Il grande silenzio
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Il grande silenzio

Intervista sugli intellettuali

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Il grande silenzio

Intervista sugli intellettuali

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Quali colossali cambiamenti, in Italia e nel mondo, hanno condotto negli ultimi tre decenni al declino apparentemente inarrestabile degli intellettuali? Com'è potuto accadere che il nesso politica e cultura, indissolubile in Italia fin dall'origine della storia unitaria, sia stato negli ultimi tempi polverizzato e abbia dato origine alla stagione del grande silenzio, segnata dal vuoto del pensiero critico? Più semplicemente, quale 'catastrofe' civile e culturale si nasconde nel nostro paese dietro il dissolvimento del ceto intellettuale, attore non innocente del declino più complessivo? Tra storia e ritratto autobiografico, parla uno dei protagonisti della cultura italiana degli ultimi cinquant'anni, un coltivatore di memoria, tramite tra passato e futuro.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858102350

La sinistra tra egemonia e catastrofe

D. Che giudizio dà della cosiddetta «egemonia di sinistra» sulla cultura italiana nell’arco più o meno di mezzo secolo, tra il 1945 e il 1989?
R. Innanzi tutto bisogna dire che essa nacque da dati reali, non da manovre di corridoio. L’Italia usciva dal fascismo: a beneficiarne, dal punto di vista dell’influenza sugli intellettuali, fu soprattutto il Partito comunista, che di quella lotta era stato innegabilmente il principale protagonista. Poi il partito si attrezzò presto per «coltivare» questa influenza: la cosa presentò molte durezze, e io ne sono stato talvolta protagonista e vittima, ma dimostrava un’attenzione che spesso si tradusse in potere reale (si pensi a quella straordinaria e ingegnosa creazione che fu nel Parlamento italiano il gruppo della Sinistra Indipendente, dove lavorarono in sostanziale autonomia intellettuali non iscritti di grande valore, da Luigi Anderlini a Luigi Spaventa e Stefano Rodotà). Non bisogna dimenticare che in quello stesso periodo, fino agli inizi degli anni Ottanta, vige una più reale e indiscussa egemonia, quella democristiana, che invade pesantemente i vari campi dell’organizzazione politico-culturale, dalla scuola e dall’università fino alla televisione. Avversarla divenne il compito fondamentale della cultura di sinistra, che su questo costruì, del resto molto faticosamente, le sue fortune. Quando io sono entrato all’università, agli inizi degli anni Cinquanta, di sinistra eravamo quattro gatti, altro che egemonia! Poi le cose sono cambiate, ma non automaticamente, bensì come frutto di una battaglia pluridecennale, che io tutto sommato continuo a considerare positiva. La scuola, ad esempio, ha acquisito lentamente un profilo laico e liberale anche in conseguenza di tale lunga battaglia: per questo oggi è tanto odiata e la si vuole distruggere. In seguito, e sia pure per un breve periodo, all’egemonia democristiana è subentrata quella craxiana, anticamera del berlusconismo. Capirai! Come si poteva non essere di sinistra, e magari di estrema sinistra, in presenza di un tale processo degenerativo? Questi sono dati reali, non chiacchiere da salotto.
D. In questo processo, tuttavia, non mancarono esclusioni, conformismi, intolleranze anche gravi.
R. Senza dubbio. Nell’apparato dell’organizzazione culturale comunista ci furono molti intolleranti e dogmatici (ma anche, ad essere sinceri, alcuni dirigenti di orientamento liberale, se così si può dire). Nego però che ci siano state distorsioni profonde, soprattutto di natura costrittiva. Non leggevamo, è vero, Popper e Hayek (Aron sì, però, e piuttosto interessatamente). Non li leggevamo perché preferivamo Marx e Nietzsche, Benjamin e Adorno... anche Lukács e Brecht e Mann e Musil e Babel’... E allora? Ho sotto il naso l’ultimo catalogo della casa editrice Einaudi, 1933-2008: splendido esempio di una casa editrice di sinistra, sostanzialmente aperta e tollerante, anche se tra difficoltà, incomprensioni, rotture, e anche se non pubblicava Popper (ora però, a dir la verità, anche lui). E la Laterza, dove la mettiamo? Strumento anch’essa dell’oppressivo regime culturale comunista, visto che ha pubblicato testi di Carlo Muscetta e Rosario Villari, Tullio De Mauro e Giuliano Procacci, Lucio Colletti (il Colletti di un tempo, fervidamente comunista, intendo) e Asor Rosa? E, tanto per restare a un personaggio simbolo della cultura non comunista (pur essendo stato comunista anche lui da giovane, come tanti altri), e cioè Renzo De Felice, la sua monumentale biografia di Mussolini l’ha pubblicata Einaudi, la sua intervista sul fascismo con Michael Ledeen è uscita da Laterza. E allora? Questa, non altra, è la cultura sostanzialmente laica e moderna, fortemente innovativa, che ha influenzato la scuola e l’università italiane e tuttora impedisce loro d’essere egemonizzate dalla degradante – questa sì – ideologia oggi dominante. Insomma, bisogna stare attenti: l’effetto disgregatore del «neorevisionismo» è arrivato a stravolgere perfino la storia dell’Italia repubblicana e democratica.
D. È indubbio che per circa quattro decenni il Pci abbia esercitato un’influenza significativa sul ceto colto.
R. Sì, fin da principio apparve come l’interlocutore più naturale. Nell’immediato dopoguerra il Partito comunista usciva libero da compromissioni con il fascismo e prometteva una società nuova. L’egemonia in Italia nacque così, rafforzata dal messaggio internazionale di liberazione e progresso lanciato dagli anni Venti dal comunismo in Europa, in Oriente, negli Stati Uniti e in parte del Sudamerica. Messaggio che nel nostro paese – per le ragioni che abbiamo illustrato – fu consapevolmente innestato su una tradizione nazionale.
D. Antonio Gramsci con i Quaderni sembrò offrire all’intellighenzia uno strumento formidabile.
R. Togliatti colse l’originalità del pensiero gramsciano, così diversa dalla rozza ripetitività del marxismo d’impronta staliniana. Il suo fu un capolavoro politico-culturale: i Quaderni divennero un caposaldo della cultura comunista in Italia, che così fu ancorata alla tradizione nazionale. L’operazione di Togliatti fu essenziale per la costruzione di un partito bifronte che, pur legato saldamente all’Unione Sovietica, si radicava nella storia italiana. È nello stretto rapporto del Pci con la tradizione culturale nazionale che vanno cercate le ragioni del consenso di larghissima parte dell’intellettualità italiana. Non bisogna poi trascurare un elemento essenziale: affidandogli la lotta per il cambiamento sociale, Gramsci rimarca la centralità del ceto colto, appagato nella sua ansia di protagonismo. Sono convinto che l’es­se­re stati chiamati, come ceto oltre che come individui, a far parte del disegno strategico della rivoluzione comunista italiana abbia costituito un elemento di grande seduzione.
D. Il riformismo storicamente ha esercitato meno fascino.
R. Il Pci ha offerto agli intellettuali una possibilità che al maître à penser piace moltissimo: una prospettiva di palingenesi radicale, di trasformazione globale, che va oltre l’occasione nazionale.
D. Quel che si capisce meno è perché il fervore delle intelligenze non sia stato raffreddato dalle notizie che arrivavano da Mosca, tra purghe staliniane e persecuzioni feroci.
R. Penso che in Italia tutto ciò sia arrivato molto tardi. Paradossalmente il regime fascista con le sue censure ha impedito tra i comunisti una libera discussione sull’involuzione del regime sovietico, con l’effetto di rimandare la questione all’indomani della Liberazione.
D. Discussione che in realtà è stata ritardata di parecchi decenni. Anche Pietro Ingrao ha raccontato che sul finire degli anni Trenta qualche notizia cominciò a circolare, ma si preferì guardare altrove.
R. Quando si ripercorre quella stagione, bisognerebbe fare lo sforzo di non astrarsi dal clima ideale in cui erano immersi simpatizzanti e iscritti: perfino le accuse più infami che venivano mosse ai dirigenti del comunismo internazionale – tradimento, collusione – potevano essere tranquillamente considerate attendibili e al tempo stesso messe da parte, considerate trascurabili rispetto agli effetti, positivi, del grande movimento storico complessivo.
D. Un accecamento collettivo?
R. No, qualcosa di diverso. A vent’anni lessi Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler, un libro straordinario, scritto da un comunista che aveva smesso di esserlo.
D. Uno dei più straordinari atti d’accusa contro lo stalinismo. Ma lei lo lesse quando era già iscritto al Pci?
R. Sì, avevo già cominciato a frequentare la cellula universitaria alla Sapienza di Roma, insieme a Mario Tronti, Umberto Coldagelli, Gaspare De Caro e altri miei compagni della facoltà di Lettere e Filosofia. Tra i più «grandi» ricordo Paolo Chiarini, Renzo De Felice, Cesare Garboli. Nell’ambito della mia disciplina, la letteratura italiana, tra gli iscritti al Pci figuravano studiosi di primo piano come Natalino Sapegno, Carlo Salinari, Carlo Muscetta. Tra gli scienziati, Marcello Cini, Giulio Cortini e Giovanni Berlinguer. Il nostro, in particolare, era un gruppetto di «smandrappati» decisi a recuperare la verità dal verbo marxiano. Alla curvatura storicistico-idealista sostenuta dal modello di Gramsci opponevamo direttamente il materialismo di Karl Marx, ma di questo ho già detto. Oggi non saprei spiegare con lucidità le ragioni di quell’innamoramento. Forse c’entra qualcosa il fatto che noi eravamo tutti intellettuali di prima generazione, anzi, se si può dir così, di primissima generazione: alle nostre spalle non c’era un solo professore o avvocato o medico o giornalista, ma solo modesti impiegati di concetto, piccolissimi borghesi o contadini o semplicemente dei proletari. Insomma, venivamo dal basso: e chi viene dal basso, e tende a salire, o si corrompe o è costretto a fare resistenza. Noi abbiamo scelto la seconda. Del resto, non ci mancavano alcuni battipista di prim’ordine: ci influenzò molto in questo senso un giovane e brillantissimo professore di filosofia, Lucio Colletti, con cui nei decenni successivi non sarebbe mancata la discussione.
D. Lei veniva anche da una famiglia di sinistra.
R. Mio padre Alessandro era un ferroviere di salde convinzioni socialiste. Un progressista autentico e coerente, per tradizione famigliare e per attitudine antropologica. Fu lui ad educarmi al valore della politica, fin da bambino. Nella Roma occupata dai tedeschi, svolgeva attività clandestina, con materiali propagandistici nascosti sotto la soletta delle scarpe. Ho ancora negli occhi la piazza dei Re di Roma, a un tiro di schioppo da casa nostra, dove nel 1946 sfilammo con decine di migliaia di persone per sostenere la Repubblica. Io poi lo sorpassai a sinistra, iscrivendomi al partito di Togliatti. Ero persuaso che occorresse un passo in avanti, dal riformismo alla rivoluzione. Ma la mia formazione politica avvenne anche nella biblioteca del Dopolavoro ferroviario, di cui mio padre fu uno dei dirigenti. A lui e a mia madre Assunta ho dedicato di recente un «racconto politico» intitolato Le formiche: senza le «formiche», lavoratori tenaci e integri, l’Italia sarebbe andata a rotoli. Continuo a credere nella funzione salvifica delle «formiche».
D. Quando s’iscrisse al Pci?
R. Sarà stato il 1952, al mio secondo anno di università: fu il segretario nazionale della Fgci a consegnarmi la tessera in mano, in un locale della sezione Salario. Enrico Berlinguer pronunciò scarne parole, taciturno e indecifrabile. Fu una cerimonia per me molto solenne. Non avevo ancora vent’anni.
D. Conobbe mai Palmiro Togliatti?
R. Sì, a una manifestazione che si tenne al cinema Quattro Fontane. Fui incaricato di fare l’intervento a nome della Sezione universitaria. Parlai subito prima di lui. Alla fine mi fece dei complimenti. Alla sua maniera: poco espansivo, essenziale, eloquio da professore universitario. Mi colpì molto questa sua aria intellettuale, accompagnata da una naturale freddezza di comportamenti, riconducibile al suo drammatico soggiorno moscovita in situazioni molto difficili. Stargli accanto mi parve una cosa quasi impossibile.
D. Tornando al libro di Koestler, i suoi argomenti non furono tali da dissuaderla?
R. No. Ma la spiegazione è fornita dallo stesso Koestler, quando con un colpo di genio descrive alla perfezione il meccanismo grazie al quale anche la confessione d’una colpa non commessa – confessione alla quale è costretto il dirigente comunista giudicato traditore – potesse rappresentare per lui l’ultima grande manifestazione di fede e di fedeltà agli ideali del comunismo. Un meccanismo aberrante, ma allora condiviso da molti. Voglio dire che non bastavano le denunce delle nefandezze staliniane per arrivare a un’esplicita sconfessione del comunismo da parte di molti intellettuali del tempo.
D. Un atto di fede, più che una scelta politica.
R. Oggi è difficile spiegarlo, perché si presume che il rapporto tra verità ed errore sia univoco e che chi non è colpevole semplicemente non debba essere perseguito. Allora la percezione era radicalmente diversa: anche se la vittima era consapevole della sua innocenza, e di conseguenza non gli sfuggiva la perversione manifestata dal potere comunista, si lasciava andare alla confessione come supremo sacrificio personale, nella inscalfibile convinzione che il processo storico del comunismo andasse avanti nonostante i colossali errori. Per capire come siano andate le cose, bisognerebbe essere non più indulgenti ma più comprensivi delle dinamiche di quei meccanismi.
D. Ma il libro di Koestler non lo trovò nella biblioteca di sezione.
R. No, allora frequentavo una biblioteca americana in via Veneto, l’Usis. La sigla sta per United States Information Service. Gli Stati Uniti avevano creato dei centri culturali con il proposito di arrestare le correnti filocomuniste all’epoca molto diffuse. La frequentavo perché il prestito era molto facile, una straordinaria opportunità per chi come me non aveva un soldo. Oltre a Koestler, lessi anche Il dio che è fallito, una raccolta di testimonianze sul comunismo di Ignazio Silone, Stephen Spender, Richard Wrights e altri fuoriusciti. Ma anche in questo caso non fui dissuaso dal continuare a militare nel Pci. Pur non guardando a questi testimoni con ostilità stalinista – cosa che nella vita non credo mi sia mai capitata – li consideravo come attori di un processo più complessivo, la cui causa finale era assai più importante della catena eventuale di «errori» e «deviazioni».
D. Insomma, divenne comunista leggendo libri anticomunisti in una biblioteca statunitense.
R. Sì, la sintesi può apparire paradossale, ma fu così. In fondo anche la biblioteca di via Veneto era manifestazione di quella grande e contraddittoria democrazia che è l’America. Fu in quel periodo che, come ho già ricordato, lessi furiosamente Marx, Nietzsche e Freud. Se fossi stato in Unione Sovietica, sarei finito davanti a un plotone d’esecuzione. Trovandomi in Italia, mi sono limitato ad ascoltare le rampogne prima di Emilio Sereni, poi di Carlo Salinari e Mario Alicata: tutte persone di grande intelligenza, ma pervertite dalla totale soggezione alla ragione di partito.
D. Per molti comunisti – lo rievoca con efficacia Nello Ajello in Intellettuali e Pci – la militanza nel partito è stata esperienza esistenziale prima ancora che politica. Per lei?
R. Sì, certo: era un’esperienza che andava al di là della militanza stretta, con coinvolgimenti che oggi sa...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. L’estinzione
  3. Nascita e tramonto di una tribù inquieta
  4. Politica e cultura
  5. La sinistra tra egemonia e catastrofe
  6. La «civiltà montante»
  7. L’evo berlusconiano
  8. Scuola e università: la nuova resistenza
  9. «A ognuno puzza questo barbaro dominio»
  10. Nota bibliografica