Costantino il Grande
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Costantino il Grande

  1. 160 pagine
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Costantino il Grande

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"Arnaldo Marcone, antichista, ha scritto un saggio di sintesi e dalle sue brevi ma puntuali note emerge la durezza del 'nuovo corso' cristiano dell'impero." Franco CardiniDopo Augusto non c'è stato imperatore romano che abbia regnato più a lungo di Costantino il Grande (306-337 d.C.) o che abbia fatto scelte di maggiore portata rivoluzionaria.Arnaldo Marcone traccia il ritratto a tutto tondo di un imperatore della cui azione forse non si sono ancora colti a pieno tutti gli aspetti di novità: fu Costantino infatti a dare all'impero una nuova religione, una nuova capitale, una nuova organizzazione dell'esercito. Non in tutti i campi gli arrise il successo; in particolare, disastroso fu il fallimento del suo disegno di fondare una dinastia personale con i suoi figli, né duratura si rivelò l'organizzazione da lui disegnata per il potere imperiale. Ma quanto più vicino alla modernità il suo regno, rispetto a quello di Augusto o di un Cesare!

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788858109014
Argomento
Storia
Categoria
Storia antica

Imperatore unico

1. La crisi ariana e il concilio di Nicea

A poco più di cinquant’anni, dunque, Costantino aveva realizzato con pieno successo la sua massima ambizione: era signore assoluto dell’Impero che diveniva ormai appannaggio esclusivo della sua famiglia. Nello stesso tempo, per la prima volta, si trovava a essere senza un nemico interno contro il quale indirizzare la sua politica. Tuttavia, come talvolta accade, l’ora del trionfo fu in realtà preludio a situazioni di tensione e di crisi. Molto presto sarebbe iniziata infatti la stagione torbida dei conflitti familiari, delle macchinazioni e delle vendette.
Non era difficile immaginare chi sarebbe stata la prima vittima. Licinio non fu lasciato a lungo indisturbato nella sua residenza di Tessalonica. Accusato di voler riguadagnare la dignità imperiale con l’aiuto di contingenti barbarici delle truppe ausiliarie, fu messo a morte già nel 325. Più crudele, ma non meno comprensibile nella spietata logica del potere, appare la sorte del figlio Liciniano cui forse nuoceva, in prospettiva dinastica, il fatto di essere nipote di Costantino. Neppure la sua giovane età (aveva solo undici anni!) valse a sottrarlo al suo destino: infatti nel 326 anche lui fu messo a morte.
All’indomani della vittoria su Licinio vediamo Costantino impegnato nel fissare i princìpi-guida della sua politica religiosa in Oriente. In queste regioni il successo del cristianesimo aveva bisogno di essere disciplinato. Non si trattava, cioè, semplicemente di reintegrare nelle loro cariche quanti le avevano perdute a causa delle discriminazioni operate da Licinio nell’amministrazione o nell’esercito o di restituire le proprietà confiscate. Nelle province orientali, dove i cristiani erano da tempo numerosi e attivi, doveva serpeggiare ormai una sete di rivalsa. Molti erano dell’opinione che la semplice tolleranza del 313 non bastasse più. Ai loro occhi si annunciava, promettente, la stagione della rivincita. Non era questo, però, il genere di situazione che poteva essere visto con favore dal potere imperiale. Troppo grande era infatti il rischio di disordini che ne sarebbe potuto derivare.
Il testo della lettera-editto indirizzata da Costantino agli abitanti delle province d’Oriente già alla fine del 324 è un documento prezioso testimone a un tempo di abilità strategica e di finezza psicologica. Da una parte si condannano le persecuzioni e quanti le hanno promosse o tollerate. Dall’altra si invoca la fedeltà al disegno divino per sollecitare una condotta benevolmente comprensiva verso quanti insistono a rimanere nell’errore. Vale la pena di riportare il passo più significativo dal quale risulta bene, inserita in una preghiera, la volontà dell’imperatore di mettere a freno eventuali intemperanze:
Io ti supplico, o Dio Onnipotente! Che tu sia mite e benevolo verso tutti gli abitanti dell’Oriente, concedi attraverso di me, tuo servo, salute ai tuoi in tutte le province che erano oppresse da un’annosa calamità. Io ti chiedo questo non ingiustamente, o Signore dell’universo, Dio santo! È infatti sotto la tua guida che ho intrapreso e portato a compimento le azioni salvifiche. Io ho condotto il mio esercito vittorioso dovunque con davanti il tuo simbolo. E quando di nuovo chiamerà il bisogno dello Stato, io seguirò di nuovo il segno del tuo potere e muoverò contro i nemici. Per questo io ti ho dedicato la mia anima in cui amore e paura si mescolano in forma pura. Io amo con devozione il tuo nome e onoro il tuo potere che tu hai mostrato attraverso molti segni e attraverso cui hai rafforzato la mia fede. Da esso sono anche ora incitato a mettere mano al lavoro per restaurare la tua antichissima casa che quegli uomini miserabili e empi hanno contaminato con empia devastazione.
Io desidero che il tuo popolo viva in pace e libero da ogni discordia per il bene comune della terra e di tutti gli uomini. Anche quelli che sono nell’errore devono ricevere la stessa pace di quelli che credono e godere della stessa tranquillità. La stessa dolcezza della comunità avrà infatti il potere di migliorare anche loro e di condurli sulla retta via. Nessuno dovrà molestare un altro: ognuno avrà quello che vuole il suo cuore e a quello sarà obbligato. Quanti hanno una retta opinione devono peraltro essere convinti che solo i santi e i puri, che chiami tu stesso, possono riposare nelle tue sante leggi. Ma quelli che vi si sottraggono devono conservare il tempio del loro inganno; ma noi abbiamo il tempio splendidissimo della tua verità. Quanto tu ci hai dato secondo natura noi lo auguriamo anche a loro, così che anch’essi traggano gioia dalla comune concordia (Vita di Costantino, II, 55-56, trad.it. di L. Tartaglia).
Anche la vittoria, insomma, ha le sue difficoltà. D’altra parte Costantino aveva già fatto esperienza di quanto aspre potessero essere le controversie che dividevano i cristiani. Il suo intervento diretto nel tentativo di risolvere la controversia donatista in Africa non aveva prodotto i risultati sperati. Questa, tuttavia, riguardava, almeno originariamente, una questione di procedura, di amministrazione del culto. La tradizione culturale dell’Oriente greco si rifletteva anche nelle dispute teologiche, molto più sofisticate e complesse di quelle che agitavano la parte latina dell’Impero. Qui a essere coinvolti erano gli stessi dogmi fondamentali della fede cristiana.
La disputa verteva sulla natura di Cristo. Le tesi erano molteplici, ma i due principali antagonisti erano il vescovo di Alessandria Alessandro, e il suo presbitero Ario, che diede origine all’eresia che da lui prende nome. Ario, in sostanza, anche per reazione alle dottrine che facevano del Figlio una pura manifestazione del Padre, ne aveva accentuato la posizione subordinata, sino a considerarlo non coeterno rispetto al Padre, ma creato dal nulla. In questo modo Cristo finiva per essere equiparato a una creatura.
Alessandro non esitò a far scomunicare il suo presbitero da un sinodo di vescovi egiziani convocato ad Alessandria, forse nel 318. Egli, probabilmente, credeva così di risolvere una volta per tutte una disputa che era interesse comune chiudere in fretta. Così, però, sottovalutò il consenso che la dottrina di Ario era in grado di trovare, soprattutto in Siria e in Palestina, regioni che, tra l’altro, accettavano a malincuore il primato in materia dottrinale del patriarca di Alessandria. In particolare Eusebio di Nicomedia (da non confondersi con l’altro Eusebio, di Cesarea, lo storico ecclesiastico e biografo di Costantino) si distinse tra i sostenitori della causa ariana.
La condanna di Ario come eretico e la sua conseguente scomunica si rivelarono controproducenti. Esse determinarono una serie impressionante di reazioni favorevoli alle sue tesi. Furono addirittura convocati dei sinodi in Oriente che deliberarono la reintegrazione di Ario nel clero alessandrino, senza tener conto dell’evidente interferenza che un atto del genere comportava rispetto agli affari interni di un’altra sede episcopale. L’asprezza del confronto era giunta a un punto tale da far temere che potesse degenerare in qualcosa di più serio. Costantino, comprensibilmente preoccupato, reagì con prudenza. Decise di tentare la via dell’arbitrato e ricorse al suo fidato consigliere in materia ecclesiastica, Ossio di Cordova, inviandolo ad Antiochia con una lettera che conteneva un vero e proprio appello alle due parti, perché raggiungessero un accordo soddisfacente. Il contenuto è di estremo interesse:
O splendida e divina Provvidenza, quale mortale ferita ha colpito il mio orecchio e ancor più il mio cuore! Io sono venuto a sapere che tra di voi era scoppiata una contesa ancora più aspra di quella che io avevo lasciato in Africa e che il vostro paese, dal quale io avevo sperato una cura per gli altri, ne aveva esso stesso ancor più bisogno. Quando io considerai l’origine e l’oggetto della contesa, emerse allora che il motivo era del tutto trascurabile e che non meritava un contrasto così grave. Io sono perciò posto nella necessità di scrivervi questa lettera e mi rivolgo alla vostra concorde intelligenza, invocando a sostegno in quest’opera la divina Provvidenza, e mi pongo consapevolmente come pacificatore nella contesa che vi divide. Infatti con l’aiuto di Dio io potrei facilmente ottenere con il mio discorso, in virtù dell’appello alla pia intenzione dei miei uditori, che ciascuno si rivolgesse al meglio anche se la causa della discordia fosse molto seria. Ma in questo caso, in cui il motivo è piccolo e insignificante ed è di ostacolo al tutto, come non potrà non essere che la sistemazione della questione si otterrà molto più velocemente e felicemente? (Vita di Costantino, II, 68)
In questa lettera c’è un accento di sincerità che non va sottovalutato. Costantino doveva nutrire le migliori speranze dopo il successo conseguito su Licinio e il suo arrivo in Oriente. Invece si trovava di fronte a nuove divisioni la cui sostanza gli era forse indifferente, ma delle quali coglieva la potenzialità distruttiva. Era decisamente più fortunato sui campi di battaglia, che non come mediatore nelle dispute ecclesiastiche. Il suo appello, infatti, non conseguì alcun risultato. I vescovi ribadirono la condanna di Ario, rinviando a un più ampio concilio, da tenersi ad Ancyra (l’odierna Ankara), una delibera più articolata in materia di ortodossia.
Ancora una volta Costantino diede prova di duttilità politica. Se il suo tentativo di mediazione non aveva dato frutto, un concilio nel quale sarebbero convenute le massime dignità ecclesiastiche gli parve come l’occasione propizia nella quale il suo ruolo di signore del mondo per volontà divina avrebbe potuto avere il giusto risalto. Costantino si impegnò quindi nel far sì che la grande assemblea dei vescovi si tenesse non lontano dalla sua residenza imperiale di Nicomedia, in modo da consentirgli di essere presente con tutto il peso della sua autorità.
La scelta cadde su Nicea, una città dal nome bene augurante, che significa «vittoria» (in greco: níke). Tra le motivazioni addotte per il cambiamento di sede c’era anche quella che a Nicea sarebbero potuti arrivare più facilmente per mare i vescovi occidentali, senza costringerli a un ulteriore viaggio verso l’interno dell’Anatolia. Per quanto apparentemente giustificata potesse essere questa considerazione, alla fine a Nicea convennero di fatto solo prelati orientali: da Roma giunsero solo due legati del vescovo.
È probabile che Costantino non avesse la preparazione sufficiente per comprendere appieno il contenuto teologico della disputa e che fosse anche mal informato. Certamente, però, era consapevole del pericolo che l’eresia ariana poteva rappresentare come fattore di divisione dell’Impero riunificato al quale voleva garantire la benevolenza divina. Decisivo, come in altre circostanze, per la sua scelta di campo dovette risultare il fatto che a favore di Alessandro e contro Ario si schierasse il suo fidato consigliere Ossio di Cordova.
Costantino, che comprendeva bene il greco ed era in grado quindi di intervenire direttamente nel dibattito, partecipò di persona a varie sedute. Eusebio di Cesarea ci ha lasciato una descrizione del suo ingresso solenne al concilio in occasione della seduta inaugurale. Essa è tutta incentrata sull’eccezionalità della figura e del ruolo di Costantino:
Nel giorno stabilito per l’inaugurazione del concilio che doveva por fine alle controversie, i convocati una volta tutti presenti e pronti a condurre a buon esito la soluzione di ogni problema, fecero il loro ingresso nella sala centrale del palazzo imperiale, la quale per la sua ampiezza sembrava superare tutte le altre. Su entrambi i lati di essa era stata sistemata in bell’ordine una grande quantità di scranni e tutti andarono a sedere ai posti loro assegnati. Quando i padri conciliari si furono seduti con tutti gli onori dovuti, ognuno tacque nell’attesa che l’imperatore facesse la sua apparizione; ed ecco comparve un primo, poi un secondo ed un terzo personaggio del suo seguito. Precedettero anche altri, ma non si trattava degli opliti e dei dorifori che erano soliti scortarlo, bensì soltanto dei suoi amici fedeli. Al segnale che indicava l’ingresso dell’imperatore, tutti si levarono in piedi e finalmente Costantino in persona passò attraverso il corridoio centrale simile ad un celeste angelo del Signore: la sua veste splendente lanciava bagliori pari a quelli della luce ed egli appariva tutto rilucente dei raggi fiammeggianti della porpora, adorno del fulgido scintillio emanato dall’oro e dalle pietre preziose. Era questo l’aspetto esteriore della sua persona. Risultava peraltro evidente che le doti personali del suo animo erano il timor di Dio e la fede. Lo lasciavano chiaramente intendere lo sguardo sommesso, il rossore del volto, il modo con cui muoveva il passo, e ogni altro particolare del suo aspetto, a cominciare dalla statura superiore a quella di tutti coloro che lo attorniavano, la bellezza fisica, il magnifico splendore del corpo e l’intrepida e invincibile forza: tutte queste qualità, unite alla mitezza del carattere e alla benevola e imperiale clemenza, rivelano meglio di qualunque altro discorso la mirabile straordinarietà della sua anima. Quando raggiunse il punto dove erano sistemati i primi seggi, si fermò giusto nel mezzo; allora gli fu messo davanti un piccolo sedile d’oro massiccio, ma non vi si assise prima di aver fatto cenno ai vescovi di sedere. Insieme con l’imperatore tutti gli altri sedettero (Vita di Costantino, III, 10, trad. it. di L. Tartaglia).
Costantino, nella sua caratteristica preoccupazione di mettere al riparo la fede cristiana da troppo sottili disquisizioni teologiche, si impegnò nella ricerca di formulazioni sulla natura di Cristo che potessero risultare accettabili a tutti o, almeno, alla maggior parte. Eusebio di Cesarea ebbe il compito di redigere un testo, per così dire, di compromesso. Cristo era definito come «Dio da Dio, Luce da Luce, Vita da Vita». A tale definizione furono aggiunte successivamente le precisazioni che Cristo era «Dio vero da Dio vero» e che era «generato, non creato». Di particolare importanza risultava l’emendamento che specificava espressamente che il Figlio aveva la «stessa sostanza» (in greco: homooúsios) del Padre.
Anche se non del tutto nuova, questa formulazione della consustanzialità del Figlio rispetto al Padre, pur ricevendo il consenso dell’imperatore, era tale da suscitare le riserve degli ariani. Le pressioni, che arrivavano sino alla minaccia di scomunica, esercitate sui vescovi che non avessero sottoscritto il Credo uscito dal dibattito conciliare, ridussero alla fine l’opposizione a poca cosa. Solo due vescovi, conterranei di Ario, pervicaci nel mantenersi fedeli all’eresia, alla fine furono puniti con la scomunica e il bando imperiale.
Il successo conseguito da Costantino a Nicea risultò in realtà assai fragile. È vero che il simbolo uscito dal concilio è quello destinato a essere adottato stabilmente dalla Chiesa cattolica. Tuttavia l’esito positivo del concilio non servì a prevenire ulteriori divisioni all’interno dell’Impero. Già negli anni immediatamente successivi, anche per certe caratteristiche di «compromesso» del simbolo, si assiste a una pluralità di posizioni e di interpretazioni che, con maggiore o minore radicalismo, riproponevano la questione spinosa dell’eresia. Il «Credo» di Nicea si impose alla lunga solo perché sostenuto da campioni formidabili come il vescovo di Alessandria, Atanasio, che solo pochi anni dopo la morte di Costantino non esitò ad affrontare un potere imperiale che, con Costanzo II, sosteneva un arianesimo moderato, o come il vescovo di Milano, Ambrogio, a sua volta in duro conflitto, verso la fine del IV secolo, con la corte filoariana residente in città. Né va dimenticato che proprio l’arianesimo fu la via che facilitò la conversione al cristianesimo della maggior parte delle popolazioni barbariche.
Che d’altra parte a Costantino premesse, più della difesa di determinate asserzioni teologiche, l’unità della Chiesa, risulta dal seguito peculiare avuto dal concilio. In un sinodo, convocato a Nicomedia tra la fine del 327 e l’inizio del 328, vista la disponibilità manifestata da Ario ad accettare formule compatibili con il simbolo niceno si decise, con il consenso imperiale, di revocare la scomunica e di consentirgli di tornare a ricoprire le sue funzioni di presbitero ad Alessandria. Anche Eusebio di Nicomedia fu perdonato. Nella capitale egiziana, nel frattempo, era però intervenuto un fatto nuovo. Alla morte di Alessandro, nel 328, era subentrata nella carica di vescovo una personalità di eccezionale vigore, Atanasio.
Costantino, nella retorica con la quale adombrava la sua funzione, si presentava come un «vescovo tra i vescovi», un «coservitore», se si può rendere così la peculiare formula greca: egli, che si proclamava «vescovo insediato da Dio», detentore quindi di un diritto eccezionale, invocava così un formale rapporto di colleganza con gli altri vescovi. Tra le tante definizioni che Costantino dava della sua posizione rispetto alla Chiesa, una in particolare merita di essere ricordata: «vescovo di quelli che sono fuori». Il «fuori», non meglio specificato, ha creato non poche difficoltà di interpretazione. L’ipotesi più verosimile è che così egli volesse indicare il suo ruolo di supervisione universale su laici, cristiani o pagani che fossero, in quanto sudditi dell’Impero.
Già con Atanasio e con i contraccolpi della controversia ariana Costantino ebbe però subito modo di verificare quanto problematica fosse quest’opera di supervisione che rivendicava per sé, a cominciare proprio dai rapporti con le gerarchie ecclesiastiche. La storia dei rapporti tra Stato e Chiesa, che nasce con la «rivoluzione costantiniana», contrariamente a quello che talvolta si ritiene anche per l’effetto distorcente del concilio di Nicea e degli scritti di Eusebio di Cesarea, nasce sotto il segno del conflitto e non della cooperazione.
Atanasio si dimostrò indisponibile a riaccogliere Ario, che considerava ancora un eretico, nella chiesa di Alessandria. La reazione di Costantino a questo rifiuto è indicativa di come egli in concreto vedesse, al di là delle convenienze occasionali e delle formule di cortesia, i rapporti con l’autorità ecclesiastica. Non era in nessun caso concepibile per lui che essa potesse rappresentare un contro-potere. Ad Atanasio fu intimato di consentire il rientro di Ario. Le sue parole non danno adito a dubbi: «Poiché tu conosci la mia volontà, garantisci a tutti coloro che lo desiderano libero accesso in chiesa. Se io infatti dovessi venire a sapere che tu hai ostacolato o impedito l’accesso alla comunità a qualcuno che voleva farne parte, invierò subito chi provvederà su mio ordine a destituirti e a inviarti in esilio».
Se queste minacce non ebbero seguito lo si deve probabilmente alla complessità degli schieramenti che nella Chiesa orientale si erano andati organizzando dopo Nicea. Costantino, che con il concilio aveva creduto di sbrogliare per tempo una matassa che rischiava di farsi indistricab...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Il figlio di Costanzo Cloro
  3. Il tetrarca
  4. L’imperatore cristiano
  5. Imperatore unico
  6. Costantino e il destino dell’Impero
  7. Bibliografia essenziale
  8. Cronologia
  9. Glossario
  10. I personaggi
  11. I testimoni