La difficile arte del banchiere
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La difficile arte del banchiere

  1. 224 pagine
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La difficile arte del banchiere

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Dopo il commissariamento della Banca d'Italia nel '44, Luigi Einaudi venne nominato Governatore il 5 gennaio 1945, quando l'Italia era ancora divisa in due ed era un campo di battaglia.Non fu un caso se, in un momento tanto difficile e decisivo, per questo ruolo di altissima responsabilità la scelta cadde su Einaudi: era infatti un economista noto per il suo rigore morale, per i ragionamenti limpidi e lineari, per il linguaggio chiaro e comprensibile al largo pubblico. I suoi articoli raccolti in questo volume, pubblicati sul "Corriere della Sera" tra il 1913 e il 1924, riflettono il momento di difficoltà eccezionali del primo dopoguerra, il fallimento della Banca di Sconto, la crisi del Banco di Roma e di altri istituti.Questi scritti risultano di un'attualità sorprendente e costituiscono ancora oggi un modello di educazione economica applicata all'analisi e alla discussione delle vicende dell'economia nel momento in cui esse accadono. Leggerli significa scoprire le origini degli atteggiamenti oggi consolidati nella prassi della vigilanza, del controllo e della supervisione dei mercati finanziari. La prospettiva che ritroveremo in ogni pagina è quella in favore della collettività e dell'interesse generale.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858127292
Argomento
Economía

1.
Banche e risparmio

Rimase [con la creazione dell’Ina] quella che era la sostanza dell’assunzione da parte dello stato, sia pure in concorrenza, di un nuovo strumento di raccolta del risparmio nazionale. Esistevano già la «Cassa depositi e prestiti» divenuta, senza che il pubblico se ne fosse accorto, la più grande banca italiana con i suoi tre miliardi di depositi dei quali due forniti dalle casse postali di risparmio; e la «Cassa nazionale di previdenza per la invalidità e la vecchiaia degli operai», i cui fondi si aggiravano sui 150 milioni di lire. Coll’aggiunta dell’«Istituto nazionale delle assicurazioni», i cui incassi secondo la ragionata opinione dell’on. Nitti non dovevano essere inferiori ai 70 milioni di lire all’anno, lo stato già oggi disponeva di una massa di manovra di oltre 3 miliardi di lire destinata in un lungo volgere di anni (un decennio?) a raddoppiarsi. Già allora (qui pp. 35-42, in un articolo del 14 ottobre 1913 su L’assorbimento del risparmio nazionale a pro degli enti pubblici) i dubbi miei erano parecchi. Giova allo stato assumere l’ufficio dell’impiego di somme tanto imponenti? Investire vuol dire scegliere fra gli investimenti quello più profittevole; ché ogni scelta diversa significa rinuncia a scegliere gli investimenti che danno il massimo rendimento comparativo. Se si investe un milione al frutto netto del 5%, ciò vuol dire che fra i tanti impieghi i quali si offrono a gara si sceglie quello capace di fruttare almeno il 5% netto, dopo aver retribuito, al saggio del mercato, il rischio dell’imprenditore, il lavoro dei dirigenti, dei tecnici e degli operai. Se invece si sceglie l’impiego che offre solo il 4% è chiaro che la scelta è caduta su un impiego il quale è fecondo di un prodotto minore e non può pagare remunerazioni uguali ad un ugual numero di imprenditori, dirigenti, tecnici ed operai. La collettività dei collaboratori alla produzione subisce un danno.
Vero è – e l’osservazione è ovvia, antica, pacifica e la sua formulazione teorica risale agli scritti del Dupuit della metà del secolo scorso – che lo stato può avere interesse a preferire l’investimento al saggio di interesse del 4 ed anche del 3 e persino, quando non si voglia arrivare alle quantità negative, dello zero per cento. Forseché il rimboschimento non frutta allo stato, oltre il modestissimo reddito forestale netto, il risparmio delle spese per inondazioni, per riattamento delle strade e delle linee ferroviarie, per indennità ai danneggiati ed il frutto di maggiori imposte sui terreni delle valli e della pianura bonificati e rinsaldati? Forseché le strade e le scuole e i risanamenti dei quartieri poveri inabitabili ecc. ecc. non fruttano allo stato vantaggi indiretti di cresciuta produzione a causa della cresciuta commerciabilità dei prodotti agricoli, della maggiore istruzione e quindi della maggiore attitudine degli operai e dei contadini a più adeguata remunerazione, della minore mortalità e della sanità pubblica migliorata; sicché i vantaggi per la collettività appaiono maggiori della perdita per il minore rendimento monetario degli impieghi scelti.
La teoria, vera e sacrosanta, ha un limite ed è quello imposto dalla legge della utilità decrescente di tutte le quantità economiche. Giunge un punto, determinabile solo empiricamente, nel quale il vantaggio, che è tutto indiretto, della nuova strada e quello economico-monetario dell’impiego in migliorie agricole o in nuovo o cresciuto impianto industriale si equilibrano. A quel punto, è indifferente investire nell’una o nell’altra maniera. Al di là, prolungare od allargare ancora la strada, frutta meno del compiere una trasformazione agricola o del sostituire una macchina nuova ad una antiquata. E così del rimboschimento, delle bonifiche, della scuola, della casa. Poiché i mezzi esistenti sono limitati e l’essere essi a disposizione dello stato invece che dei privati non li fa crescere, se non per eccezione rarissima, configurabile forse in astratto, ma non di fatto, uopo è che somma cura sia posta nel calcolare in modo tollerabilmente corretto i vantaggi indiretti non monetabili in confronto di quelli diretti espressi in lire, soldi e denari. Qui è il pericolo massimo della teoria ovvia e pacifica e antica; che la scelta fatta dallo stato sia una scelta politica, compiuta con criteri estravaganti diversi da quelli del vantaggio collettivo. Poiché l’utilità collettiva è un concetto vago, nel quale si può far entrare molta merce di contrabbando, ecco farsi avanti le ferrovie inutili, le strade su cui non passerà mai nessuno; ecco i sussidi per rimboschire colli agevoli e fecondi invece di montagne dirupate; ecco moltiplicarsi fastose stazioni, alti palazzi di governo (prefetture) e case di giustizia, nelle quali i giudici non hanno aule bastevoli per giudicare e per deliberare; ecco le scuole, nelle quali le aule giungono ai cinque metri di altezza e non sono riscaldabili; ecco le vie delle città ogni giorno sossopra per motivi diversi e non coordinati nel tempo e nella esecuzione. Talché aveva senso il dubbio mio (qui pp. 37-38) se fosse conveniente assegnare i mezzi della Cassa depositi e prestiti a favore dei comuni desiderosi di compiere un’opera pubblica. Non era opportuno che i comuni bisognosi di credito si dovessero normalmente rivolgere al mercato? Tal città, bene amministrata, con un passato noto di impegni di interessi osservati, di capitali rimborsati a tempo giusto, avrebbe trovato credito al 4%; altre, con men perfetto ricordo del passato, avrebbero dovuto pagare il 5 od il 6%; ed altre infine sperperatrici e fallimentari non avrebbero trovato credito affatto.
Il problema, vivo mezzo secolo fa, è divenuto angoscioso oggi, quando i depositi presso gli istituti pubblici di risparmio e di assicurazioni sociali sono giunti alle migliaia di miliardi; quando praticamente tutte le grandi banche, che il pubblico immagina essere private, sono invece banche di stato o dipendenti dallo stato o amministrate da delegati dello stato. Per avventura, il pericolo non è oggi manifesto; ché le grandi banche e gli istituti pubblici di credito sono ancora governati da uomini nati in un mondo non ancora statizzato e osservano ancora le regole di buona condotta bancaria, divenute a poco a poco, grazie anche alle disavventure passate ed alla disciplina da queste imposta, sangue e carne viva degli uomini appartenenti allo stato maggiore creditizio vivente. Che cosa accadrà, quando, venendo meno gradatamente la generazione attuale degli uomini di banca, i politici, irreggimentati nei partiti, si accorgano che essi possono nominare uomini ligi ai loro voleri ai posti di presidenti, amministratori delegati, dirigenti di nove decimi dell’apparato bancario del paese? La mente si rifiuta di scrutare a fondo un’ipotesi tanto raccapricciante; e si rifugia nella speranza della diffusione dell’educazione economica e del rispetto morale per istituzioni fatte venerande dal tempo. Delle quali speranze la seconda, pur tenuissima, sembra più fondata della prima.
(Dalla Prefazione al volume terzo delle Cronache, pp. xxxviii-xli)

Come crebbe la più grande banca italiana.
I due miliardi delle casse postali

Due notizie recenti intorno alle nostre casse postali di risparmio meritano di essere commentate: per la prima essendosi saputo che i depositi di risparmio postali hanno il 17 marzo scorso raggiunto i 2 miliardi di lire; e per la seconda essendo stato comunicato che in sua seduta del 6 aprile il consiglio dei ministri aveva approvato un disegno di legge presentato dall’on. Calissano, con il quale si eleva a 6000 lire il limite massimo dei depositi postali per ciascun libretto. Una relazione recente del comm. Giuseppe Cacopardo, fino alla fine del marzo 1913 direttore generale dei vaglia e dei risparmi al ministero delle poste e telegrafi, consente di vedere per quali gradi, dai due milioni e mezzo di depositi del primo anno di istituzione, le casse di risparmio postali italiane sieno riuscite a mettere insieme i due miliardi di oggi e mette in chiaro le ragioni per cui si è deliberato di portare a 6000 lire il limite massimo dei depositi su ciascun libretto.
La storia delle casse postali di risparmio si può distinguere in due periodi: uno più lungo, dalla istituzione fatta con legge del 27 maggio 1875 sino alla legge dell’8 luglio 1909; e uno di minor durata, dall’8 luglio 1909 ad oggi, in cui si iniziarono nuovi ordinamenti, capaci di imprimere rinnovato slancio ai depositi.
Il primo e più lungo periodo fu segnalato per due norme: di cui la prima diceva che su ogni libretto (ed una persona non poteva avere più d’un libretto) non poteva farsi un deposito fruttifero maggiore di 2000 lire; mentre la seconda limitava ancor più i depositi, vietando di depositare in ogni anno più di 1000 lire per libretto. Era evidente lo scopo che s’erano proposti i fondatori delle casse postali: offrire un asilo sicuro ai modesti risparmi dei piccoli capitalisti che non si fidavano né degli investimenti in titoli di rendita, né dei depositi presso banche e banchieri privati, e non avevano, vivendo lungi dalle città in luoghi di campagna, comodità di giovarsi di altre istituzioni di credito. Alzando lo sguardo oltre la cerchia della gente minuta, i fondatori delle casse postali ambirono altresì raccogliere i depositi temporanei della borghesia di medi proprietari, professionisti, impiegati, i quali possono avere delle giacenze di cassa momentanee, che consumeranno poi nel corso dell’anno, o impiegheranno in compra di titoli o in mutui, quando la somma si sia fatta alquanto più rotonda. Con questi intendimenti prosperarono le casse postali; le quali dalle lire 2.443.404 raggranellate alla fine del 1876 a mano a mano passarono a raccogliere 112.128.422 lire alla fine del 1883, e poi 400.039.468 lire alla fine del 1893 e, raddoppiando ancora, 869.224.123 alla fine del 1903; superando il miliardo, con 1.068.384.660 lire, alla fine del 1905; e toccando 1.506.497.274 lire alla fine del 1908; malgrado che l’interesse netto pagato ai depositanti fosse via via stato ridotto dal 4,25 al 4 poi al 3,50, al 3,25 per cadere definitivamente al 2,64%.
Nei primi mesi del 1909 un fatto nuovo e degno di riflessione si verificava per la prima volta: i depositi accennavano a discendere: dalle lire 1.506.497.274 alla fine di dicembre 1908 erano ancora saliti a lire 1.520.617.503 alla fine di gennaio 1909, per l’affluire consueto dei salari e guadagni e degli interessi esatti dalla clientela risparmiatrice nei primi giorni dell’anno; ma poi si era iniziata la discesa: a 1 miliardo e 516 milioni alla fine di febbraio, a 1 miliardo e 509 milioni alla fine di marzo, a 1 miliardo e 503 milioni alla fine di aprile, a 1 miliardo e 497 milioni alla fine di maggio ed a 1 miliardo e 492 milioni alla fine di giugno. Se la discesa fosse continuata, gran danno avrebbero sentito le provincie, i comuni, i consorzi pubblici, le istituzioni d’ogni fatta, le quali ricorrono ai fondi delle casse di risparmio per ottenere prestiti a mite interesse con cui costruire scuole, acquedotti, strade, manicomi, ospedali ecc. Ben poteva darsi che il fenomeno fosse temporaneo, dovuto ai ritiri degli emigranti ritornati in patria in seguito alla crisi del 1907 negli Stati uniti, i quali potevano essersi trovati astretti a consumare parte dei risparmi prima accumulati. Ma poteva anche essere indizio di una tendenza più duratura, sia che le casse postali avessero soddisfatto intieramente ai bisogni di risparmio della clientela, sia che una parte dei loro clienti tendesse a spostare i depositi a pro delle casse ordinarie di risparmio o delle banche private, le quali vanno disseminando la penisola di succursali ed offrono ai depositanti ogni maniera di agevolezze, maggiori di quelle che prima della legge 8 luglio 1909 potevano fornire le casse postali.
L’aculeo della concorrenza insegnò alle casse postali la via da tenere. Anzi i depositanti l’avevano già spontaneamente indicata essi medesimi, violando la norma di legge la quale vietava di far depositi fruttiferi superiori alle 2000 lire. Molti depositanti invero aprivano diversi libretti intestati ad altri nomi, cosicché, per quelli che osavano violare la legge, il limite delle 2000 lire era diventato del tutto nominale. Queste nuove vie extra-legali furono appunto legalizzate con la nuova legge dell’8 luglio 1909, la quale stabilì: 1) che fosse abolito il divieto di non poter depositare più di 1000 lire all’anno; 2) che fosse elevato a 4000 lire il limite dei depositi fruttiferi; 3) che fossero autorizzati, come già lo erano le opere pie, anche i comuni, le provincie e gli enti morali a far depositi fruttiferi senza limiti di somma. Le casse postali estendevano così la cerchia della loro clientela. Da un lato offrivano alle istituzioni pubbliche il mezzo di depositare fruttuosamente le giacenze di cassa, che talvolta rimanevano infruttifere in mano dei tesorieri; dall’altro si faceva appello alle classi più agiate ed altresì alle classi commerciali e viaggianti, mercé l’istituzione del libretto di riconoscimento, con cui il possessore di libretto postale può ritirare a vista il suo denaro in ogni tempo e in ogni località del regno, che sia sede di ufficio di posta. Come osserva il Cacopardo,
mercé l’elevazione a lire 4000 dei depositi fruttiferi, si valgono del libretto postale di risparmio, in più largo numero e per somme sempre rilevanti, i numerosi commessi viaggiatori e tutti coloro che per ragioni di traffico e di commissioni sogliono percorrere da un capo all’altro la nostra penisola. Se ne valgono tutti coloro che per ragioni di studio, di professione, di rappresentanze ecc. ecc., sono costretti a far lunghi viaggi dalla città nativa, dal proprio collegio alla capitale, o in altre sedi del regno, dove han bisogno di permanere per un periodo più o meno lungo: di questo numero sono molti deputati, senatori, consiglieri provinciali, componenti di commissioni, professionisti e quanti altri, mossi da necessità varie, sono obbligati a trasferirsi ed a sostare più o meno lungamente nei grandi centri. Se ne servono periodicamente, in certe stagioni dell’anno, tutte quelle famiglie che sogliono raccogliere a risparmio il soprapiù delle loro entrate ordinarie, per dedicarlo nella propizia stagione in viaggi e permanenze nelle sedi balnearie o di acque termali.
L’allargamento della clientela, consentito dalla nuova legge e facilitato da una adatta opera di propaganda dell’amministrazione, conseguì ben presto i suoi effetti. Mentre i depositi, dopo essere aumentati di 142 milioni nel 1906 e di 207 nel 1907, erano nel 1908 cresciuti soltanto più di 89 milioni di lire e nel primo semestre del 1909 erano anzi, come vedemmo, diminuiti di 28 milioni; subito dopo la promulgazione della legge 8 luglio 1909 crescono nuovamente: di 93 milioni nel secondo semestre del 1909 e di 160 milioni nel 1910.
A questo punto la virtù della legge sembra rallentarsi: dal 1° gennaio 1911 al 28 febbraio 1912, ossia in 14 mesi, vi ha ancora un incremento di 92 milioni, ragguardevole bensì in vista della cresciuta concorrenza delle casse ordinarie e delle banche, che hanno moltiplicato negli ultimi anni le agevolezze ai depositanti e correntisti e della istituzione, avvenuta nel 1911, di casse postali di risparmio negli Stati uniti, le quali vorrebbero anche assorbire il risparmio dei nostri emigranti; ma, sebbene ragguardevole, pur sempre meno rapido di quello che fu nel secondo semestre del 1909 e nell’anno 1910. Dal 28 febbraio 1912, in cui erano di 1 miliardo e 893 milioni al 17 marzo 1913, in cui fu toccata la pietra miliare dei due miliardi, vi fu un ulteriore aumento di 107 milioni, aumento ragguardevolissimo, se si pon mente che le vicende politiche ed economiche dell’anno avrebbero potuto anche spiegare un eventuale consumo degli interessi ossia del reddito dei depositi. Ma tuttavia aumento inferiore a quello del secondo semestre del 1909 e del 1910.
Onde da tempo l’amministrazione pensava ad escogitare nuovi avvedimenti; ed il Cacopardo scriveva
che molte altre classi più benestanti potranno essere accaparrate, se l’amministrazione, convinta dalla fatta esperienza e perseverando nel proposito di dare una maggiore espansione al risparmio postale, addivenisse ad accrescere progressivamente il limite dei depositi fruttiferi fino alle lire 10.000, equiparandolo a quello oramai concesso per varie ragioni ai nostri emigranti all’estero; e se nel contempo, abbinando al servizio del nostro risparmio quello, in corso di studio, degli assegni e delle compensazioni postali, concedesse a questo ultimo mezzo di trasmissione di valori, nei piccoli centri non sedi di banche private, il beneficio di un misurato interesse per quelle somme che si volessero far restare in potere dell’amministrazione, oltre un determinato periodo di tempo.
Il disegno di legge, che ora si annuncia, dell’on. Calissano vuol percorrere la strada a gradi; e per ora comincia ad elevare il limite dei depositi da 4000 a 6000 lire. Nessun dubbio però che questo è un primo passo e che qui non si fermano le ambizioni dei reggitori delle casse postali di risparmio; poiché, ricordando le parole pronunciate, in occasione del dibattito sul monopolio assicurativo, dall’on. Giolitti, doversi cioè «concentrare nello stato le maggiori forze finanziarie», il Cacopardo affermava la necessità di
presidiare lo stato di forti risorse finanziarie, per metterlo in grado non solo di agevolare agli enti il compimento di opere pubbliche di vitale importanza, ma di esercitare nelle lotte economiche moderne, la propria azione moderatrice e difensiva, nel pubblico interesse.
Intorno alla quale ultima necessità è lecito rimanere pensosi e dubbiosi, sebbene le ragioni del dubbio siano troppo complesse per poter essere esposte nella conclusione di breve articolo. Non si può tuttavia rimanere dubbiosi intorno alle ragioni logiche che spingono ogni istituto a crescere ed a rafforzarsi nella lotta di concorrenza con gli altri istituti. Credevano i fondatori di offrire un sicuro asilo alle alcun...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Nota della Curatrice
  3. Fonti dei testi
  4. Nota biografica
  5. Introduzione alla prima edizione
  6. 1. Banche e risparmio
  7. Come crebbe la più grande banca italiana. I due miliardi delle casse postali
  8. Vincoli legali o riforma di vocabolario? (a proposito di depositi a risparmio presso la banca ordinaria)
  9. Intorno alla cosidetta tutela del risparmio
  10. La tutela del risparmio e i precedenti legislativi italiani
  11. L’assorbimento del risparmio nazionale e il finanziamento degli enti pubblici
  12. I depositi nelle banche e nelle casse di risparmio
  13. 2. La scalata alle banche
  14. La scalata alle banche. Malanni e rimedi
  15. L’accordo fra le banche
  16. La nuova scalata alle banche e i suoi insegnamenti
  17. Banche ed aumenti di capitale
  18. L’inchiesta sulla scalata alle banche. L’ambiente ed i limiti
  19. I compiti dell’inchiesta bancaria
  20. Un pericolo di monopolio al pubblico risparmio?
  21. Scalata alle banche
  22. 3. I salvataggi bancari
  23. Le specie di intervento bancario
  24. Gli insegnamenti della crisi
  25. Responsabilità
  26. Domande
  27. Riflessioni
  28. Verità ovvie e precedenti notabili in tema di crisi bancarie
  29. L’azione del governo. “Albo signanda lapillo”
  30. Le ragioni dell’intervento dello stato
  31. L’assemblea ed il voto dei creditori della banca di sconto
  32. Per chiarire i propositi dei creditori della sconto
  33. I metodi ed il costo dei salvataggi bancari
  34. Il salvataggio delle banche. Le anticipazioni alla «sconto» e le perdite dello stato
  35. I nuovi decreti bancari
  36. 4. Banche con aggettivi
  37. Biglietti di banca ed assegni bancari
  38. La circolazione e gli immobilizzi bancari
  39. Banche con aggettivi
  40. Postfazione alla presente edizione
  41. Appendici
  42. Glossario
  43. Note al testo
  44. Ministri responsabili dei dicasteri economici dal 1913 al 1924
  45. Indice delle opere, delle leggi e dei documenti citati da Luigi Einaudi
  46. Nota bibliografica
  47. Bibliografia critica selezionata