costretto a partire, aveva fatto il marinaio sulle petroliere, il bracciante, il politico, era sopravvissuto a tutte le giravolte della legislazione italiana sui migranti: quella legge Martelli che oggi sarebbe da rimpiangere, i centri di detenzione istituiti da Livia Turco e Giorgio Napolitano, la Bossi-Fini, il Pacchetto sicurezza. E conosceva le leggi, sapeva come sopravvivere e aiutava la gente a sopravvivere. Era stato anche in prigione: una sera, ubriaco, aveva litigato con l’addetta a un botteghino della metropolitana. Non aveva il biglietto, ma voleva salire lo stesso, probabilmente si erano strattonati, la controllora aveva chiamato la polizia, che in questi casi corre: il fermo, i verbali compilati con solerzia, la parolina «palpeggiamento» che spunta tra un foglio e un altro: straniero, asiatico, marginale, magari è anche un potenziale stupratore no? Ne era uscito pulito, ma non integro. Soffriva di cuore, beveva sempre di più, era tornato in strada. Il solo posto dove poteva tornare: non il Pakistan, dove i suoi precedenti politici lo avrebbero portato immediatamente in un carcere, nel migliore dei casi. Ci tornerà il suo cadavere a Dera Ghaji Khan, la città dov’era nato.
Sher Khan era in attesa del verdetto sulla domanda di asilo che aveva presentato alla Commissione territoriale romana.

Da questa parte

Via Asti è un nome dall’eco sinistra a Torino, un lungo isolato silenzioso in un...

Indice dei contenuti

  1. 1. Tre gradi di segregazione
  2. 2. Del respingere
  3. 3. Bastione Europa
  4. 4. A proposito di delocalizzazione
  5. 5. Dentro le mura
  6. 6. I salvati
  7. Come orientarsi sapendone di più
  8. I numeri
  9. Richiesta d’asilo: istruzioni per l’uso
  10. Appendice
  11. Bibliografia & Sitografia