Gli anni di Firenze
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Dalle lotte duecentesche tra guelfi e ghibellini alla sanguinosa congiura dei Pazzi nel Quattrocento, da Savonarola a Machiavelli, dagli studi rivoluzionari di Galileo alle riforme illuminate di Pietro Leopoldo, da Firenze capitale alla nascita delle avanguardie, fino alla straordinaria vicenda di don Milani.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788858108208

1478. La congiura dei Pazzi

di Franco Cardini

Primavera fiorentina

Che le cose stessero irreversibilmente cambiando, nella repubblica di Firenze tanto gelosa e orgogliosa della sua libertas – che nella pratica significava da almeno un’ottantina d’anni, no­nostante le molte e feroci lotte di fazioni, il controllo oligarchico delle istituzioni e degli strumenti elettorali per accedere ad esse –, lo si era ormai capito da oltre un quarto di secolo: da quando, nel 1434, Cosimo di Giovanni de’ Medici era tornato dall’esilio, aveva cacciato a sua volta dalla città i capi delle ­famiglie del partito avversario e aveva inaugurato quella ch’è ­stata definita la sua «criptosignoria», come principe di fatto che evitava però accuratamente qualunque segno esteriore del principato.
Ma in quella primavera del 1459 ci si accorse che il clima era cambiato. Cosimo aveva già 70 anni, età ragguardevole a quel tempo; suo figlio Piero, il «Gottoso», appariva debole nel carattere e nella salute. Il vecchio padre-padrone della città pensava a una successione solida: e non gli bastava, per i suoi discendenti e per la sua schiatta, il potere di fatto di cui egli si era accontentato.
Tra la fine d’aprile e i primi di maggio del 1459 papa Pio II passò per Firenze, provenendo da Roma e diretto a Mantova dov’era stato da lui indetto un congresso delle potenze dell’Europa cristiana per lanciare finalmente una definitiva crociata, che avrebbe riconquistato Costantinopoli – dagli ottomani occupata nel 1453 – e proseguito poi fino alla liberazione di Gerusalemme. I fiorentini non avevano alcuna intenzione di prender parte all’impresa: ma è naturale che non potessero dichiararlo apertamente. Intanto organizzarono per il pontefice una splendida accoglienza, con tornei, balli, cacce, banchetti. Dopo la «giostra» (scontro di coppie di cavalieri che giocavano a disarcionarsi), disputata in piazza Santa Croce il 29 aprile, il ballo in Mercato Nuovo e la «caccia» in piazza dei Signori, si tenne un banchetto nel nuovo palazzo dei Medici, quello che Cosimo si era fatto costruire dall’architetto Michelozzo in via Larga, non lungi dalla venerabile basilica di San Lorenzo. Era la prima volta che il palazzo di un privato cittadino ospitava una cappella, privilegio fino ad allora riservato ai principi e ai capi di governo: al suo interno, il pittore Benozzo Gozzoli avrebbe affrescato più tardi un tipico tema regale, la cavalcata dei magi.
Alla fine del banchetto, al quale beninteso non era presente il papa ma partecipavano il conte di Pavia – cioè Galeazzo Maria, figlio di Francesco Sforza duca di Milano e grande amico di Cosimo – e i signori romagnoli, si tenne un’armeggeria nella sottostante strada opportunamente cosparsa di sabbia e illuminata di fiaccole.
Il «messere» dell’armeggeria, vale a dire il signore, il mecenate, l’organizzatore e il capo degli armeggiatori – che erano in numero di dodici serviti ciascuno da un «ragazzo» e da venticinque famigli in livrea, cioè vestiti dei colori che ripetevano quelli della «divisa» del rispettivo signore – fu il giovanissimo nipote di Cosimo, Lorenzo di Piero. Il giovinetto, allora appena decenne, sfoggiava per l’occasione un proprio stendardo bianco, verde e rosso (si tratta di colori molto comuni nelle gare cavalleresche, dotati di un contenuto intenso simbolico, tanto teologico quanto morale e cavalleresco) recante, ricamata, l’impresa di un falcone volante d’oro che veniva catturato da una rete gettatagli sopra e che spargeva attorno le penne.
Gli armeggiatori, splendidi nella festa notturna illuminata da centocinquanta «doppieri», grandi candelabri, erano i rampolli di alcune tra le più insigni famiglie dell’oligarchia fiorentina del tempo: due della Luna, due Pazzi, un Portinari, un Boni, un Bonsi, un figlio di Francesco Ventura, uno di Dietisalvi Neroni. La festa era completata da un «trionfo di notte», da un carro allegorico decorato e probabilmente provvisto di fuochi d’artificio come in quei casi era consueto1.
Sotto le finestre della nuova casa Medici e sotto gli occhi di alcuni nobili alleati della repubblica di Firenze, si rese allora omaggio al nipote di Cosimo che già appariva candidato a succedere al nonno: più di quanto non lo fosse suo padre, quel Piero detto il «Gottoso», malfermo tanto di carattere quanto di salute. Quel che si festeggiò, allora, fu anche la nuova dimora della grande famiglia, il palazzo michelozziano da poco eretto e non ancor terminato2.
Quello fu il segnale che la stirpe mercantesca e bancaria nutriva ormai, nei confronti di Firenze, non un sogno, ma un vero progetto di principato. A molti membri delle famiglie che le erano fino ad allora state alleate, ciò non poteva piacere. Già l’anno prima, del resto, c’era stato un tentativo di colpo di Stato cui si era posto, non senza fatica, rimedio.

L’«età laurenziana»

Nel 1464 venne a mancare Cosimo, cui succedette nella pratica – poiché la signoria medicea in Firenze non aveva ancora alcuna base giuridico-costituzionale – suo figlio Piero. I veneziani cercarono allora di appoggiare la fazione oligarchica in maniera che essa riuscisse a rovesciare il potere mediceo e a ricondurre Firenze all’alleanza con Venezia, abbandonando quella con la Milano sforzesca.
Cosimo aveva lasciato al figlio Piero, quale testamento spirituale, le parole da lui pronunciate due anni prima: «el non se po’ governare un populo como se governa un particulare signore», con cui intendeva significare che i Medici dovevano ancora tener conto dell’opinione pubblica e rispettare la legalità repubblicana, per quanto ormai largamente formale. Piero, da lungo tempo malato di gotta e amante più degli studi che della politica, all’inizio commise l’errore di esigere la riscossione dei crediti del padre e fu anche indebolito dalla morte nel 1466 di Francesco Sforza, che si era mantenuto fedele amico di Cosimo.
In quello stesso anno, tuttavia, egli riuscì a sfuggire a una congiura tesa a togliergli il potere e forse addirittura a ucciderlo, ordita da alcuni patrizi con l’appoggio delle truppe del marchese di Ferrara, Borso d’Este. In quell’occasione, il suo adolescente primogenito Lorenzo (1449-1492) aveva dato prova di energia e di coraggio: ed era stato eletto – incostituzionalmente – in una «balìa», un governo straordinario che si era formato per quell’occasione. Perdonando tuttavia i congiurati, tra i quali v’era Luca Pitti, vecchio fedele collaboratore del padre, Piero dava prova di magnanimità e di saggezza, riuscendo così a raf­forzare il suo potere: nell’episodio scomparvero comunque alcuni illustri oppositori di Piero ch’erano stati tra i più prestigiosi alleati di suo padre, come Niccolò Soderini, Agnolo ­Acciaioli, Dietisalvi Neroni. Più tardi, nel 1467, a Molinella, i fiorentini sconfiggevano anche i mercenari di Bartolomeo Colleoni, assoldati da alcuni fuorusciti, e concludevano una lega insieme con Milano e Napoli contro i veneziani, sospettati di aver armato la mano del Colleoni. Firenze acquistava inoltre da Genova, per 25.000 fiorini, Sarzana, Sarzanello e i castelli della Lunigiana.
Quando, il 2 dicembre 1469, si conclusero i giorni terreni di Piero de’ Medici, il patriziato fiorentino si trovò lacerato: alcuni propendevano per mantenere la situazione caratterizzata dal prepotere della famiglia che abitava il palazzo di via Larga, altri per il ritorno a un regime oligarchico più allargato. A risolvere la situazione fu Tommaso Soderini, zio acquisito per parte materna di Lorenzo – aveva sposato nel 1442 Dianora Tornabuoni, sorella di Lucrezia che sarebbe l’anno successivo diventata moglie di Piero –, il quale aveva riunito un buon gruppo di esponenti delle principali famiglie fiorentine nella chiesa di Sant’Antonio e li aveva persuasi a perseverare sulla via già tracciata. Il giorno dopo, alcuni dei convenuti a quella riunione si recarono alla dimora medicea e chiesero al figlio maggiore di Piero di assumersi la cura della politica cittadina, investendolo in tal modo della preminenza già goduta nel «reggimento» dal nonno e dal padre; nel suo ruolo egli si sarebbe associato il fratello minore Giuliano, di quattro anni più giovane di lui.
Lorenzo, appena ventenne, sposo di fresco della principessa romana Clarice Orsini, era stato il primo della sua famiglia a maritarsi fuori dalla cerchia degli eminenti casati cittadini, secondo un progetto già elaborato dal nonno Cosimo e che chiaramente intendeva far della famiglia, nel giro di un paio di generazioni, una grande dinastia principesca europea.
Egli non doveva deludere le aspettative dei suoi sostenitori. Educato raffinatamente dalla madre, la colta Lucrezia Tornabuoni, di mente acuta e maniere gentili, non era bello: aveva un volto irregolare e un timbro di voce sgradevolmente nasale ma sapeva poetare, cavalcare e non era insomma affatto privo di fascino. Soprattutto, possedeva appieno le doti per affermarsi nell’età in cui viveva: spiccate qualità diplomatiche, un eccellente intuito politico, un carattere forte e deciso, una certa flessibilità che riusciva a comunicare in chi lo avvicinava un’impressione di semplicità e di schiettezza ma che, quand’era necessario, si accompagnava a una durezza spietata.
Lorenzo sarebbe passato alla storia con il titolo di «Magnifico», che i fiorentini si abituarono presto ad attribuirgli e che allora si usava per qualsiasi signore o politico preminente, o anche per chiunque fornisse prove speciali di generosità (ad esempio finanziando associazioni o feste), ma che divenne per lui una specie di epiteto ordinario per la fama di liberalità di cui seppe circondarsi: sebbene, in realtà, sia stato un mecenate meno generoso del padre o del nonno.
Il Magnifico fu tuttavia un buon esponente della cultura umanistica, conoscitore del latino e del greco, poeta e scrittore; non era invece troppo portato per gli affari, che infatti trascurò, con ciò determinando, o comunque non riuscendo a evitare, una grave crisi nella banca medicea. Egli fu, soprattutto, un abilissimo politico: riuscì a mantenersi al potere a Firenze in situazioni spesso complesse e difficili, mostrando di conoscere come nessuno l’indole e le propensioni dei suoi concittadini, l’aristocrazia dei quali riuscì a controllare costantemente; seppe anche conquistare gli strati sociali subalterni con le sue feste e i suoi tornei; e riuscì a conservare, con i suoi interventi e i suoi suggerimenti, l’equilibrio fra gli Stati italiani. Lorenzo è stato accusato da alcuni storici di aver impedito che la penisola fosse unificata da qualcuna delle potenze più intraprendenti: ma si tratta di accuse deterministiche e tutto sommato anacronistiche. L’unità della penisola non era affatto un obiettivo politico del tempo; e quanto a Lorenzo, egli perseguiva, com’era ovvio, il suo interesse e quello della sua famiglia. D’altronde, egli identificava l’uno e l’altro con l’interesse stesso della città, di cui riuscì a preservare comunque con successo l’indipendenza. Il che non è poco, considerando che il punto debole della città era la sua fragilità sotto il profilo militare, che la obbligava a forti spese per l’ingaggio di mercenari e ad appoggiarsi a una potenza esterna che desse garanzie di sicurezza. Casa Medici aveva scelto per questo, fin dall’ascesa al potere di Francesco Sforza, un alleato sicuro nel Ducato di Milano. I duchi – Francesco prima, suo figlio Galeazzo Maria poi – erano con la loro forza militare una sorta di «protettori» di Firenze, ma al tempo stesso erano debitori del banco Medici per una somma che nel 1467 ascendeva a 179.000 ducati.
I primi tempi del governo di Lorenzo («occulto» sì, come quello del padre e del nonno: ma sempre meno tale) non furono tuttavia semplici. Subito dopo la morte del padre egli era talmente incerto sulla situazione, che aveva immediatamente scritto al nuovo duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza – il suo ospite durante l’armeggeria di dieci anni prima –, raccomandandosi all’appoggio delle sue truppe. Appena insediato, dovette affrontare un complotto, con epicentro nella vicina Prato, che condusse nell’aprile del 1470 all’impiccagione di una quindicina di persone, ma ch’era in realtà solo parte di uno ben più ampio, ordito da esuli fiorentini stabiliti in Roma, Siena e Ferrara. Tuttavia egli riuscì, fra 1470 e 1474, sapientemente alternando corruzione, ricatto e violenza, a «dirigere» l’elezione dei priori ch’erano la suprema magistratura della repubblica, a manipolare l’«imborsamento» dei nomi dei cittadini da sorteggiare per i pubblici uffici, a riempire di suoi partigiani il principale organo legislativo, il Consiglio dei Cento, a organizzare tra ’71 e ’74 due successive «balìe».

Come cresce la pianticella del rancore

Gli storici hanno denominato «età dell’equilibrio» il quarantennio tra 1454 e 1494: cioè tra la pace di Lodi, stipulata dalle potenze italiche sotto l’incubo della caduta di Costantinopoli in mano agli ottomani e con l’incombente pericolo che il re di Francia – liberatosi dai postumi della guerra dei Cent’Anni – volesse far valere i suoi diritti ereditari sul Ducato milanese e sul Regno di Napoli, e l’effettiva calata di Carlo VIII di Francia nella penisola. In realtà, quel lungo periodo corrispose a una fase ­piuttosto instabile della situazione politica italica, caratterizzato dall’alternarsi di momenti anche lunghi di tranquillità e di altri nei quali prevalevano più o meno forti dinamiche di mutamento. Le congiure erano frequenti, i rapporti diplomatici instabili. Firenze si sentiva minacciata dal re di Napoli, che ostentava evidenti mire espansionistiche nei confronti della Toscana meridionale e appoggiava la repubblica di Siena. Ma era incerta tra l’alleanza milanese, su cui contavano i Medici, e quella veneziana, che invece sarebbe piaciuta ad alcuni dei loro principali e più autorevoli collaboratori: quali Tommaso Soderini, il cui prestigio presso Lorenzo era molto forte e che parteggiava anche per una ­politica più flessibile nei confronti del monarca napoletano-aragonese.
Ai primi degli anni Settanta, una nuova spinta destabiliz­zatri­ce a questa già delicata situazione fu impressa da papa Sisto IV (1471-1484), il francescano genovese Francesco della Rovere, che intendeva servirsi del soglio pontificio per portare avanti una politica «nepotista», tesa a sistemare – con cardinalati, vescovati e signorie di città e di terre – i suoi congiunti.
Sulle prime i rapporti tra il nuovo pontefice, la repubblica di Firenze e la famiglia che la egemonizzava erano sembrati molto buoni. Lorenzo aveva personalmente guidato l’ambasceria diretta a Roma per l’incoronazione del nuovo pontefice, che aveva concesso al banco Medici il monopolio gestionale dello sfruttamento delle miniere d’allume della Tolfa, appartenenti alla Chiesa, e gli aveva confermato l’incarico di amministrare le finanze papali. Nel 1472, Sisto IV aveva appoggiato Firenze nella sua sottomissione della città di Volterra. Quando l’arcivescovo di Firenze, Giovanni Neroni, era venuto a mancare, gli era succeduto, in seguito a un accordo tra Lorenzo e un nipote di questi, il cardinale Pietro Riario. Ma qualcosa di nuovo si stava profilando all’orizzonte.
Il pontefice aveva concesso nel 1473 al prediletto nipote Girolamo Riario la signoria di una città dello Stato della Chiesa, Imola, riscattata al prezzo di 40.000 fiorini dalla signoria di Galeazzo Maria Sforza duca di Milano. Nello stesso anno, Girolamo aveva sposato Caterina, figlia primogenita dello Sforza: acquisto di Imola e ricche nozze costituivano evidentemente un «pacchetto» politico-diplomatico attraverso il quale Sisto IV contava sia di rafforzare lo Stato della Chiesa assicurandosi l’alleanza dello Sforza, sia d’impiantare solidamente il nipote Riario nel «giro» delle potenze italiche. Il piano papale a proposito della Romagna occidentale era preciso: alcuni anni dopo, difatti, suo nipote Girolamo si sarebbe insignorito anche di Forlì.
Può darsi che proprio queste prospettive strategico-territoriali siano state all’origine dell’inimicizia tra il papa e Lorenzo in quanto gestore della politica fiorentina. La città del giglio ­infatti aveva esteso ormai da tempo la sua egemonia sull’area nordoccidentale della Romagna, a ridosso dell’Appennino, capoluogo della quale era Faenza tenuta dalla dinastia dei Manfredi, vassalli della Chiesa ma tributari dei Medici. Faenza si trova lungo la via Emilia, quasi esattamente a metà strada tra Imola e Forlì. Quest’intrusione fiorentina nelle terre della Chiesa disturbava il pontefice, ma anche Firenze era dal canto suo preoccupata per la sua politica romagnola. Difatti quando il papa si era rivolto al banco Medici, la casa creditizia di fiducia della Santa Sede, per ottenere la somma necessaria a regolare la questione imolese, Lorenzo non solo gliel’aveva negata, ma aveva fatto di tutto affinché nemmeno anche altre case bancarie gliela concedessero.
Ma fu un’altra banca fiorentina, quella dei Pazzi, ad accordare al pontefice, nel dicembre 1473, la somma richiesta: e pare che dalla medesima fonte pervenisse a Sisto IV anche la «soffiata» relativa alle mosse che Lorenzo aveva effettuato per impedirgli di disporne. Intermediario della consegna del danaro dai Pazzi al papa era stato un congiunto di quella famiglia, Francesco Salviati. I Pazzi erano stati fedeli alleati del vecchio patriarca mediceo, Cosimo, e le due famiglie erano anche imparentate grazie ai vincoli della consueta politica d’alleanze matrimoniali: ma ormai quel rapporto si era logorato, i tempi cambiavano e i dissapori si erano andati accumulando.
Nel 1474 era venuto a mancare l’arcivesc...

Indice dei contenuti

  1. Nota dell’editore
  2. 1289. La battaglia di Campaldino
  3. 1478. La congiura dei Pazzi
  4. 1498. Savonarola dal falò delle vanità al rogo
  5. 1513. Machiavelli, il carcere, «Il Principe»
  6. 1632. Galileo, la Terra, la Luna
  7. 1786. La riforma «criminale» di Pietro Leopoldo
  8. 1864. L’Italia a Firenze
  9. 1908. Firenze capitale delle avanguardie
  10. 1958. Don Milani nella Firenze di La Pira
  11. Gli autori