Lo scriba
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Lo scriba

  1. 20 pagine
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«C'è qui [uno] come Hardedef, c'è un altro come Imhotep? Non è nato nel nostro tempo [uno] come Neferti, Khety, il loro primo. Ti farò conoscere il nome di Ptahemdjehuti, Khakheperraseneb. C'è un altro come Ptahhotep e Kaires?» (Papiro Chester Beatty IV vs 3, 5). Così esordisce il passo celebre che contiene un catalogo di scrittori. Di classici potremmo dire, perché tutti vissuti parecchi secoli prima della composizione che li menziona (XIII secolo a.C.?), e che si esprimevano nella lingua antica, alquanto diversa da quella (il neoegiziano) che era oramai subentrata nell'uso. L'ignoto autore della citazione se ne serve per ribadire il concetto che la scrittura è più duratura della pietra con cui furono costruite le piramidi; anzi chi la sa adoperare è più sicuro delle mummie che furono rinchiuse in sepolcri sontuosi.Acquista l'ebook e continua a leggere!

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858100226
Argomento
History

Lo scriba

«C’è qui [uno] come Hardedef, c’è un altro come Imhotep? Non è nato nel nostro tempo [uno] come Neferti, Khety, il loro primo. Ti farò conoscere il nome di Ptahemdjehuti, Khakheperraseneb. C’è un altro come Ptahhotep e Kaires?» (Papiro Chester Beatty IV vs 3,5).
Così esordisce il passo celebre che contiene un catalogo di scrittori. Di classici potremmo dire, perché tutti vissuti parecchi secoli prima della composizione che li menziona (XIII secolo a.C.?), e che si esprimevano nella lingua antica, alquanto diversa da quella (il neoegiziano) che era oramai subentrata nell’uso. L’ignoto autore della citazione se ne serve per ribadire il concetto che la scrittura è più duratura della pietra con cui furono costruite le piramidi; anzi chi la sa adoperare è più sicuro delle mummie che furono rinchiuse in sepolcri sontuosi.
Se questa era l’opinione diffusa nell’ultimo quarto del II millennio a.C., quando la raffinata cultura dei palazzi si trovava all’apogeo, vi sono molti indizi che le cose non fossero sempre state così. Anzitutto, chi furono gli illustri autori citati, alla maggior parte dei quali sono attribuite opere effettivamente pervenute? Hardedef era un figlio di Cheope che non giunse mai a regnare. Un insegnamento posto in bocca a lui era però assai letto durante l’età ramesside e dopo, sì che ne sono rimasti frammenti i quali permettono di farsene un’idea. Nulla è invece conservato di Imhotep, il visir del faraone sepolto nella (prima) piramide a gradoni di Saqqara, Netjerikhet-Djoser, della III dinastia. La fama di Imhotep quale architetto, letterato e medico (tanto da essere equiparato ad Asclepio dai Greci) fu così salda fino (e soprattutto) alla fine del periodo faraonico, che una venerazione della sua persona divenne popolare in Egitto, quasi prefigurazione di un santo cristiano.
Del resto nella profezia sulla XII dinastia attribuita a Neferti, un mago veggente di tempi remoti, si riferisce allo stesso faraone Snefru, padre di Cheope e capostipite della IV dinastia, l’anacronistica capacità di scrivere e di registrare le parole di Neferti con le proprie mani. A Khety, vissuto al principio della XII dinastia, è invece assegnato un celebre catalogo dei mestieri (la cosiddetta Satira dei mestieri, su cui avremo occasione di tornare), che ha lo scopo precipuo di mettere in ridicolo qualsiasi attività di fronte all’importanza della carriera di scriba. Eppure nell’Insegnamento di Ptahhotep, forse il più celebre ed esteso, fatto risalire alla V dinastia e pervenuto integralmente in diversi manoscritti a partire dalla XII dinastia, di scribi non vi è alcuna menzione.
Non sembri un paradosso se si osserverà che, nell’Egitto del III millennio a.C., quello dello stato teocratico noto come monarchia menfita o età delle piramidi, più che di scrivere si sentiva la necessità di leggere. In altre parole esistevano diversi livelli di scrittura, tra i quali quello dello «scrittore» o compositore appare affatto secondario, ammesso che esistesse. Primordiale restò per tutto il III millennio l’attività di scriba come creatore, inventore, perfezionatore della scrittura. Se si prescinde dall’uso contabile delle amministrazioni, che però non richiedeva grande perizia, la competenza dello scriba consisteva nella capacità di creare, non solo il testo della composizione, ma pure la strumentazione grafica destinata a renderlo. Nei Testi delle Piramidi si dice del faraone che «è scriba del rotolo divino: dice ciò che è [legge] e fa essere ciò che non è [scrive]» (1146 c). La manipolazione della scrittura, specialmente in un testo religioso – e sono questi i principali testi oggetto di scrittura nel III millennio, non comprendendo in tale accezione i registri amministrativi, le lettere o i decreti – non richiedeva solo una competenza linguistica, ma la conoscenza dell’universo di segni e di simboli che si potevano rintracciare nel testo.
Da un punto di vista linguistico anzitutto lo scriba era colui che sapeva tradurre in una scrittura unica la «confusione» linguistica. La scrittura rappresentò nel III millennio a.C. uno specchio fedele del reale, non solo nei simboli grafici (geroglifici), ma altresì nelle parole che si scrivevano. Ogni cosa scritta corrispondeva necessariamente a qualcosa di reale; in caso contrario era sufficiente la sua formulazione per costituire un atto creativo. In questo la scrittura coincideva con la lingua ufficiale dello stato (o piuttosto del tempio, da cui essa promanava), l’unica «vera» per definizione, rispetto alla quale tutte le altre parlate all’interno del territorio pur vasto e certamente non molto omogeneo irrigato dal Nilo restavano «oscure» e non equiparabili, alla stregua di lingue proprie ad altre civiltà, che erano deliberatamente ignorate. In Egitto non si produsse la necessità, come in Mesopotamia; di sostituire alla primigenia una diversa lingua di cultura scritta, con l’esigenza connessa di identificazione dei due idiomi. Si può anzi ritenere che in Egitto, al pari dei mutamenti nello spazio, anche quelli nel tempo fossero rimossi come «non veri». Possedere la scrittura significava pertanto possedere la sola lingua che con la scrittura formava una unione indissolubile.
Lingua e scrittura così associate sottostavano poi alle esigenze rituali prodotte tanto dall’uso religioso, quanto dai tabù connessi ai valori ed alle funzioni delle entità assunte a simboli grafici. L’ignoto autore dei Testi delle Piramidi, diversi nella loro sistematicità da complesso a complesso, si rivela in questa luce un autentico scienziato, che, mosso dalla necessità di provvedere soluzioni ai quesiti rituali e linguistici, fece progredire non poco la consapevolezza della scrittura come resa dei contenuti, fonetici e semantici, della lingua che vi si proiettava. Ad esempio nella piramide di Teti fu seguita l’opzione di togliere ogni segno legato ad esseri animati dai simboli grafici, con trasformazioni nella scrittura delle parole in modo che esse rimanessero pur sempre sufficientemente intellegibili. Altrove si trattava di specificare nel modo più preciso il contenuto fonetico dei segni complessi, che costituivano di per sé un intero vocabolo, e si soleva allora aggiungere tutti i possibili «complementi fonetici» per togliere qualsiasi dubbio. Attraverso esperienze di tale genere maturò, nel millennio successivo, l’esistenza di uno strumento ...

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