L'Italia che non cresce
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L'Italia che non cresce

Gli alibi di un paese immobile

  1. 184 pagine
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L'Italia che non cresce

Gli alibi di un paese immobile

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L'Italia è un paese in difficoltà. Perché è vecchio, con pochi e sfaticati giovani, stranieri che rubano il lavoro e donne alle quali nemmeno conviene cercarlo? No, perché è pieno di freni culturali e strutturali che impediscono di liberare le forze positive e dinamiche lasciate troppo a lungo, colpevolmente, imbrigliate. La principale ricchezza di un paese sono i suoi abitanti, allo stesso tempo produttori e destinatari di benessere. Questo libro si occupa di loro. Ogni capitolo è dedicato a un alibi da smontare perché il declino non è un destino ineluttabile e un'Italia migliore è possibile, se saremo in grado di trasformare quelli che vediamo oggi come problemi in sfide e opportunità da cui ripartire.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788858107676
Argomento
Economics

1. Pochi giovani e senza lavoro

C’era una volta il boom: quando l’Italia cresceva

Il boom tocca il punto più elevato nel 1964 con 1.016.120 nuovi nati. Era quella un’Italia diversa, pronta a scommettere sul proprio futuro con un milione e oltre di buoni motivi. È il punto più alto di un processo di continua crescita che interessa i primi due decenni del dopoguerra e che estenderà i suoi effetti approssimativamente fino a metà anni Settanta. Finita la guerra si riparte di slancio, con tanta voglia di nuova vita. Appena si può ci si sposa. Nel 1951, anno del primo censimento della Repubblica, si celebrano 328 mila matrimoni. Nel 1963 si tocca la vetta mai più superata di 420 mila. Valori stratosferici se si pensa che oggi non si arriva a 250 mila. Dai nuovi matrimoni non tardano ad arrivare i figli. Una nazione in piena vitalità, dove tutto cresce. Una vitalità che trascina verso l’alto la produzione e il consumo.
Le nuove generazioni, sul versante maschile, hanno aumentate possibilità di diventare autonome grazie alle nuove opportunità di lavoro e reddito offerte da un paese che sta accelerando verso l’industrializzazione. Tutto ciò consente di raggiungere in età relativamente giovane i mezzi per poter mantenere una propria famiglia. Allo stesso tempo le giovani donne sono desiderose di sposarsi presto, per uscire dalle ristrettezze e dalla rigidità della famiglia patriarcale di origine e mettere le basi di una vita domestica più moderna, resa meno grigia e pesante dai nuovi comfort tecnologici, come la lavatrice, l’aspirapolvere e il televisore, sempre più disponibili nella società dei consumi.
Come e più del resto del mondo occidentale, l’Italia dimostra di voler e saper crescere. A guadagnare spazio sono soprattutto le nuove generazioni, demograficamente travolgenti ma anche piene di energia e voglia di fare. L’Italia non rincorre il cambiamento, c’è tutta dentro.

I ragazzi del ’43: quelli cresciuti in fretta

Per capire come fu possibile il “miracolo della crescita” occorre partire dalla generazione precedente, quella dei nati negli anni Venti. Investita in età infantile dalla crisi del ’29. Inquadrata e irreggimentata durante la dittatura fascista. Giovane quando i giovani erano soprattutto serve, garzoni, soldati. Forza lavoro e militare a disposizione degli adulti, la cui autorità era indiscussa.
I giovani degli anni Venti hanno vissuto, insomma, in un’epoca nella quale la fase giovanile era un territorio da attraversare di corsa, guadagnando nel tempo più breve possibile una posizione attiva nella società, come racconta una recente ricerca basata sulle testimonianze orali di tale generazione15. Arriva poi la guerra ad accelerare ulteriormente tale passaggio.
Una generazione, per propria natura e per le contingenze della storia, chiamata precocemente all’impegno e alla responsabilità, che – simbolicamente ma non solo – si trova senza padri a diventare adulta in un mondo quasi completamente da reinventare, con alle spalle un’ideologia fallita e davanti un paese in macerie da ricostruire.
Dopo l’irreggimentazione si apre, infatti, una fase fortemente dinamica che libera, non a caso, soprattutto le nuove energie dei giovani e delle donne. Non che per le donne non si fossero, in qualche misura, aperti spazi nel corso del Ventennio, ma il ruolo femminile era fortemente subalterno e decisamente orientato a quello di angelo del focolare. Va però precisato che, dal punto di vista degli stili educativi, le famiglie dell’epoca fascista non appaiono molto dissimili da quelle dell’immediato dopoguerra. La vera inversione di rotta in questo campo si realizza molto tempo dopo, a metà degli anni Sessanta. La comunicazione genitori-figli negli anni Trenta è ancora basata su rapporti rigidi, autoritari, con forte controllo sociale. Gli stessi giovani non consideravano nemmeno immaginabile la possibilità di mettere in discussione l’ordine dentro e fuori le mura domestiche.
Tutto questo salta – non per scelta consapevole e desiderata – con la forte discontinuità prodotta dalla guerra e con le nuove urgenze che essa impone. In questa fase travolgente e di emergenza continua tutto precipita. Scrive Piccone Stella riferendosi ai giovani di quel tempo16: “le decisioni andavano prese in prima persona, in fretta e d’impulso, tendono a smarcare la generazione dei genitori, ad aggirare le preoccupazioni”. Scelte fatte senza aver chiaro il quadro di riferimento e spesso di senso: “Era come se vivessimo fuori dal tempo, in una parentesi tra due epoche”, racconta un testimone. Mentre tutto attorno crolla e non è ancora chiaro come uscirne e da dove ripartire, “scelgono di fare da sé”.
Questa generazione viene chiamata a chiudere un’epoca e a far ripartire l’Italia senza troppo guardarsi indietro. Dalla sua energia vitale e creativa si sprigionano il boom economico e il baby boom. Sono questi giovani a mettere fisicamente le fondamenta dell’Italia del secondo dopoguerra. A porre le basi del nuovo modello sociale e di sviluppo all’interno del quale cresceranno, in benessere e libertà, i loro irrequieti figli e i loro più o meno indignati nipoti. Una generazione che ha all’origine aspettative basse, abituata a considerare i bisogni primari come obiettivi principali da realizzare. L’ultima generazione a conoscere la fame, la prima a crescere i figli nella relativa abbondanza.

Gli anni Sessanta: i giovani al centro della scena

I nati nei primi decenni del dopoguerra vengono chiamati baby boomers, proprio perché nascono e si formano durante il boom demografico ed economico. Sono i primi a crescere con la catalizzante presenza in casa della televisione, pienamente inseriti nella società dei consumi, considerati esplicitamente come target dal mercato. La condizione dell’infanzia e dell’adolescenza è completamente cambiata. Mortalità infantile, sottonutrizione e lavoro minorile, piaghe del passato, sono diventati mali in larga misura debellati. Dalla quantità dei figli si è passati al forte investimento sulla qualità. Con conseguente prolungata scolarizzazione e impulso alla mobilità sociale. Ma, soprattutto, la giovinezza diventa una fase della vita a sé stante, non più solo l’anticamera, più o meno lunga, all’età adulta.
Sono quelli che crescono in un’Italia che cresce, ma che nonostante ciò gli va stretta. È la generazione che contesterà i padri, che dichiarerà superati e inadeguati coloro che l’Italia l’hanno rimessa in piedi su basi democratiche e avviata su binari di progresso e prosperità. Ma quella dei loro genitori era una generazione nata per mettersi al servizio e farsi superare. Precocemente adulta, è stata presto percepita come vecchia.
Quella dei boomers è invece la cosiddetta “meglio gioventù”, nata per durare, temprata per resistere a tutte le stagioni. In grado di trasformare la società italiana a propria immagine e somiglianza, rinnovandone i costumi e i modelli di comportamento. Aumenta soprattutto l’autonomia individuale in ambito etico, religioso e politico. Oltre che sempre meno disposte a limitare la propria libertà, le nuove generazioni diventano anche sempre più insofferenti nell’adottare, in età troppo giovane, comportamenti che implichino assunzioni di impegni e responsabilità, con la conseguente tendenza a evitare di fare scelte percepite come irreversibili, o comunque troppo vincolanti.
Una generazione che entra presto in scena e rimane poi a lungo a recitare tutti i ruoli possibili, lasciando poco spazio a chi verrà dopo, come vedremo. La lettura e l’interpretazione della realtà è rimasta dagli anni Settanta a oggi sostanzialmente quella degli esponenti di tale generazione, ostinati dominatori della classe dirigente italiana17, mentre tutt’intorno il mondo è cambiato.

A cosa servono i giovani?

Una società per crescere e prosperare ha bisogno di produrre continuamente nuovi individui che siano dotati di capacità, spazio e strumenti adeguati per rispondere al meglio alle sfide del presente e del futuro. Non è un caso che il termine “giovane” abbia la stessa radice del verbo “giovare”, che rinvia all’idea di essere utile e contribuire al bene comune18. Meno si investe sui giovani e meno essi possono giovare al proprio paese, contribuire fattivamente al suo sviluppo. Non si tratta quindi solamente di fornire a ciascuno i giusti mezzi per realizzare al meglio il proprio destino personale: dal successo individuale nel processo del diventare adulti dipende anche il futuro e il successo della comunità civile nel suo complesso. Tutto questo è ancor più importante nelle fasi di grande cambiamento, come quella attuale.
Le società contemporanee avanzate stanno infatti vivendo sfide inedite, sotto la spinta delle trasformazioni indotte dalla globalizzazione, dall’innovazione tecnologica e dall’invecchiamento della popolazione. Da tali grandi processi discendono nuovi bisogni che non trovano una risposta omogenea in tutti i paesi, interagendo con specificità istituzionali e culturali. Lo stesso processo di globalizzazione ha creato nuove opportunità ma ha comportato anche nuovi rischi, che pesano su larghe parti della popolazione. La riflessione nella letteratura scientifica sulla trasformazione dei sistemi di welfare ha messo in luce come particolarmente problematica la condizione delle persone in età giovanile. I nuovi rischi sono infatti soprattutto riconducibili alle difficoltà connesse all’entrata nel mercato del lavoro, alla conquista di una stabilizzazione e di una posizione adeguata.
Soprattutto nei paesi caratterizzati da un welfare pubblico debole e da istituzioni più rigide nel rispondere ai potenziali effetti negativi dei grandi cambiamenti in atto (economici, demografici e sociali), le nuove generazioni tendono a incontrare maggiori difficoltà nel trovare lavoro, nel costruire una propria autonomia economica e nello stabilizzare i propri percorsi professionali19. Le conseguenze negative hanno ricadute sia micro che macro: da un lato viene infatti frustrato il desiderio di realizzare gli obiettivi personali, dall’altro viene compromessa la possibilità di costituire una risorsa pienamente attivata nel processo di crescita del paese.
Ma se i giovani sono i più esposti alle conseguenze negative del cambiamento mal governato, essi sono anche la risorsa più importante per vincere le grandi sfide del XXI secolo. Proprio in risposta alla globalizzazione e all’invecchiamento della popolazione, la Commissione europea ha invitato ripetutamente gli Stati membri a considerare come elemento strategico per lo sviluppo sociale ed economico la promozione del capitale umano delle nuove generazioni20. Purtroppo, come vedremo, il nostro paese risulta essere tra i più lontani da tale obiettivo. Siamo, anzi, tra le economie avanzate che negli ultimi decenni maggiormente hanno disinvestito sulle nuove generazioni. Avere meno giovani, più demotivati e messi ai margini, non pone certo nelle condizioni favorevoli per la costruzione di un futuro con qualche chance di essere migliore del presente.

Giovani? No, grazie

Partiamo dal disinvestimento quantitativo. Nell’ultimo mezzo secolo, dal 1961 a oggi, la popolazione under 25 è passata da oltre il 40% a meno del 25%, mentre gli over 65 sono più che raddoppiati, salendo da meno del 10% a oltre il 20%. Il sorpasso dei secondi sui primi è annunciato per il 2025 circa.
Alla base della drastica riduzione in termini assoluti e relativi della popolazione nella verde età stanno i ben noti processi di allungamento della durata della vita e della riduzione della natalità. In una prima fase l’aumento della sopravvivenza ha inciso sulle età infantili, ma ha poi sempre più prodotto benefici nelle età più avanzate. Dalla metà degli anni Settanta all’inizio del XXI secolo l’Italia ha raggiunto livelli tra i maggiori nel mondo di longevità e valori tra i più bassi di fecondità. La conseguenza è stata un accelerato processo di invecchiamento, ma soprattutto la riduzione accentuata della base della piramide demografica, tale da farci diventare negli anni Novanta il primo paese al mondo a veder realizzato il sorpasso degli over 65 sugli under 15.
L’ondata di denatalità ha prima prodotto un affossamento della popolazione infantile e sta ora sempre più estendendo il...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Le risorse che il paese non sa valorizzare
  2. 1. Pochi giovani e senza lavoro
  3. 2. Familismo e donne ai margini
  4. 3. Troppi immigrati
  5. 4. Sempre più vecchi