Un paese a civiltà limitata
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Un paese a civiltà limitata

Intervista su etica, politica ed economia

  1. 182 pagine
  2. Italian
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Un paese a civiltà limitata

Intervista su etica, politica ed economia

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«In modo agile e colloquiale Sylos racconta il suo percorso formativo, espone le sue convinzioni sulla società italiana, spiega le sue convincenti idee sul funzionamento del sistema economico e sul metodo di indagine degli economisti, narra la sua partecipazione al dibattito e alla vita politica del Paese dalla seconda metà degli anni Cinquanta fino a oggi. Con spirito combattivo, coraggio e linearità rari. Specialmente nel nostro Paese». Luca Paolazzi, Il Sole 24 oreUna testimonianza biografica che vale come un atto di accusa. Alla sbarra sono i ritardi della cultura italiana e l'orgoglio degli economisti. Ma anche un 'breviario civile' che consente di comprendere le ragioni della crisi italiana e che indica nell'etica la via d'uscita per un paese ancora a 'civiltà limitata'.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858102305
Argomento
Business
Categoria
Finanza

1. Quel bastimento per Harvard

D. Che genere di ragazzo era Paolo Sylos Labini, nato il 30 ottobre 1920: malinconico, sportivo, curioso?
R. Facevo i cinquemila metri. Forse per me questo fu l’unico merito del fascismo: per iscriversi all’Università bisognava avere il brevetto sportivo e siccome, quando toccò a me, le specialità erano tutte esaurite, ripiegai sulla corsa campestre. Ci convocarono all’Acquacetosa, che allora era un campo erboso cosparso di paludi alla periferia di Roma, partii senza illusioni ma arrivai inaspettatamente secondo, tra un centinaio di concorrenti. La squadra universitaria mi ingaggiò e fui mandato a gareggiare a Latina, che allora si chiamava Littoria: arrivai terzo, ne parlò la radio e mi chiamarono il «terzo di Littoria»; in occasione di un’altra gara un giornale sportivo si preoccupò della mia forma e titolò Sylos è sembrato un po’ stanco. Tuttavia non avevo un futuro, con i miei 80 battiti al minuto: troppi, quando quel tipo di atleti ne hanno una cinquantina. Comunque, allo stadio Guardabassi conobbi persone notevoli, come Ercole Bonacina, poi diventato socialista attivo, e Claudio Pavone, storico della Resistenza, con il quale da allora siamo amici. Venivano a fare il tifo, quando gareggiavo, parecchi compagni dell’Università; c’erano pure le ragazze: ne ricordo una, alla quale il padre, per ignoranza, aveva dato un nome maschile, Ione, ma era deliziosa.
D. Esattamente l’opposto del luogo comune dello studioso poco incline all’attività fisica. L’esperienza le servì?
R. Sì, mi insegnò ad avere fisicamente fiducia in me stesso, la tenacia della corsa di fondo.
D. A scuola come andava? Era, come si dice, un secchione?
R. Non ero il primo della classe, per diversi anni sono stato il secondo o il terzo. Alle elementari per un anno andai dalle suore tedesche, le medie inferiori le feci dai padri maristi, delle brave persone, ciascuno con un proprio soprannome, «cicciadoro», «cornacchia» eccetera. Il liceo lo frequentai al Giulio Cesare, dove ricordo il professore di greco, Marani, era molto bravo ed era antifascista.
D. E in matematica?
R. La matematica mi è sempre piaciuta, anche se oggi in qualche modo mi sono fatto la fama di essere un suo avversario: al liceo mi divertivo a tal punto che avevo un gruppetto di aficionados cui facevo i compiti e che mi compensavano con gelati e sigarette.
D. La sua famiglia?
R. Mio padre era stato, negli anni precedenti la prima guerra mondiale, il segretario della prefettura di Bari, un liberale genuino che poi divenne un antifascista; per questo dovette lasciare il lavoro e mettersi in pensione. Mi diceva sempre: bisogna scappare dall’Italia e andare agli antipodi, in Nuova Zelanda, perché in questo paese c’è molta corruzione, non c’è un palmo netto, una mano pulita – ripeteva già allora – e non c’è libertà. Lo consideravo un po’ fissato e uno scocciatore, ma devo riconoscere che io sbagliavo e lui aveva ragione, e oggi mi sento più pessimista di lui.
D. Giustino Fortunato, l’intellettuale liberale che rappresenta un pezzo della storia del meridionalismo, era suo prozio: la influenzò?
R. Giustino Fortunato era fratello di mia nonna. Con Benedetto Croce si vedeva quasi tutte le sere. Un mio zio pittore, napoletano, Giuseppe Viggiani, che lo frequentava, me ne parlava qualche volta. Il segno è rimasto.
D. Scusi, ma Sylos Labini che cognome è?
R. Metà spagnolo e metà sorrentino; le radici sono in Puglia.
D. Avere una famiglia dichiaratamente antifascista sarà stato di sicuro scomodo.
R. Condizionò una mia scelta fondamentale. Al momento di andare all’Università avevo intenzione di iscrivermi a ingegneria, perché ero attratto dalla tecnologia e dalle invenzioni. Mio padre voleva lasciarmi libero di scegliere, ma all’atto pratico dovetti optare per giurisprudenza, facoltà in cui non era obbligatoria la frequenza e che mi permetteva di continuare a lavorare; inoltre, il corso di studi era più breve e costava meno tasse. Mio padre che, come le ho accennato, per ragioni politiche, non di età, era ormai pensionato e aveva mezzi limitati, mi disse: «Mi spiace, ho fatto i conti e non puoi iscriverti a ingegneria». Fui costretto a riconoscere che i suoi argomenti erano validi. Tuttavia non ho rimpianti, soprattutto perché la facoltà di giurisprudenza mi consentì di studiare materie come storia del diritto romano o storia del diritto italiano.
D. Per voi, ragazzi del 1920, arrivò il momento della verità proprio mentre stavate all’Università: la chiamata alle armi. Ma forse fu anche il primo vero confronto, a vent’anni, con una delle tragiche anomalie italiane: Benito Mussolini.
R. E ce ne rendemmo conto subito. Due anni prima della dichiarazione di guerra, ero veramente poco più che un ragazzo, andai in via dell’Impero a Roma, per vedere una sfilata militare: non ho mai avuto familiarità con le armi ma mi accorsi che quei carri armati erano piuttosto risibili in una guerra moderna. Mussolini, naturalmente, sapeva quello che io, ragazzo, avevo capito e non fu affatto ingannato dalle gerarchie militari come di tanto in tanto qualcuno sostiene. Entrò in guerra convinto che la Germania stesse per vincere e che si potesse partecipare alla divisione delle spoglie. Lo sciagurato non si rendeva conto che, se Hitler avesse vinto, come molti allora ritenevano probabile, a noi avrebbe riservato un ruolo di servi.
D. Purtroppo anche lei, come tanti altri italiani, dovette indossare la regia divisa.
R. Eravamo studenti all’Università di Roma, cominciarono ad arrivare le voci sulla campagna di Grecia e sugli scarponi militari, ultrascadenti, fabbricati da un cinico speculatore, naturalmente un gerarca fascista. Ogni iniziale entusiasmo – e da principio qualche entusiasmo ci fu – scomparve.
Quando Mussolini si rese conto che la maggior parte degli studenti universitari era diventata fredda rispetto al regime, se non ostile, nel gennaio 1941 ordinò al segretario del Partito fascista di chiedergli, a nome degli studenti, di essere chiamati subito alle armi rinunciando al privilegio di rinviare il servizio militare a dopo la laurea. Diventammo così tutti «volontari dei corsi obbligatori». Tuttavia, per le reclute e i corsi degli ufficiali mancava quasi tutto, e la chiamata effettiva giunse nel luglio 1942, quando fui inviato a Civita Castellana. I fucili, come scoprii allora, e come oggi tutti sanno, erano del 1891, e di altre armi ce n’erano poche.
D. Nel luglio 1942, comunque, si laureò con una tesi su «Gli effetti economici delle invenzioni sull’organizzazione industriale». La facoltà di giurisprudenza non era riuscita a farle passare la passione per le tecnologie.
R. Come le dicevo, giurisprudenza fu un po’ una scelta obbligata. Così cominciai a studiare economia perché vi trovavo le affinità maggiori con la fisica e la matematica, le materie che prediligevo. Devo dire che gli esami giuridici per me erano delle vere e proprie condanne, ma studiavo con impegno per ottenere una media alta e l’esenzione dalle tasse. Preferivo l’economia e la scienza delle finanze poiché erano le uniche materie non giuridiche. Professore di economia era Guglielmo Masci, una persona affascinante, figlio di un filosofo; morì proprio quando gli avevo proposto quella tesi, un po’ un surrogato delle mie preferenze scientifiche. Così mi ritrovai a lavorare con Giuseppe Ugo Papi, che era fascista, sia pure per opportunismo.
D. Le capitò un professore fascista. Cose che potevano accadere a quei tempi.
R. Sì, perché la maggior parte degli economisti allora in cattedra si era formata durante il Regime. Con Papi, comunque, non sono mai stato in sintonia e il rapporto cominciò male: fu freddo sul titolo della mia tesi, che non si inseriva nella schiera di elaborazioni che allora si usava fare sul corporativismo, sugli «effetti economici dell’autarchia». Capii che non amava Joseph Schumpeter, l’unico economista del tempo che si era occupato a fondo delle invenzioni e delle innovazioni e dal quale invece io ero attratto. Alla fine, comunque, ottenni il 110 e lode.
D. L’economia, dunque, non fu una scelta.
R. No, ma non sono pentito.
D. Con l’8 settembre 1943 molti vizi italiani vennero inesorabilmente allo scoperto: caos, pasticci, vigliaccheria. Ne ha sempre parlato poco, ma a quel punto il giovane economista diventò un partigiano?
R. Le cose andarono così. Fui nominato ufficiale nell’estate 1943 e destinato a Firenze. Detti subito prova delle mie intemperanze: per tradizione parecchi giovani ufficiali facevano la spacconata di presentarsi al comando con un giorno di ritardo. Lo feci anch’io. Dovevo essere lì il 5 settembre ma mi presentai il 6. Il colonnello ci convocò e minacciò di inviarci al fronte per punizione. Non seppi tenere la bocca chiusa e risposi sarcastico: «Ma non è un onore?».
Due giorni dopo, il fatidico 8 settembre, andammo dallo stesso colonnello a chiedere ordini, ma lui era un vigliacco e non ce ne diede: il re, come è ben noto, era scappato ordinando al capo del governo, Badoglio, di fare un proclama deliberatamente ambiguo. Dovevamo decidere per conto nostro: molti si misero in borghese. Io, da bastian contrario, continuai a indossare la divisa, ma quando un caporale tedesco, il 10 settembre, mi salutò per strada capii che era ora di lasciare tutto. Tornai a Roma e mi misi alla ricerca dei partigiani. Incappai in un gruppo formato da ufficiali dei Carabinieri che avevano una caserma in via XXI Aprile, si chiamava «Gruppo Bande Armate Monte Sacro Sant’Agnese». Mi fecero un lungo interrogatorio prima di accettarmi tra loro, scoprii in seguito che erano monarchici; persone molto serie, tant’è che, quando alcuni di loro furono catturati, non fecero nessun nome, neanche il mio. La pistola che mi ero procurato, e che sarei stato disposto a usare, non mi servì.
D. Finita la guerra e ottenuta la laurea fu il momento del primo lavoro. Aveva trovato posto alla biblioteca del ministero dell’Agricoltura, un luogo non molto noto ma ricco di fascino. Che aria vi si respirava?
R. In realtà lavoravo lì, come avventizio, fin da prima della guerra, con uno stipendio irrisorio. Ma era un posto interessante e curioso: mi capitò di incontrare Piero Sraffa, e la biblioteca economica era assai fornita. La segretaria, Maria Augusta Conflenti, mi sembrò un tipo singolare: le dico solo che, per combattere i topi, aveva preso un gatto che aveva battezzato col nome di un economista. «Millinoooo», si sentiva chiamare e si riferiva al felino che portava il nome di John Stuart Mill. Era tradizione che il direttore di quella biblioteca fosse un docente universitario: lo furono Masci, Breglia e anch’io finché non vinsi il concorso a cattedra.
D. Come le venne l’idea di andare a studiare negli Stati Uniti. Oggi per un giovane laureato in economia un master negli Usa sembra quasi una strada ordinaria. Ma allora? Fu la curiosità, la voglia di migliorarsi?
R. Non fui il solo. Per molti la causa principale fu il senso diffuso di inadeguatezza e di provincialismo che si respirava allora nella cultura economica italiana uscita dal fascismo. Con grande umiltà molti studiosi italiani andarono all’estero, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, per studiare e anche per vedere l’Italia un po’ dal di fuori.
D. E per lei? La scelta fu ambiziosa: studiare con Joseph Schumpeter, uno dei pilastri nella storia del pensiero economico. Ha già accennato al suo primo incontro con testi dell’economista tedesco sullo sviluppo economico e sull’innovazione tecnologica. Ma perché volle andare a studiare con lui?
R. Fu una mia scelta: nel preparare la bibliografia della mia tesi mi accorsi che solo lui aveva affrontato in modo sistematico la questione delle innovazioni e volevo assolutamente conoscerlo. Feci domanda per una borsa di studio all’Institute of International Education di New York, ma arrivato negli Stati Uniti, nel settembre 1948, scoprii che la direttrice, una vera virago, mi aveva destinato a Chicago. Ci rimasi solo tre mesi, e conobbi Franco Modigliani, ma poi riuscii ad andare ad Harvard dove c’era Schumpeter.
D. Viene da pensare ad Ellis Island e alla Statua della Libertà. Sbarcato a New York, che impressione ne trasse?
R. Andai con il bastimento, a quei tempi l’aereo non era usuale come o...

Indice dei contenuti

  1. Avvertenza
  2. 1. Quel bastimento per Harvard
  3. 2. L’altra Italia del «mondo»
  4. 3. La mia economia
  5. 4. L’orgoglio degli economisti
  6. 5. Quando tentammo di programmare
  7. 6. Gli anni Settanta: contro la deriva ideologica
  8. 7. Diario di una crisi
  9. 8. L’anomalia italiana
  10. 9. Il fenomeno Berlusconi