Destini di frontiera
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Destini di frontiera

Da Vladivostok a Khartoum, un viaggio in nove storie

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Destini di frontiera

Da Vladivostok a Khartoum, un viaggio in nove storie

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Un accattone bambino, nella giungla cambogiana, che parla dodici lingue. Una giovane manager d'assalto del Vietnam. Un uomo dal passaporto falso nelle miniere di giada della Birmania. Federico Fubini racconta le vite invisibili travolte dalle grandi correnti globali.Un viaggio passo passo dall'Estremo Oriente a un Occidente altrettanto estremo, passando dal Golfo del Bengala e quindi dal Persico. Man mano che si avanza, le immagini da cartolina non tengono più: il mondo cambia così in fretta che ogni donna e ogni uomo ormai porta su di sé più di un'epoca e più di una cultura. È il segreto che trasforma il pianeta, popoli mai entrati in contatto si incontrano. L'era della grande ibridazione umana è iniziata. La si legge negli occhi delle persone per migliaia di chilometri: dalla taiga russa a un passo dalla Corea del Nord alle celle d'acciaio che imprigionano certi strani 'cinesi' nelle carceri di Guantánamo. Tra cronaca e racconto, in queste pagine troveremo quel calderone di culture, interessi, vita, identità, che distingue l'oggi.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858102251
Argomento
Economia

1. A due passi dalla stazione finale della Transiberiana

Siberia orientale
Siberia orientale
Prodotto interno lordo per abitante (Russia): 8.874 dollari (2009)
Popolazione: 6,6 milioni
Densità: 1,1 abitante per km2
Speranza di vita: 59,33 anni (uomini); 73,14 anni (donne)
Frontiera con la Cina: 4.300 km
Popolazione nella Cina nord-occidentale: 140 milioni
Proporzione uomini/donne in Russia: 0,86 uomini per 1 donna
Proporzione uomini/donne in Cina: 1,1 uomo per 1 donna
(alla nascita)
A due passi dalla stazione finale della Transiberiana, sette fusi orari e novemila chilometri a est di Mosca, l’insegna sbuca nella nebbia come un riassunto dell’ultimo secolo. «Caffè Nostalgia»: drappi rossi in stile pietroburghese, Rachmaninov accennato al piano, prugne e noci in panna acida, Nicola II e Alessandra d’Assia in cornice sul muro, mentre i siti web della capitale non smettono un attimo di dibattere la somiglianza fra l’ultimo zar e il presidente Dmitrij Medvedev.
Tutto perfetto, tutto imperiale nell’Estremo Oriente russo. Non fosse che le coppie di innamorati, sedute tête-à-tête a cena, sono cinesi: incursori più o meno ignari di una sfida tra i due grandi colossi emersi dal marxismo come nuovi protagonisti globali.
Per gli avventori dagli occhi a mandorla del Nostalgia, questa è «Manciuria esterna», e anch’essi trovano l’aria estiva qui sulla baia del Corno d’Oro irresistibilmente familiare. Più su, lungo la collina a strapiombo sul Pacifico, frotte di «delegazioni» dell’altra Manciuria, quella vera, invadono l’Hotel Vladivostok. Dopo cena, nella vecchia hall brezhneviana, uomini d’affari di Harbin o Dalian si sollevano la maglia sulla pancia, emblema di prosperità, massaggiandosela lentamente. Nelle sale da gioco, nei mercati di strada, nei bar niente affatto equivoci tanto ovvio è il loro uso: ovunque i cinesi brulicano. Alcuni si spingono in gita fino al porto, a passeggiare nei meandri di un vecchio sottomarino sovietico C-56 copertosi di gloria durante l’ultima guerra mondiale. Neanche i radar più avanzati degli incrociatori all’àncora poco più in là, benché non più malfermi e rugginosi com’erano dieci anni fa, sono ormai in grado di fermarli.
Circa ventimila cinesi lavorano stabilmente nella provincia. Dal confine, a 95 chilometri da Vladivostok, ogni giorno si registrano 18 mila ingressi dalla Repubblica popolare nello spopolatissimo Primorsky Krai, il «Territorio del Litorale», dove appena due milioni di russi vivono in stile quasi europeo nel cuore di una terra selvaggia e lontana.
Quando i primi coloni dello zar arrivarono qui, un secolo e mezzo fa, trovarono solo poche, sparpagliate tribù primitive d’aspetto mongolico. Zigomi alti e larghi, pelle olivastra, fessure affilate al posto degli occhi. Fa parte del mito del Far West zarista, che in realtà è ovviamente un Far East. Con l’orgoglio di chi ritiene di aver portato la civiltà, il museo di Vladivostok rappresenta gli indigeni in plastici a grandezza quasi naturale: li si vede sopravvivere al gelo in pelli di animali, pescare attraverso buchi nel ghiaccio in inverno, difendersi dalle tigri d’estate. Oggi di questi «indiani» della Siberia orientale si è persa ogni traccia: per loro non ci sono state riserve ma dispersioni e migrazioni forzate nel vasto spazio sovietico. Restano le tigri, perché fuori città la foresta non è molto meno selvaggia di allora. Ma non è di loro che si preoccupano i discendenti di quei primi coloni quando parlano della zholtaia ugroza, la «minaccia gialla».
In teoria qui comandano ancora gli eredi dei pionieri zaristi, gli avventurieri che alzarono la loro bandiera blu, bianca e rossa, e nel 1860 battezzarono Vladivostok con un nome che di per sé era uno schiaffo alla Cina: Vladei Vostokom, «controllo dell’Oriente».
Da allora, questo sarebbe sempre stato un avamposto europeo e un luogo strategico da proteggere. Nel dopoguerra e ancora per mezzo secolo, fino al 1992, la città verrà proibita persino ai russi non residenti, ma mantenuta eccezionalmente ben provvista di merci per i suoi cittadini, rinchiusi com’erano nel bunker della flotta nucleare sovietica sul Pacifico. La metropoli allora copriva 560 chilometri quadrati, di cui non più di novanta destinati agli ottocentomila civili. Il resto era tutto riservato all’esercito e alla marina.
Yury Avdeyev, un pacato economista che negli ultimi scampoli di perestroika fu vicepresidente del Consiglio dei deputati del Soviet, di quegli anni ricorda i rompicapo impossibili per ottenere un permesso perché sua madre potesse venire in visita dall’Ucraina. Una notte, si presentò in rada un solitario navigatore bulgaro impegnato a compiere il giro del mondo, e Avdeyev, con la complicità di pochissimi, dovette allestirgli un ormeggio clandestino.
Ma mai che a Vladivostok si sia vista una coda per il pane o per le uova, com’era normale in quegli anni a Mosca, a Kiev o a Leningrado. Erano i privilegi della città-fortezza, la roccaforte dell’uomo bianco nell’Estremo Oriente conquistato molte generazioni prima, quando l’impero dei Qing era debole e il trattato di Pechino del 1861 eveva assegnato le terre sulla riva sinistra dell’Amur ai Romanoff, in cambio di un vago sostegno russo nella guerra dell’Oppio.
Quell’anno, Pechino viveva sotto l’assedio anglo-francese. Per i cinesi l’accordo con lo zar passerà alla storia come il «trattato ineguale», e c’è voluto un secolo e mezzo punteggiato di guerre perché, nell’estate del 2008, i ministri degli Esteri Yang Jiechi e Serghej Lavrov chiudessero finalmente l’intesa sui 4.300 chilometri di confine comune.
La vecchia geopolitica è finita lì. La nuova sfida asimmetrica che Pechino va muovendo a Mosca in questo territorio nevralgico però è già partita, e porta tutti i segni di un’invasione postmoderna, creativa, condotta con mezzi non convenzionali. È in questa logica che Pechino oggi finanzia le delocalizzazioni industriali verso la Russia. Hanno diritto a ricevere sussidi quelle imprese cinesi che conquistano le materie prime da questa parte della frontiera, la Manciuria «esterna», o vi stabiliscono i propri impianti di produzione. È già il caso della Golden Stone, che estrae lo zinco e il piombo del Primorsky Krai a Olga, o della Kon-Di che a Ussuriisk, la «città degli ussari», ha montato le sue fabbriche di abbigliamento e di scarpe. Ed è curiosamente l’opposto esatto dei sussidi che certi governi europei offrono agli industriali dei loro paesi affinché riportino i propri siti produttivi entro i confini nazionali.
Nel disegno di riavvicinamento cinese ai territori perduti non mancano neppure le zone franche di frontiera, laboriosamente avviate da Pechino e instancabilmente disfatte dai russi con l’arma dei vincoli burocratici, cervellotici requisiti sui pesi e le misure della merce escogitati a Mosca pur di ridurre quelle aree a città fantasma. Gli stessi niet sono arrivati quando Pechino si è proposta di finanziare in proprio alcuni ponti fra i due paesi lungo l’Amur, il fiume che oggi quasi ovunque si attraversa solo in barca d’estate, e a piedi, sul ghiaccio, d’inverno. Heihé e Blagoveshchensk, città gemelle siamesi sotto due bandiere e due sistemi, restano così divise dall’acqua dove la Zeya si getta nell’Amur.
Niente di tutto questo fa perdere la calma a Xue Huilin, l’uomo d’affari cinese più influente nell’Estremo Oriente russo. Quando ho chiesto d’incontrarlo, Yury Avdeyev si è scrupolosamente offerto di fare da tramite, però ha voluto assistere. Forse è per questo che Xue Huilin l’ha presa da principio molto alla larga, con la pacatezza di uno che si attende una vittoria ineluttabile.
«Molti mi chiedono quanti cinesi ci siano nel Primorsky Krai e quando se ne andranno», ha esordito Xue, quel giorno di luglio del 2008. Portava occhiali dorati da burocrate benestante. Pacato, ironico, a 45 anni già così ricco da non doversi affannare nel suo lavoro. Capace anche di curiose diversioni: «C’è in Cina un corso d’acqua chiamato Fiume Giallo che porta molta sabbia, e il livello del letto del fiume sale, sale», iniziò a spiegarmi. «Le popolazioni che vivono lungo gli argini temono sempre che un giorno l’accumulo di rena finisca per provocare una catastrofe – diceva –. Credo che per i russi, noi cinesi siamo come i granelli di sabbia del Fiume Giallo: vedono il livello salire ed è normale che abbiano paura. Non si può negare che Pechino nutra interesse per questa regione: per questo non impone alcun limite alla popolazione che si sposta verso il Primorye».
È a questo punto della nostra conversazione che è successo qualcosa di strano. Avdeyev, l’uomo più colto, affabile e liberale che abbia incontrato a Vladivostok, ha iniziato a inserirsi, non richiesto, nelle risposte di Xue. Sfumava, precisava, rettificava, smorzava. Il suo sogno, un sogno di minoranza in città, di per sé già abbastanza scomodo e impopolare da difendere, era una Russia aperta e integrata con i vicini d’Oriente. Non invasa e dominata. Ma il suo amico cinese non sembrava affatto cogliere la distinzione.
Qui anzi Huilin ha lasciato perdere del tutto le metafore sui corsi d’acqua ed è passato direttamente a parlare di sua moglie. Giovane, bionda, alta. Russa. Lena è affascinante, lasciò intendere l’imprenditore cinese, ma non sarebbero mancati comunque ottimi motivi per sposarla. Con lei Huilin può avere molti figli senza incorrere nei divieti di Pechino, che vincola le coppie di razza han alla politica del figlio unico. Soprattutto, non fosse stato già ricco, Huilin avrebbe avuto anche un valido incentivo economico al matrimonio. «Da un lato le autorità cinesi offrono aiuti per chi sposa una donna russa – spiegava Huilin – e dall’altro le autorità russe complicano le procedure per ostacolare i nuovi mariti che vogliano prendere la residenza qui». Quanto a lui, non approvava affatto simili misure perché, a suo dire, «producono matrimoni fittizi che fanno perdere molto denaro pubblico al nostro paese».
Per capirci di più, ho provato due giorni di seguito a farmi ricevere dal console cinese di Vladivostok. È stato del tutto inutile. Non aveva alcuna intenzione di discutere con me dell’esenzione fiscale quinquennale, di cui tutti parlano a Vladivostok, riservata ai cittadini della Manciuria che optino per un matrimonio russo.
Per i cinesi è semplicemente la risposta allo squilibrio fra i sessi, prodotto dagli aborti volontari di bambine praticati da coppie decise a far sì che il loro solo possibile figlio fosse almeno un bel maschio. Ma per i russi, appunto, è una minaccia: se in Manciuria vivono quasi 120 uomini per ogni cento donne, nella Siberia orientale il rapporto è rovesciato; le donne sono in forte soprannumero e ciò contribuisce a rendere tutta la regione fatalmente vulnerabile.
In Vladimir Putin, la Russia ha trovato un leader che adora farsi ritrarre nelle pose più virili. Caccia la tigre nel Primorye, nuota nei laghi della taiga, schiena gli avversari a judo. Forse perché più della de-industrializzazione, della corruzione o della criminalità, sa che il vero tallone d’Achille del suo paese è la debolezza dei maschi. Secondo Anatoli Vyshnevski, capo dell’Istituto di demografia di Mosca, nella Federazione russa un uomo su tre muore fra i venti e i sessanta anni d’età. Le donne hanno una speranza di vita di 73 anni, gli uomini di 60 ed entrambi risultano in calo rispetto a mezzo secolo fa. Oltre all’alcol, incidono fattori difficili da misurare quali il tabagismo, la cattiva alimentazione, la violenza e la criminalità, la lunga leva militare e l’alienazione che molto spesso ne segue.
Tutto questo accelera un declino demografico che Putin stesso ha definito il problema più grave della nazione: una questione di sicurezza nazionale, non solo di salute pubblica. Fra il 1993 e il 2009 i russi sono diminuiti da 148,9 a 141,9 milioni e una stima riportata dal German Marshall Fund prevede un ulteriore crollo a cento milioni entro la metà del secolo. Complice la falcidie silenziosa degli anziani, le cui pensioni sono andate in fumo nella transizione, quando si passeggia per le strade di Vladivostok si ha l’impressione di aggirarsi in una città senza vecchi.
Huilin nella sua parabola sui granelli di sabbia non aveva neanche bisogno di ricordare questi grandi numeri, perché sono ben chiari nella testa di tutti. Nell’Estremo Oriente russo, una distesa di territorio paragonabile all’Europa, restano 6,6 milioni di persone, mentre erano oltre otto milioni nel 1991. Il crollo, iniziato ben prima del crepuscolo dell’Urss, quaggiù tocca punte estreme. Ma se da questa parte dell’Amur la terra è fertile, vuota e colpita da una catastrofe demografica, di là dal fiume che segna la frontiera è invece piuttosto arida e stracolma di 140 milioni di abitanti del Nord-Est cinese.
In una sola regione, quanto in tutta la Russia. Più maschi che femmine, di là; più femmine che maschi, di qua. Le vedrete in bikini e tacchi alti sulla spiaggia proprio a perpendicolo dal Vladivostok Hotel, o in impossibili minigonne mentre scendono le scale del lurido sottopasso della piazza sul porto, o con drastiche scollature sulla schiena mentre aspettano l’autobus alla fermata sulla Okeansky Prospekt. È raro incrociare una ragazza in età da marito ordinariamente vestita a Vladivostok.
Ma la tipica reazione di un occidentale è la solita: siamo in un paese disgraziato, impoverito, dove tutto è in vendita per pochi rubli. Sarebbe un’opinione egocentrica e provinciale. Non ci si accorge che queste ragazze stanno lottando disperatamente fra loro per i pochi mariti ancora disponibili.
Basta guidare due ore all’interno, nei villaggi senza luce né gas, dove il baratto è la norma, lo spaccio è un camion che passa una volta la settimana e l’arretratezza sottolinea la fragilità delle radici russe nel Far East, per capire cosa tutto questo possa significare. A Laylici, un ex sovkhoz situato fra la Transiberiana e la frontiera, centinaia di cinesi hanno sposato le donne russe a cui venne intestata la terra nelle privatizzazioni del 2004. Le autorità di Vladivostok continuano a complicare le pratiche per i permessi dei nuovi coloni, ma tutti si sono accorti che dove lavorano loro il suolo produce più soia e più grano.
Di là dal fiume c’è una nazione che secondo il National Intelligence Council, l’agenzia statunitense che controlla la Cia e l’Fbi, nel 2030 dovrà importare quantità di cereali pari all’intero export globale di oggi. Di qua, fra i contadini che vivono ancora come ai tempi degli zar, si trova una superficie ­vasta, irrigata naturalmente dalla neve e dalle piogge, ma coltivata male e per meno di un terzo della sua estensione uti­lizzabile.
Soprattutto, c’è una distesa potenzialmente in vendita a venti ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. A due passi dalla stazione finale della Transiberiana
  3. 2. Durante la guerra, lavoravano in una fabbrica oltre il Fiume Rosso
  4. 3. Sotto le case a palafitta, vicino al Mar cinese meridionale
  5. 4. Le antenne paraboliche nei giardini di Bogyeke Ywa
  6. 5. Interludio: quattro navi da guerra del Bangladesh
  7. 6. Il Buriganga è un’arteria vitale di Dhaka
  8. 7. Nel centro di Doha, il semaforo umano aveva appena cambiato turno
  9. 8. Alla confluenza fra il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro
  10. 9. In fondo a un vicolo dissestato, alla periferia di Tirana
  11. Ringraziamenti