La civiltà della forchetta
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La civiltà della forchetta

Storie di cibi e di cucina

  1. 224 pagine
  2. Italian
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La civiltà della forchetta

Storie di cibi e di cucina

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Un viaggio ricco di sorprese all'interno di una civiltà alimentare che cambia, tra scoperte gastronomiche e nuovi modi di stare a tavola, dal Medioevo al Settecento.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858102053

La zuppa col pane, la polenta, la minestra e la pasta

Molta acqua, cavoli, rape e altre verdure, un soffritto di lardo (o olio) e cipolla, aglio e sale. Se c’è, si aggiunge un pezzo di carne salata di porco, oppure di vacca (la cecina della penisola iberica o il pastermé dei turchi); quando è stagione si può sostituire la carne salata con un osso di montone o di bue. Con il brodo che si ottiene dalla lunga cottura si bagna il pane raffermo. Si dice ancora: «bagnare una zuppa» e «inzuppare il pane». C’era la zuppa di trippa, quando si poteva, e quella di rape o di cavoli. Il pane nero e raffermo si sbriciola nella zuppa ed assume l’aspetto del cuscus.
Al tempo della macellazione del maiale si facevano bollire le parti che non potevano essere destinate alla salagione e se ne traeva, con costine e qualche pezzo di salsiccia fresca, rape e cavoli (le rape saranno poi sostituite dalle patate), una «zuppa» che, in Lombardia si chiama cassoela ed ha fatto scrivere a tanti gastronomi fiumi di parole e di melensi aggettivi (all’insegna del mito della cucina dei poveri). A Benevento si chiama bollita di maiale. Questo brodo di cavoli e maiale, con tante ossa, poteva essere accompagnato da molto pane, raffermo.
Raffermo, il pane, perché si cuoceva (o si portava a cuocere) una volta alla settimana. In montagna durava anche di più ed era confezionato con frumento e segale; induriva al punto che era necessario un apposito strumento per tagliarlo: una sorta di taglierina, in legno e ferro, simile a quella che usiamo per tagliare molti fogli di carta raccolti uno sull’altro.
Se nella cassoela vanno a finire costine di maiale, ossa ed altre parti dell’animale stesso, la carne di bue andrà in altre minestre come il pot-au-feu francese, l’olla podrida spagnola e la pignatta maritata dei napoletani. Con buona pace dei sostenitori delle invenzioni alimentari «autoctone», si tratta sempre della stessa zuppa... della stessa minestra.
La necessità di aggiungere grassi e carboidrati (cereali) alla zuppa è universale; nei paesi del Nord Europa si fece ricorso al pane, di segale o di orzo, oppure si confezionarono minestre di cereali o di legumi (orzo, grano, farro, lenticchie, ecc.), anch’esse con aggiunta di soffritto e, quand’era possibile, di un osso di prosciutto o di un poco di carne salata di porco. Dove il pane era più diffuso si confezionavano polpette di pane insaporito che poi venivano cotte nel brodo. Insomma, si tendeva a confezionare cibi che contenessero grassi e cereali. La cipolla, l’aglio, o i porri conferivano all’insieme sapore ed il necessario apporto di fibre.
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Nell’area mediterranea, dove la qualità e la quantità di differenti verdure permetteva più scelte tra qualità migliori, si ricorse a piatti unici leggermente diversi negli ingredienti ma sostanzialmente simili almeno nel principio alimentare.
Gli arabi d’Oriente usavano il grano duro, macinato in modo che oggi appare «grossolano», e ne traevano una pasta di semola, il cuscus, che «bagnavano» con una zuppa di erbe e radici tagliate a pezzi relativamente grossi, insaporita con pezzi di montone e olio. Si prepara ancora in speciali pentole di terracotta sovrapposte: nella parte inferiore si cuociono le verdure e i pezzi di montone, nella parte superiore, bucherellata, si fa cuocere al vapore la semola.
In Maghreb il cuscus prese il nome di kuskussù e venne confezionato lavorando la semola (bagnata) tra le due mani ottenendo così palline più grandi (circa 3 mm di diametro) e palline piccole (1 mm). Il kuskussù si diffuse nel Tirreno soprattutto grazie ai corallatori, uomini che andavano a pescare corallo e che risiedevano nell’isola di Tabarca, davanti a Tunisi, ma che provenivano da Genova (Sestri - Multedo - Pegli).
I corallatori di Tabarca potevano contare, tra le altre cose imbarcate come provviste e munizioni, anche su una cospicua scorta di kuskussù. Il percorso di questo tipo di pasta segue il peregrinare dei pescatori di corallo: da Tabarca verso la Sardegna (dove i tabarchini si insediarono nel 1720), verso la Spagna (Nuova Tabarca) e verso la patria d’origine, la Liguria. In Sardegna il kuskussù si chiama soccu e viene fatto producendo le pallottoline col palmo della mano premendo la farina bagnata sul fondo di una conca; i corallatori di Alassio e del Cervo, che pescavano alla Bocche di Bonifacio, lo portarono nel Ponente Ligure col nome di succu; a Calasetta e a Carloforte (insediamenti dei genovesi di Tabarca) si chiama cascà e si chiamava courcoussou a Tolone nel 1630. J.-L. Flandrin riporta: «[...] nel 1630 il parigino Jean-Jacques Bouchard scriveva dei provenzali: ‘[...] essi fanno anche minestre con alcune paste, come in Italia. Oreste ne mangiò a Tolone di una qualità fatta di piccoli grani come riso, e che si gonfia molto nella pentola; questa viene dal Levante e la chiamano courcoussou’». Sempre a base di semola di grano duro, il kuskussù venne prodotto, a Genova, tagliando in piccoli cilindri i grossi spaghetti lavorati al torchio. Divenne così, per ragioni di distribuzione commerciale, una pasta non più domestica ma industriale; deformato dal dialetto come nel caso di soccu, a Genova il kuskussù si chiama scuccusù. Questa pasta andò a finire nella minestra di verdura, come accadeva quando si chiamava kuskussu a Tabarca ed a Tunisi e come accade ancora nel Mediterraneo, in Sicilia ad esempio, dove vivevano i corallatori di Trapani, in Liguria, in Sardegna ed in Spagna.
Tutti questi «viaggi» del kuskussù avvennero tra la prima metà del Cinquecento e la fine del Settecento. Il minestrone, insaporito o no con una gamba di agnello, è parente del kuskussù, soprattutto quando in esso entra la pasta. La genesi di tutte queste cose è molto antica, ma per ciò che riguarda l’alimentazione non hanno importanza le notizie sulla «nascita» di un cibo, che sono curiosità da collezionista, ma ha importanza la sua diffusione. Vuol dire che se sarà antico sarà anche nobile, ma a noi interessa che sia buono, nutriente, disponibile e, se possibile, programmabile.
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In età moderna, a partire dai primi decenni del XVI secolo, si avverte una lieve tendenza al mutamento delle abitudini ed un lento volgere verso modi alimentari nuovi. La scoperta dell’America, insieme con l’apertura della via alle Indie da parte dei portoghesi, darà il suo contributo, come vedremo; ora però occorre completare questo capitolo con alcuni cenni sull’uso della pasta e sulla sua influenza sulle buone maniere a tavola. Cominciamo dall’uso della forchetta.
La diffusione dell’uso della forchetta sembra associata al diffondersi del consumo della pasta. Ne abbiamo una prima testimonianza nel libro di cucina compilato alla corte angioina di Napoli e, in versione latina, offerto a re Roberto d’Angiò. Ci serviamo della trascrizione di Marianne Moulon, Art Culinaire, lib. III: «De Lasanis: ad lasanas, accipe pastam fermentatam et fac tortellum ita tenuem sicut poteris. Deinde divide eum per partes quadratas ad quantitatem trium digitorum. Postea habeas aquam bullientem salsatam et pone ibi ad coquendum predictas lasanas. Et quando erunt fortiter decocte, accipe caseum grattatum.
Et si volueris, potes simul ponere bonas species polverizatas et pulveriza cum istis super cissorium. Postea fac desuper unum lectum de lasanis et iterum pulveriza; et desuper alium lectum et pulveriza: et sic fac usque cissorium vel scutella sit plena. Postea comede cum uno punctorio ligneo accipiendo (Mangia prendendo le lasagne con un punteruolo di legno)».
È la prima citazione di uno strumento destinato a «prendere» il cibo con funzione di forchetta, ed è anche la prima associazione dello strumento alla pasta. Le lasagne scottano e sono viscide, prenderle con le dita è scomodo e doloroso: il ricettario della corte di Napoli, destinato alla biblioteca di Roberto d’Angiò, consiglia perciò l’uso di un punteruolo, presto sostituito dalla forchetta negli ambienti borghesi, dove la pasta ottenne un successo straordinario.
Sulla diffusione della pasta, sulla sua introduzione come pasta secca, avvenuta nel Medioevo e poi, di nuovo, alla fine del XVII secolo, credo che sia opportuno leggere le belle pagine scritte in proposito da Massimo Montanari; ma con la pasta si diffonde anche la forchetta, strumento che rimarrà circoscritto all’area di consumo della pasta dal Medioevo almeno fino alla seconda metà del Cinquecento: negli inventari di castelli illustri, appena fuori dell’area culturale mediterranea, come il castello di Challant in Val D’Aosta, figurano cucchiai e coltelli d’oro e d’argento, ma nessuna forchetta (1522). Per F. Braudel la forchetta: «[...] data dal Cinquecento, e si diffonde a partire da Venezia, dall’Italia in generale e probabilmente dalla Spagna, in ogni caso con lentezza [...] l’uso non diventa generale prima del 1750 [...] Montaigne la ignora [...] Felix Platter la segnala presto a Basilea, verso il 1590 [...] Un viaggiatore inglese, nel 1608, la scopre in Italia». Per J.-L. Flandrin «[...] la si dice inventata a Bisanzio e fu introdotta in alcune tavole italiane nel XIV e XV secolo [...] dopo di che è passata nei paesi vicini durante il XVI e il XVII secolo [...]». Per una parte del clero, poi, l’uso della forchetta era una raffinatezza scandalosa; è notissimo l’episodio della principessa bizantina che, ospite in Francia, prendeva il cibo con la forchetta suscitando la riprovazione dei prelati. La pricipessa, nata nella porpora, non toccava il cibo con le mani per una questione di «buone maniere» bizantine; i borghesi liguri, toscani e veneti del XIV secolo, invece, adoperavano la forchetta semplicemente per non scottarsi.
Le lasagne erano apprezzatissime già nel XIII secolo da Salimbene de Adam, un frate minore francescano che visitò la Francia e gran parte dell’Italia ed ovunque andò seppe apprezzare la cucina e raccontare ciò che di meglio si potesse gustare. Si trattava, come per l’altra pasta, di un cibo relativamente costoso, quasi di un lusso, come ci suggerisce Sercambi nella LVIII delle sue Novelle, ambientata a Venezia, in cui la figlia di Soranzo si lamenta con il padre perché «[...] ’l marito non può sostenere il mangiare ogni dì pasta, come volea il padre [...]». Lo conferma il fatto che fosse uno Spinola il signore che nella novella CXLIII «[...] si dilettava di mangiare pasta innel confortare delle vivande di pasta [...]»; la protagonista della novella LX, caduta malata, «[...] per più di XX dì fue da capponi e buone lasagne e confezioni ristorata [...]». Cibo ambito, sognato dai meno abbienti che pensano al paese di Bengodi, dove da una montagna di parmigiano grattugiato vengono fatti scendere maccheroni e ravioli (Boccaccio, Decamerone, giornata VIII, novella 3). Un mercante fiorentino residente a Genova, Saminiato de’ Ricci, trascrive nel suo «manuale di mercatura» una ricetta per confezionare lasagne e ricorda, alla fine: «[...] e non beccasti mai meglio [...]».
Sarà Sacchetti a ricordarci l’uso della forchetta, sempre a proposito della pasta (Trecentonovelle, novella CXXIV): «[...] e venendo maccheroni boglientissimi [...] Noddo comincia a raguazzare i maccheroni, avviluppa e caccia giù [...] Giovanni avea ancora il primo boccone sulla forchetta [...]». La novella è ambientata alla metà del Trecento, il gesto dell’avviluppare (con la forchetta) doveva essere così familiare ai lettori che a Sacchetti bastò il verbo per suscitare l’immagine.
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Venne il tempo del cambiamento; un po’ ovunque, ma soprattutto nelle grandi città ingigantite dall’urbanesimo. Napoli, per esempio. Se a Parigi il pane assunse una funzione di grand...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Il grano e il pane
  3. La zuppa col pane, la polenta, la minestra e la pasta
  4. Le paste ripiene
  5. L’acqua e il sale
  6. Il formaggio
  7. La carne
  8. Il cortile
  9. Il pesce
  10. Salumi e insaccati
  11. Ortaggi e frutta
  12. Il grasso era buono
  13. Le spezie
  14. L’Atlantico, le Indie Orientali e quelle «Occidentali»
  15. Dalla penisola iberica alle lontane Americhe: la via dello zucchero
  16. Dall’Europa all’America
  17. Mangiare alla stessa mensa
  18. Mangiare e bere
  19. Pranzare con giudizio
  20. Bibliografia
  21. Appendice. A tavola con Colombo