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L’ispirazione: mania e furore
1. La Stanza della Segnatura e l’afflato della poesia
Nella volta della Stanza della Segnatura, la prima che Raffaello abbia affrescato in Vaticano per papa Giulio II (tra il 1508 e il 1511) compaiono quattro tondi che rappresentano la Teologia, la Giustizia, la Filosofia e la Poesia. Ognuno di essi è accompagnato da un rettangolo, tematicamente legato al tondo (la Poesia, per esempio, dall’episodio mitico di Apollo e Marsia; la Filosofia dalla raffigurazione del Motore Primo). Sulle pareti sottostanti e nelle lunette, poi, Raffaello e i suoi hanno dipinto il Parnaso (Poesia), la Scuola di Atene (Filosofia), la Disputa del Sacramento (Teologia), Virtù e la Legge (Giustizia). È un programma completo di cultura umanistica di inizio Cinquecento.
La Poesia, nel suo tondo, è rappresentata come una donna seduta e dotata di ali, coronata d’alloro: con la mano sinistra, sorregge uno strumento musicale a corde, una cetra o lira; con la destra, un libro. È accompagnata da due putti, ciascuno dei quali presenta una tavola con metà di un’iscrizione latina. Lette insieme, le due proclamano «Numine afflatur»: è ispirata da un Nume. L’iscrizione proviene dal libro VI dell’Eneide (50-51), dove Virgilio descrive la Sibilla Cumana, che accompagnerà Enea nel cammino verso l’Ade e i Campi Elisi: «adflata est numine quando / iam propiore dei», ispirata dal nume, ormai vicino, del dio. C’è dunque una relazione, sembra suggerire Raffaello, tra poesia e profezia, tra l’ispirazione dell’una e quella dell’altra, che evidentemente risiede nell’invasamento comune alle due: come Platone aveva sostenuto nel Fedro. Ovidio, che nelle Metamorfosi aveva accennato alla sfida nel flauto tra Apollo e il satiro Marsia rappresentata da Raffaello nel tondo d’accompagnamento, sostiene apertamente, nei Fasti, il carattere divino e impetuoso dell’ispirazione poetica, e della sua nel caso specifico, ora che canta «cose vere», fatti:
Est deus in nobis, agitante calescimus illo:
impetus hic sacrae semina mentis habet.
Fas mihi praecipue voltus vidisse deorum,
vel quia sum vates, vel quia sacra cano.
C’è un dio dentro di noi, che ci agita e scalda:
e l’impeto nostro ha i germi della mente divina.
Io in particolare posso vedere i volti dei numi,
o perché sono vate o perché canto cose sacre.
L’afflatur dell’iscrizione che accompagna la Poesia indica l’«afflato», un soffio, uno spirare che Dante riprende all’inizio del Paradiso quando invoca Apollo proprio nella postura ovidiana, mentre scuoia Marsia vivo: «Entra nel petto mio, e spira tue / sì come quando Marsia traesti / de la vagina de le membra sue». L’ispirazione poetica è di origine divina, e comporta un grado altissimo di violenza, un eccesso della mente.
C’è, nella poesia, un elemento consistente di follia: comune peraltro nei tempi più antichi anche alla filosofia e alla «scienza». Nella Grecia arcaica, «scienziato» e poeta erano la stessa persona, e perfino a tener conto dell’avvertimento di Aristotele che mettere Erodoto in versi non fa poesia, nessuno nella Grecia più antica avrebbe considerato pazzo un filosofo naturale (Empedocle, lo sappiamo, si gettò nella bocca fiammeggiante dell’Etna e dimostrò dunque un certo grado di follia quantomeno agli occhi dei posteri). Democrito, il teorizzatore degli atomi che non sembra essere stato particolarmente squilibrato, sosteneva che un’opera di poesia è davvero bella se è composta con passione (enthousiasmos) e «spirito sacro» (hieron pneuma). Così riferisce Clemente di Alessandria, che ancora ricorda la teoria sette secoli più tardi.
Molto prima, la rammenta anche Cicerone, il quale scrive che la poesia e il teatro sono «irreali» (fictum), ma che egli ha spesso visto l’attore in un dramma di Pacuvio mostrare terribile dolore. «Ora», domanda, «se quell’attore, benché la reciti ogni giorno, non può mai affrontare quella scena senza emozione (sine dolore), si può davvero pensare che Pacuvio, quando la scrisse, si trovava in uno stato d’animo calmo e senza cura (leni animo ac remisso)»? Ovviamente no, e in effetti Cicerone prosegue menzionando Democrito e Platone: «Saepe enim audivi poetam bonum neminem – id quod a Democrito et Platone in scriptis relictum esse dicunt – sine inflammatione animorum exsistere posse, et sine quodam afflatu quasi furoris»: ho spesso sentito, infatti – come si dice che Democrito e Platone abbiano testimoniato nei loro scritti – che nessun uomo può essere buon poeta se non infiammato dalla passione e ispirato da un afflato quasi di furore». Lo afferma, Cicerone, nel De oratore e lo ripete nel De divinatione, questa volta citando esplicitamente il Fedro di Platone.
Può darsi che sulla concezione del poeta-filosofo in preda all’enthousiasmos abbia avuto un’influenza determinante la visione arcaica – di provenienza medio-orientale – del magos, dell’indovino, meteorologo e profeta, del polymathes che, secondo studi recenti, sarebbe il vero «presocratico»: una sorta di stregone o sciamano che si situa ben al di là della separazione tra mythos e logos. Sia come sia, se persino un senatore romano come Cicerone, un uomo politico e di Stato, non d’epoca arcaica ma agli sgocciol...