La valanga
eBook - ePub

La valanga

Dalla crisi americana alla recessione globale

  1. 200 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

La valanga

Dalla crisi americana alla recessione globale

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

«Ne abbiamo fatte di tutti i colori ma nel settore della finanza c'era più ignoranza che perfidia. E, comunque, eravamo come spacciatori in un mondo dominato dai drug lords. I nostri signori della droga, quelli che dettavano le nuove regole, stavano a Wall Street, nelle grandi banche d'affari. I titoli ad alto rischio per finanziare l'acquisto degli immobili li hanno inventati loro. Noi eravamo solo dei venditori al dettaglio.»Richard Bitner, il primo 'pentito' del settore dei mutuiDalla speculazione sui titoli 'tossici' alla crisi dei mutui immobiliari, dalle scorribande dei maghi della finanza al crollo delle banche d'affari, dalle certezze ideologiche della politica liberista alla gigantesca operazione di salvataggio del sistema. Negli Stati Uniti d'America si è originata la più grande recessione economica dell'ultimo mezzo secolo, che oggi il nuovo Presidente cerca di combattere con una svolta radicale nella politica economica. In questo libro l'inviato del "Corriere della Sera" a New York racconta la catena di pregiudizi, superficialità, speculazioni, manipolazioni del mercato che hanno portato all'attuale disastro, e le misure che Obama e i governi europei stanno assumendo per farvi fronte. Una vicenda drammatica – a tratti surreale – ricca di personaggi, colpi di scena, insegnamenti per il futuro.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a La valanga di Massimo Gaggi in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Economia e Politica economica. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858102220
Argomento
Economia

Processo alla «deregulation»

«Stiamo diventando tutti italiani»

Tim Geithner è una persona dai modi garbati, con un sorriso velato di tristezza. Uno che gestisce con molta discrezione il suo immenso potere e che, a differenza dei suoi due «padrini» Rubin e Summers, quando parla non è mai tentato di «salire in cattedra». Stavolta, però, non può nemmeno parlare. Primo dicembre: il Metropolitan Club ha organizzato da tempo una cena in suo onore e lui non si è tirato indietro anche se nel frattempo, designato da Obama come prossimo ministro del Tesoro e in attesa degli hearings di conferma al Congresso, è obbligato a tenere la bocca cucita. Ma nel cocktail che precede la cena si intrattiene con tutti, accenna alle sue preoccupazioni per la difficilissima situazione finanziaria che si troverà a dover gestire e quando gli spiego che sono un giornalista del «Corriere della Sera» che viene da un paese che di debito pubblico se ne intende, avendone accumulato da decenni uno più alto del Pil, non rinuncia alla battuta: «Qui mi sa tanto che stiamo diventando tutti italiani». Battuta scherzosa, come tiene subito a sottolineare, ma amara.
Da capo della Federal Reserve di New York, Geithner ha adottato negli ultimi mesi, insieme a Paulson e Bernanke, misure che stanno avendo un impatto enorme sulla finanza pubblica. Lo ha fatto con tempestività e determinazione, quasi sempre per tamponare situazioni di mercato che si erano messe molto male. Ma questo non significa che non si renda conto dell’enormità dei provvedimenti presi, dei rischi che comportano per la Fed e la stabilità della finanza pubblica Usa.
Da ministro del Tesoro che sta per ereditare un debito federale praticamente raddoppiato in pochi mesi. Ecco perché «stiamo diventando tutti italiani», anche se il debito pubblico vero e proprio, che è passato da 5,7 a quasi 11 mila miliardi di dollari, è ancora nettamente inferiore a un Pil che supera i 14 mila miliardi. Ma l’esposizione complessiva dell’Amministrazione pubblica, la somma di garanzie e impegni di spesa, è molto più elevata; certamente superiore al reddito nazionale. A preoccupare soprattutto, però, è l’indebitamento complessivo del sistema America. Se al debito pubblico aggiungiamo quello finanziario del settore creditizio (pari al 120 per cento del Pil), quello delle imprese (77 per cento) e quello delle famiglie (grosso modo equivalente al reddito nazionale Usa di un anno), si arriva a un debito complessivo pari ad oltre tre volte e mezzo il Pil degli Usa.
Geithner ha un’espressione giovanile, dimostra molto meno dei suoi 47 anni. «Lo vedete?», lo prende in giro il vecchio Gerald Corrigan che è stato un suo predecessore, dal 1985 al ’93, alla guida della Fed di New York: «Sembra che abbia quarant’anni e invece, dopo quello che gli è capitato negli ultimi mesi, ne ha ormai 85».
La cena è un pezzo di puro teatro: salone sfarzoso affacciato sulla Quinta Avenue; a tavola il «banchiere-ragazzo» è circondato da vecchi banchieri di quelle che solo un anno fa erano le istituzioni più potenti di New York, da Citigroup a Goldman Sachs. Un mondo che ora sta scomparendo. Dall’altra parte del tavolo è seduto Nouriel Roubini, l’economista che da più di due anni – all’inizio totalmente inascoltato – ha previsto che il gran pasticcio dei mutui subprime e la crisi complessiva del mercato dei prestiti per la casa avrebbero portato l’intero sistema bancario al disastro; che il paese sarebbe precipitato in una gravissima recessione e i valori di Borsa si sarebbero dimezzati.
Sembrava un fumetto lugubre, invece è la realtà di oggi. Roubini è riverito quasi quanto Geithner e a chi fino a ieri l’ha chiamato «Dottor Catastrofe», trattandolo un po’ da iettatore, può finalmente rispondere: «Dr Doom? Dr Reality, direi».
Corrigan è un uomo della vecchia guardia, ma gli effetti della «turbofinanza» li sa interpretare molto bene. Tocca a lui fare gli onori di casa e parlare anche per conto di Geithner che, obbligato al «silenzio istituzionale», si limita a un saluto e ritira un premio.
L’ex banchiere centrale dispensa ironia corrosiva: «Tocca a me, ma anch’io devo essere prudente. Userò metafore. E vi racconto della festa del Ringraziamento, la settimana scorsa, con la mia famiglia. C’erano tutti, da mia figlia, che lavorava per Lehman, alla mia nipotina di nove anni. Che, mentre parlavo degli effetti della crisi bancaria con mia figlia, ci interrompe e mi chiede a bruciapelo: ‘Nonno, sai, la banca di mamma ha fatto bancarotta. Anche la tua sta andando in bancarotta?’. Cosa risponderle?». Quasi un epitaffio beffardo, quello di Corrigan, per una Fed iperesposta.
E poi, dopo aver descritto le grandi qualità di Geithner con l’affetto di un padre, Corrigan torna all’ironia per non diventare patetico: «Negli ultimi dieci anni abbiamo vissuto ogni tipo di crisi: asiatica, dell’hedge fund LTCM, la ‘bolla’ tecnologica e, ora, questo crollo generalizzato. E dov’era Tim? Sempre lì, fra Tesoro e Federal Reserve».
Battute dietro le quali affiora uno stupore genuino: le stesse domande che si pongono tutti, dall’uomo della strada alla Regina d’Inghilterra. Com’è stato possibile? Se questo era il sistema meglio gestito, il più ricco di professionalità, il meno corrotto, quello più market oriented e con le autorità di sorveglianza più carismatiche, come è potuto crollare di schianto trascinando il resto del mondo nella sua caduta?
Le cause, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, sono state numerose: mutui, eccessiva esposizione sui derivati, iperindebitamento delle famiglie, squilibri commerciali senza precedenti e altro ancora. Ma l’elemento che attira di più l’attenzione, anche per le sue implicazioni politiche, è il fallimento del sistema di controlli che non solo non è stato adeguato a una realtà finanziaria in rapidissima evoluzione, ma è stato addirittura smontato pezzo dopo pezzo sull’altare della deregulation.
È una storia che abbiamo tratteggiato nei capitoli precedenti: dalla rivoluzione liberista di Reagan che alla Fed sostituisce il «regolatore» Volcker col «supermercatista» Greenspan, fino alla catena di errori di George Bush jr.

Dalla dinamite alla bomba atomica

I più attoniti sono i vecchi banchieri d’affari. La deregulation che li aveva fatti prosperare, che aveva consentito loro di moltiplicare i profitti, si è rivoltata contro di loro, come un genio uscito dalla lampada e divenuto improvvisamente maligno. Ora sono alle corde e rischiano di scomparire.
Quella del genio, ovviamente, è una favoletta: da George Soros a Warren Buffett, dal banchiere Felix Rohatyn allo stesso Volcker, molte voci si erano alzate negli anni scorsi ad invocare controlli più penetranti e una severa regolamentazione dei derivati, via via definiti «ordigni tossici», «bombe H», «armi di distruzione finanziaria di massa».
Perché nessuno è corso ai ripari? Prendersela solo con l’ottusa indifferenza di Bush è sbagliato, oltre che ingiusto.
Vale la pena di soffermarsi sul meccanismo centrale della crisi – non il concetto di deregulation, ma il modo in cui questo processo è stato gestito – perché qui, anche a leggere alcune recenti autorevoli analisi, sembra ancora diffusa la convinzione di essere nel normale meccanismo delle crisi «cicliche» dell’economia: una battuta d’arresto più brusca delle altre, una distruzione di ricchezza superiore alle crisi finanziarie precedenti perché nell’economia globalizzata le cifre in ballo sono molto più elevate. Ma, alla fine, si tornerà al «business as usual».
Se i problemi sono quelli di sempre – solo di portata un po’ più estesa –, perché invocare mutamenti di rotta radicali che rischiano solo di «ingessare» il sistema economico e di farlo ripiombare nel medioevo del dirigismo?
Pericoli di questo tipo sicuramente esistono: basti dire che George Soros, il finanziere che da anni annuncia la fine di un’era, che invoca riforme radicali e aveva avvertito per tempo che i credit default swaps avrebbero appestato tutto il sistema, oggi si dice preoccupato soprattutto dal rischio di una reazione iperregolatoria.
Ma il punto centrale è un altro: la finanza di questo inizio di secolo è come un cantiere nel quale si sta demolendo un vecchio edificio per sostituirlo con uno più moderno e più ampio. I controlli ci sono ma non troppo severi, per non paralizzare l’industria delle costruzioni. Per ridurre i costi e abbreviare i tempi della rimozione del vecchio edifico, i responsabili del cantiere usano esplosivi. Ma se qualcuno di loro decide che si possono fare le cose ancora più rapidamente ed economicamente usando non dinamite ma piccoli ordigni nucleari, qualcuno dovrebbe intervenire.
Qualcosa del genere è accaduto nella finanza: i derivati hanno rappresentato un incredibile salto di qualità – con tanto di paragone con le bombe H, come abbiamo visto – ma nessuno ha mosso un dito. I nuovi contratti innovativi non solo hanno spinto le istituzioni creditizie a moltiplicare la loro esposizione, trascinandole in una condizione che ora è divenuta fallimentare, ma hanno gonfiato per anni i profitti di un sistema finanziario arrivato a rappresentare un quarto dell’intera ricchezza aggiuntiva prodotta dagli Usa.
L’impatto è stato forte anche sull’economia reale, perché la finanza derivata ha inciso profondamente non solo sulla crescita del Pil e della produttività del paese, ma anche sull’indebitamento delle famiglie. Mohamed El-Erian, cogestore di Pimco, il gigante dei fondi obbligazionari, e autore di When markets collide, libro finanziario dell’anno 2008 secondo il «Financial Times», nota, ad esempio, che la diffusione dei prodotti finanziari derivati ha dato l’accesso a nuovi strumenti di debito e di credito anche alle famiglie a reddito medio-basso. Un processo di apparente democratizzazione dei mercati, ben presto sostituito dall’incubo della loro destabilizzazione.
Gli economisti oggi fanno mea culpa per non aver visto – con l’eccezione di Roubini e pochi altri – la tempesta che stava arrivando. Ma una giustificazione ce l’hanno anche loro: l’era dei derivati ha reso in larga misura inservibili gli strumenti di analisi di cui disponevano.
Come ha spiegato con onestà e lucidità Roberto Perotti sul «Sole 24 Ore», «tutti noi pensavamo a un mondo che non c’era più», ad esempio dal lato della valutazione dei rischi: «Mentre il prezzo di un mutuo in sofferenza è abbastanza facile da determinare, è difficilissimo apprezzare il rischio e dunque fissare il prezzo di un titolo cartolarizzato lontano parecchi stadi dai mutui sottostanti». Ed è addirittura impossibile quando si crea l’enorme mercato dei credit default ­swaps, «in cui alla fine intermediari finanziari di ogni tipo, e di solito enormemente indebitati, si improvvisano assicuratori. Il 60 per cento dei contratti veniva concluso al telefono, non c’era nessun garante centrale e spesso non era nemmeno chiaro chi è che si assumeva il rischio e se era in grado di farlo».
Un mondo nuovo, pieno di sfide inedite, che è stato, invece, affrontato con una mentalità tradizionale. Alan Greenspan è stato sicuramente decisivo per la determinazione ideologica con cui ha perseguito l’obiettivo di ridurre al minimo gli interventi di controllo, ma anche per la scelta di non agire sulle bolle, una volta individuate: temeva che il rimedio – farle scoppiare anziché lasciarle crescere – potesse rivelarsi peggiore del male. Ma i paladini di una deregulation estrema, personaggi spesso poco attenti al cambiamento della natura dei problemi, sono stati tanti anche in campo democratico: soprattutto uomini come Summers e Rubin che sono stati al governo con Bill Clinton e oggi ritroviamo nel team di Obama.

Il «cow boy» dei mercati senza regole

È curioso notare, ad esempio, la spinta convergente esercitata da due personaggi che non potrebbero essere più diversi come Larry Summers, geniale economista democratico, «prin­cipe» di Harvard (accademia di cui è stato presidente), nipote di due premi Nobel (Samuelson e Arrow) e, dall’altro, un vero «cow boy» della politica come Phil Gramm, ex senatore repubblicano del Texas.
Durante la fase finale della campagna elettorale Obama ha attaccato più volte il candidato repubblicano John McCain proprio sulla deregulation, presentandolo come il mandante della Gramm-Leach-Bliley, la legge del 1999 che ha abbattuto le barriere che erano state introdotte negli anni del New Deal rooseveltiano per separare le banche commerciali da quelle d’affari. Gli strateghi del leader nero erano convinti di andare a colpo sicuro: quella legge era passata di stretta misura in un Parlamento a maggioranza repubblicana, il voto era arrivato dopo una campagna martellante dei centri di potere di Wall Street che avevano inondato il Congresso di finanziamenti ai parlamentari e Phil Gramm, vero motore dell’iniziativa, era, in quel momento, un personaggio piuttosto impopolare: consigliere economico e ministro del Tesoro in pectore di McCain fino a due mesi prima, era stato «licenziato» dal candidato della destra quando una sua sortita alquanto incauta («non c’è nessuna recessione economica, quella che stiamo attraversando è una recessione mentale: siamo diventati un popolo di piagnoni») aveva fatto infuriare tutta l’America.
Guai grossi per McCain, che ne veniva fuori come il fautore di una deregulation scriteriata. Poi, però, a soccorrerlo era arrivato, a sorpresa, proprio Bill Clinton che a quel tempo era presidente e aveva controfirmato la legge.
Anziché limitarsi a sostenere che la norma non conteneva misure che giustificassero un veto della Casa Bianca, l’ex presidente si era lanciato in una difesa vigorosa del provvedimento e dello stesso Gramm: «Spesso non sono d’accordo con lui...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Il sogno della casa per tutti
  3. Le banche, dalla crisi al crollo
  4. Gli apprendisti stregoni
  5. Alan Greenspan, il pifferaio magico
  6. La fine di Bear Stearns
  7. Il «settembre nero» della finanza Usa: cade la Lehman, crolla il «muro» di Wall Street
  8. I cinque giorni terribili che cambiano la faccia del capitalismo
  9. Economia di guerra, e la Fed cambia pelle
  10. Processo alla «deregulation»
  11. Il nuovo «New Deal» di Obama
  12. L’America più povera mette in crisi la Ue
  13. Terra incognita