Blog Generation
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Blog Generation

  1. 198 pagine
  2. Italian
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Blog Generation

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Informazioni sul libro

«Se questo libro non fosse anche molto piacevole da leggere, direi che si tratta di una sorta di studio sociologico sui weblog e sui motori di ricerca. La prospettiva di Granieri è al tempo stesso ampia e precisa: attraverso l'individuazione dei suoi attori e l'esame della tecnologia, la trasformazione delle relazioni personali oggi in atto è messa in luce nei suoi vari aspetti. Il libro di Granieri è ispirato a una visione della democrazia e dell'organizzazione sociale in movimento. La sua è una vera vocazione politica, non di partito, ma di umanità.» Derrick De Kerckhove

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858102152

Capitolo 1. La rivoluzione della pagina «What’s New»

Internet è un medium solo al livello dei bit. A livello umano è una conversazione che,
grazie alla persistenza dei link e delle pagine, ha tutti gli elementi di un mondo.
Potrebbe essere un medium solo se noi non ci prestassimo minimamente attenzione.
David Weinberger

1.1. Di cosa parliamo quando parliamo di Internet

Parlare di Rete è sempre stato una specie di avventura mistica. La mia generazione (la mia «generazione digitale», intendo) ha cominciato ad averci a che fare quando ancora ciò che si sperimentava in prima persona non aveva nessuna parte nella letteratura specialistica o sociale. Quando le uniche forme di documentazione possibile erano ponderosi manuali americani dedicati a spiegare tecnologie e software, che diventavano obsoleti prima ancora che si facesse in tempo a tradurli in italiano e a distribuirli nella nostra penisola. L’accesso a Internet costava oltre un milione di lire l’anno, e a questa cifra si dovevano sommare i costi telefonici. I modem a 14,4 Kbps erano l’ultima frontiera della velocità di connessione e bisognava impostare a mano gli script con Windows 3.1. In quel periodo, poche migliaia di utenti sperimentavano un mondo nuovo con nuove regole, accettando chiamate da sconosciuti su PowWow1 e stringendo rapporti con loro come se fosse la cosa più naturale, o confrontandosi sui temi più vari con gente di tutto il mondo nei gruppi di discussione della rete Usenet. Apparve subito chiaro che «lì dentro tutto era una novità» e in qualche modo noi, che potevamo vedere ciò che accadeva e «come» accadeva, ne eravamo i portavoce. Fu in quei mesi che cominciai a sperimentare la sensazione di essere guardato come un alieno dai miei amici e in generale dalla gente unplugged, senza connessione. Era complicatissimo spiegare loro cosa stava succedendo e perché eravamo tanto eccitati.
In breve tempo, accanto alle teorie di un certo rilievo elaborate da menti organizzate come Pierre Lévy e Derrick de Kerckhove, si cominciò a creare l’immaginario di massa del «cyberspace»2, proiettando in un futuro sociale le sensazioni di un presente che ancora si faticava a descrivere nella sua interezza. Erano tempi in cui quasi nessuno aveva mai acquistato nulla in Rete, però tutti riuscivano a immaginare una vita in cui dalla tua poltrona potevi fare la spesa e parlare con gli amici. Da un lato c’era il gruppo degli entusiasti che preconizzavano una applicazione pratica del «passaggio dall’atomo al bit»3, e dall’altro c’erano i catastrofisti che mettevano in guardia dal rischio di una vita spersonalizzata e chiusa in una stanza dei bottoni. Erano tempi anche eroici, in cui a volte ti toccava persino spiegare che, comprando qualcosa sul Web, l’omino che veniva a consegnare il pacco non poteva essere digitale.
Fu subito evidente che parlare della Rete era estremamente complicato. Innanzitutto Internet era ed è più veloce di noi, perché, mentre noi stiamo scrivendo, altre migliaia di persone, di fronte ai loro monitor, stanno lavorando per cambiare le cose, sviluppare, innovare. Poi bisogna scontare una complessità che non si può spiegare semplicemente con la tecnologia o con l’informatica, perché cambia la vita e i modelli cognitivi di milioni di persone. Non è un caso che tutto ciò che si scrive sulla Rete ha una rapida senescenza, perché la stampa è molto più lenta. E non è nemmeno casuale che, tra quanto si è scritto, tutto ciò che conteneva una lettura tecnologica è invecchiato nella metà del tempo.
Per dirla con Bruce Sterling, c’erano tre modi di parlare di quanto stava accadendo: parlarne come Cassandra, con toni melodrammatici e apocalittici; analizzarla come il dottor Pangloss del Candido di Voltaire, sostenendo la non esistenza del male; oppure raccontarla come un venditore di polizze assicurative, pronti a scommettere sulle probabilità ma senza riconoscere gli eventi eccezionali4.
Un contesto così difficile da leggere e da raccontare ha generato negli anni una certa quantità di equivoci e di problemi. Luca De Biase ha studiato con grande lucidità l’impatto delle proiezioni teoriche sull’economia e sul modo di pensare, che hanno portato a vere e proprie «edeologie»5. Ma nemmeno sul versante della mera cronaca del presente si è mai (o quasi mai) riscontrata una sufficiente efficacia. La stampa e i media tradizionali in generale hanno sempre avuto un approccio molto superficiale, senza riconoscere a se stessi il ruolo di mediatori unici nel complicatissimo compito di divulgare la Rete e aprirla ad un pubblico più vasto. A differenza della scuola e dell’università, i media hanno un tempo di azione più consono a raccontare la velocità delle nuove tecnologie, ma spesso non hanno (o non si concedono) il tempo, più lento, necessario a capire fenomeni complessi.
Il risultato è stato quasi sempre disastroso. Non sono mancate clamorose gaffes, come il caso della webcam che spiava un conduttore radiofonico a computer spento. La storia, raccontata dal «Messaggero» nel gennaio 2003 e ripresa subito dagli altri media, fu condita da sottotitoli allarmistici in grado di sfidare persino le leggi della fisica: «attenti, il computer può spiarvi anche da spento». Le indagini della polizia postale dimostrarono poi che il presunto hacker aveva ottenuto le informazioni ascoltando casualmente una conversazione ­telefonica del conduttore che aveva attaccato male la cornetta.
Ma anche quando non si trattava di fraintendimenti, ha prevalso la tendenza giornalistica a rilevare ciò che fa notizia: l’arresto di alcuni pedofili o le frodi sulle carte di credito fanno sicuramente più notizia di milioni di persone che, silenziosamente, si scambiano conoscenze e visioni del mondo.
Questo «piccolo dettaglio» ha condizionato, e condiziona, la percezione di una grandissima fetta della popolazione. Nel febbraio del 2004 mi è capitato di fare una lezione a un pubblico composto da ventiquattro ragazze ad elevata scolarità della provincia di Caserta, che in gran parte non avevano mai utilizzato direttamente Internet. Alla mia richiesta di identificare la Rete attraverso parole chiave, la prevalenza è stata netta: «pedofilia», «porno», «perversione», «furto», «molestia». Se consideriamo l’impatto di ciò che fa notizia sulla popolazione non connessa, e se riflettiamo sulle percentuali del rapporto tra individui con e senza accesso, la situazione non è confortante.
Persino nell’ambito dell’informazione di settore le cose non sono quasi mai andate per il verso giusto. La «spettacolarizzazione», la tendenza a «gridare» la notizia, per cui ogni novità all’interno della Rete diventava una «rivoluzione», ha contribuito a creare un clima poco proficuo per la divulgazione e lo sviluppo, vaccinando contro questo abuso del termine anche gli utenti più entusiasti ed attenti.
I weblog non hanno fatto eccezione e sono un caso esemplare per spiegare come viene divulgata la tecnologia.

1.2. Una tecnologia che esiste da quando è nato il Web

Il giorno di San Valentino del 2004 a Napoli, in occasione di Galassia Gutenberg, si è tenuta una tavola rotonda sui rapporti tra weblog e scrittura. Nonostante la qualità dei relatori, non fu una serata felice: ancora ricordo Derrick de Kerckhove che, seduto tra il pubblico, scuoteva la testa sconsolato di fronte alle argomentazioni del moderatore. Il lancio dell’Ansa riportò la notizia di «un incontro di diaristi anonimi dalla sessualità incerta», mentre lo stesso de Kerckhove si affrettava a dichiarare al «Mattino» che il blog «è la prima creatura della Rete che dimostra la vera maturità del mezzo. Non credo sia un’esibizione dell’io, ma piuttosto del rapporto con gli altri».
È in qualche modo una costante che si ripete. Se da un lato c’era l’esigenza di costruire clamore sulla presunta novità, facendone l’ennesima rivoluzione che Internet regalava alle nostre vite, dall’altro il «contenuto stesso» di questa ipotetica rivoluzione si rivelava un po’ pericoloso e un po’ diverso da quanto appariva a prima vista.
Il pericolo, spesso non riconosciuto a livello esplicito, deriva da una potenziale minaccia all’establishment culturale e mediatico, poiché il weblog consente a tutti di pubblicare senza avere necessariamente un editore o la patente di «gatekeeper» (custode della soglia o mediatore culturale). In una celebre intervista all’«Espresso», nel 2003, il sindacalista e futurologo Carlo Formenti ha battuto il calcio d’inizio prevedendo la «scrematura della fuffa» e la sopravvivenza della qualità. Nei mesi successivi scrittori come Tiziano Scarpa e una nutrita schiera di giornalisti hanno giocato la partita movi­mentando anche in Italia i primi anni di blogging (relativamente) di massa con polemiche tra categorie (scrittori vs blogger, giornalisti vs blogger), come se i blogger stessi fossero una corporazione.
Ma se Atene piange, Sparta non ride: nemmeno negli Usa, che pure avevano un paio di anni di vantaggio e già centinaia di migliaia di blogger, le cose sono andate meglio. Ancora nel 2004, Doc Searls, senior editor del Linux Magazine, racconta che il giornalismo con la G maiuscola a stento sa cosa fare con il Web, pur sperimentandolo dal 1995. Il risultato è che i professionisti dell’informazione rendono triviale il blogging e lo accantonano come «rumore». Searls è molto esplicito:
Non ho ancora visto nei grandi media un buon articolo o un buon servizio sui weblog che non fosse fatto da un blogger. [...] I blog non possono essere compresi, e tanto meno spiegati, utilizzando le metafore concettuali che abbiamo usato per descrivere il Web sin dagli esordi: tutte queste menate sul design, l’implementazione, la costruzione di siti web con indirizzi e locazioni. Non c’è nulla nella retorica presa a prestito dall’architettura e da altri linguaggi che possa descrivere anche minimamente ciò che Dave Winer, Glenn Reynolds e Choire Sicha fanno con i loro blog ogni giorno6.
Eppure i weblog non sono assolutamente una cosa nuova, almeno come tecnologia e come logica. Osservati da un punto di vista meramente strumentale, sono solo il modello più semplice di sistema per la gestione dei contenuti. Questi sistemi, tecnicamente chiamati Content Manager System (CMS), sono progettati per favorire l’organizzazione e la pubblicazione delle informazioni, in Internet o nelle reti aziendali. Lo schema di una piattaforma base per blogging potrebbe ridursi ad un modulo per l’inserimento dei testi in un database e ad un modulo di output che li estrae e li visualizza in una pagina web, con l’ultimo testo inserito collocato in alto e gli altri a seguire verso il basso. Utilizzando un sistema simile, per pubblicare qualcosa sul Web non è necessaria nessuna competenza tecnica, se non quella di elaborare testi al computer.
Se guardiamo all’organizzazione dei contenuti, caratterizzata appunto dall’annotazione più recente in alto, secondo alcuni il primo weblog (anche se il termine fu coniato «solo» nel 1997 da John Barger7) fu anche il primo sit...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione di Derrick de Kerckhove
  2. Nota dell’autore
  3. Prologo. Di come le percezioni diventano realtà
  4. Parte primaNon la tecnologia: la pratica. Come nasce un modello nuovo
  5. Capitolo 1. La rivoluzione della pagina «What’s New»
  6. Capitolo 2. Per una descrizione della blogosfera
  7. Capitolo 3. Il Super-Google
  8. Parte secondaProve tecniche di rappresentazione del mondo
  9. Capitolo 4. Ecosistema dei media 2.0
  10. Capitolo 5. Democrazia 3.0
  11. Capitolo 6. Quello che ci meritiamo
  12. Postfazione 2009
  13. Bibliografia