1915. Cinque modi di andare alla guerra
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1915. Cinque modi di andare alla guerra

  1. 20 pagine
  2. Italian
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1915. Cinque modi di andare alla guerra

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Si gioca sul filo delle settimane il destino dell'Europa, nell'estasi unanime delle folle che accompagna i soldati verso una guerra sentita come giusta e dovuta. L'Italia no, si divide e si lacera per mesi sul da farsi. Tengono banco gli interventisti; il fronte del no, anche se più numeroso, è sulla difensiva, ha perso la parola, è ridotto al silenzio. Ma chi vuole il conflitto? E perché? Di quali bisogni si fa interprete? Cosa cerca Renato Serra, raffinato intellettuale, tra i primi a partire e a morire, che non crede nella guerra come soluzione politica ma non vuole rinunciarvi come esperienza umana? Cosa ha a che vedere con lui il futurista Filippo Tommaso Marinetti che canta la bellezza maschia e vitale della 'guerra-festa', della sfida alla morte e del 'glorioso massacro'? O l'appassionato Cesare Battisti, geografo trentino, deputato socialista, idealmente per la pace, ma irredentista convinto, fino a pendere da una forca austriaca? È il 'treno della Storia' che sta passando e non si deve perdere, non importa dove conduca, chi è giovane e vivo non può non montarci al volo, si vedrà poi dove arriva: sono queste le ragioni di Benito Mussolini, il convertito alle armi? E come può farsi scappare un'occasione del genere Gabriele D'Annunzio, l'eccessivo, il plateale, l'onnivoro poeta vate, carico di minacce per Giolitti e la sua 'Italietta bottegaia' che osa 'trescare' a favore della neutralità, lui volontario cinquantenne, deciso a vivere una clamorosa guerra 'corsara'?

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858105290
Argomento
Storia

1915. Cinque modi di andare alla guerra

di Mario Isnenghi

Si sarà capito già dal titolo che il taglio del discorso è un taglio particolare, solo uno degli approcci possibili alla Prima guerra mondiale: gli intellettuali, addirittura gli uomini di lettere. Non sarà dunque un discorso di storia economica, come pure avrebbe potuto essere, essendo una lettura importante rispetto a un fenomeno come una guerra. E che guerra. Mi sono servito invece di queste ‘spie’ che sono gli uomini di lettere rispetto a quel grande fenomeno. Però, tenete presente come è nata l’Italia: nel primo Ottocento, chi l’ha pensata? Chi sono stati i primi a pensare l’Italia come nazione? Sono stati i letterati: Ugo Foscolo, i Sepolcri, nomi che rimandano anche alle nostre nozioni scolastiche. La prima grande storia dell’Italia ottocentesca qual è? È la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis. De Sanctis era stato nel Quarantotto sulle barricate, è deputato, è ministro ed è il grande storico della letteratura italiana. Vuole il caso, ma forse il caso non è tale, che appunto il primo bilancio d’insieme, al termine dell’età risorgimentale, nel 1870 – questa è la data dell’opera –, sia appunto un bilancio d’ordine letterario, perché in fondo l’Italia c’è perché ci sono stati la sua letteratura, e l’arte, e le cattedrali, e i cieli azzurri, da secoli lo sapevano e proprio questo cercavano i turisti acculturati che venivano a fare il loro viaggio in Italia. Questa struttura permanente dell’europeo in Italia all’inizio dell’Ottocento si politicizza e il viaggio in Italia diventa un viaggio politico in Italia, di cui la spedizione di Sicilia nel 1860 sarà soltanto l’esemplare più riuscito, ma ce n’erano stati tanti.
Ecco perché quando ci serviamo degli intellettuali, e in particolare degli uomini di lettere del primo Novecento, per capire qualche cosa dell’autocoscienza degli Italiani, non facciamo nulla di improprio rispetto alle dinamiche del nostro paese, che sono proprio queste: gli uomini di lettere hanno pensato l’Italia, certo non l’hanno poi fatta da soli, però hanno cominciato a costruirla nella coscienza propria e degli altri.
Ebbene, i giovani che fanno le riviste come «La Voce», la più famosa di tutte, all’inizio del Novecento, e «Il Leonardo», e «Il Regno», e «L’Unità», e «Lacerba», e «Poesia», che è la rivista di Marinetti, questi, che hanno in genere tra i 20 e i 30 anni, pensano diversamente l’Italia. «L’Italia così com’è non ci piace», dice uno di loro, esprimendo un disincanto generazionale che è di molti altri. E quest’uno è Giovanni Amendola. Amendola, il futuro capo dell’Aventino, dopo il delitto Matteotti del 1924, ma prima redattore del «Corriere della Sera», ministro delle Colonie e prima ancora redattore delle riviste, filosofo di formazione e non letterato: «L’Italia così com’è non ci piace». Si tenga presente che nel 1909 Luigi Pirandello, più anziano di loro, scrive quel romanzo storico e contemporaneo, un vero segnale d’epoca, che è I vecchi e i giovani, dove i giovani sono proprio questi, i giovani delle riviste a cui «non piace» l’Italia, e i vecchi non sono neanche tanto vecchi, sono quelli che hanno fatto a tempo a fare il Risorgimento. Adesso, chi è ancora vivo, tra i 60 e i 70 e più anni, si occupa di realizzare i musei del Risorgimento, e di ripensare, di coltivare il passato. Nel 1911 c’è il cinquantenario dell’Unità, quindi ci sono tante cose che i vecchi stanno facendo, ma intanto – come spesso avviene nel succedersi delle generazioni, stavolta però in maniera precipua e rovinosa – i giovani gli sfuggono; così come c’è Giolitti, che è l’uomo politico centrale, tanto che parliamo di età giolittiana, e anche a lui, però, i giovani sfuggono, gli intellettuali sfuggono, si sottraggono alla sua presa egemonica.
C’è Giolitti, c’è il giolittismo, c’è il suo pragmatismo, la sua concretezza, è un momento relativamente florido e di progresso per la storia d’Italia in senso lato, ma c’è anche un controcanto critico degli intellettuali e in particolare della generazione dei giovani, questo basso continuo, questo diniego inquietante: «L’Italia così com’è non ci piace».
Che fa il pragmatico Giolitti per fargliela piacere un po’ di più? Fa la guerra di Libia, o la lascia fare. Viene pensata e voluta non tanto dai capitalisti, che cominciano sì a esserci, ma che probabilmente non avrebbero la forza di imporre una guerra coloniale, quanto dal pensiero nazionalista che comincia a serpeggiare, anche se la neonata Associazione nazionalista è numericamente poca cosa; però il clima si va modificando in questo senso, è una delle tensioni che ci porterà verso la guerra.
Da una parte Giolitti fa questo. Siamo nel 1911-12, è la guerra di Libia. Dall’altra, nello stesso 1912, c’è la legge elettorale nuova e nel 1913 le prime elezioni politiche a suffragio universale maschile. Cose grosse, tutte e due. Il regista Giolitti cerca di tenere insieme la società italiana in questa maniera, un colpo al cerchio e un colpo alla botte, ponendosi sempre al centro di opposte tensioni. È forte Giolitti: non per niente parliamo di età giolittiana. Ma parliamo anche di età delle riviste, ed è la stessa età – un po’ meno del primo quindicennio del secolo – e si divaricano le speranze dei giovani delle riviste, questo nuovo strumento per esserci, farsi vedere, cercar di contare: 1.000, 2.000 copie, 3.000 copie, di questo si tratta. È l’epoca ancora delle minoranze, delle élites, come si chiamano con un termine francese proprio allora dottrinariamente in auge. Le riviste sono quindi pensate dagli e per gli ufficiali, diciamo così, della società civile, quegli stessi che qualche anno dopo saranno gli ufficiali, in senso militare questa volta, gli ufficiali di complemento naturalmente e non di professione, giunti ormai ai 30 anni. Piero Jahier, che era stato redattore della «Voce», ha 32 anni, dunque non è di leva. È un richiamato, non lo mandano in prima linea, e scrive quel suo libro intenso e caratterizzante che è Con me e con gli alpini, nel 1916, quando è ufficiale che istruisce le truppe, gli alpini. Ebbene, nell’estate del 1914, repentinamente, la pace della belle époque è rotta e scoppia la guerra europea. Nel giro di poche settimane, letteralmente, quasi di pochi giorni, buona parte dell’Occidente europeo – e non solo l’Occidente, c’è di mezzo anche la Russia degli zar – si ritrova in guerra, con una concatenazione rapidissima di eventi, di dichiarazioni di guerra, di mobilitazioni.
E l’Italia? L’Italia dal 1882 fa parte della Triplice Alleanza, cioè è alleata della sua nemica, è alleata dell’Austria. Perché quando Crispi, nel 1882, ha voluto rinforzare la posizione internazionale dell’Italia, ha cercato l’alleanza della Germania e di conseguenza – meno volentieri – dell’Austria. Difficile: non era finito da tanto tempo il Risorgimento, il processo di unificazione non veniva considerato compiuto, Trento e Trieste non facevano ancora parte dell’Italia, e saranno la bandiera dell’irredentismo e della cosiddetta quarta guerra d’indipendenza, se possiamo considerare la Prima guerra mondiale la quarta guerra d’indipendenza. Se, ma la risposta è no. Però si possono vivere delle situazioni sbagliando gli accenti, e quindi non pochi italiani hanno vissuto la guerra del 1915-18 come se davvero fosse la guerra d’indipendenza, la conclusione del Risorgimento.
Questo non è avvenuto alla maggior parte degli intellettuali che avevano fatto le riviste, che avevano già dimostrato di sentirsi lontani da quell’ormai polveroso mito delle origini, ma succede ad altri. Allora cerchiamo di allargare lo sguardo.
Non prima di leggere una brevissima, ma credo illuminante, citazione che ci viene dall’immediato dopoguerra, da uno di questi uomini di lettere che pure si erano impegnati a dar senso alla guerra. È il siciliano Giuseppe Antonio Borgese, attivo nella propaganda di guerra, in particolare sul piano internazionale, cioè dell’immagine dell’Italia all’estero. Subito dopo la guerra scrive un romanzo penetrante, di rappresentazione dello stato d’animo con cui lui e tanti altri hanno fatto la guerra. Si intitola Rubè, dal cognome del protagonista, e lì c’è una frase rivelatrice e inquietante: «Ciò che era appassionante era la guerra soltanto per sé considerata. Si prendeva d’accatto un motivo qualunque». Si prendeva d’accatto un motivo qualunque? Dura, per chi, invece, si era immedesimato in uno dei motivi pensando che fosse quello vero, umanamente, esistenzialmente, politicamente vero, come coloro che pensavano di fare la guerra per la liberazione di Trento e Trieste. Ma sentite quello che dice Marinetti, il futurista Marinetti, negli stessi mesi in cui Borgese, subito dopo la guerra, ha detto quello che ha detto. Dice Marinetti: «Si trattava solo di verniciare i propri istinti sanguinari con nuovi ideali». Così: i propri istinti sanguinari. Naturalmente milioni di soldati semplici, di ufficiali di complemento si sarebbero rifiutati di vedere se stessi come portatori di «istinti sanguinari». Eppure una guerra, una grande guerra si fa anche e perché gli istinti sanguinari dentro l’uomo ci sono, o ci possono essere, e sono mobilitabili, e si può renderli funzionali a una causa. Quale causa?
Il titolo del mio intervento promette cinque modi per entrare in guerra, sullo sfondo del fatto che non è che tutta l’Italia e tutti gli Italiani volessero entrare in guerra. Se ne discute, anzi, con passione e divisioni profonde per ben dieci mesi. Gli altri paesi si ritrovano in guerra in poche settimane già nell’estate del 19141. Noi siamo abituati a parlare della guerra del 1915-18. Un po’ provinciale. Però corrisponde anche a uno dei modi di viverla, la nostra guerra, altra frase d’epoca, piena di immedesimazione e quasi affettuosa; oppure, la guerra del ’15, altra espressione memorabile. Rivelatrici, tutte queste frasi fatte, dell’idea cioè di una guerra degli Italiani dentro la guerra europea, approfittando della situazione politico-militare che le circostanze hanno creato. Noi ci mettiamo dentro e risolviamo certi nostri problemi, e vedremo quali. Cinque modi di entrare in guerra, e tutti e cinque i miei personaggi sono presenti nei grandi ritratti fotografici che accompagnano il discorso: Battisti, Marinetti, D’Annunzio, Renato Serra, il futuro duce Benito Mussolini. Li ripercorrerò uno per uno, ma è importante sapere bene che metà del paese, a dir poco, avrebbe preferito la pace, cioè la conservazione della neutralità. Erano i neutralisti. Perché dico metà del paese? Perché sono quei liberali che si riconoscono ancora in Giolitti, che è stato capo del governo per tanti anni e mantiene una grande influenza, ma ha commesso l’errore di non essere presidente del Consiglio proprio quando scoppia la guerra. Al suo posto c’è Salandra, e Salandra è uno dei due leader della destra liberale, cioè un antagonista di Giolitti dentro allo stesso partito, quel Partito liberale che governa l’Italia dal 1861 al 1922. Il re aveva offerto il posto a Sonnino – Sidney Sonnino era il leader della corrente conservatrice –, Sonnino indica lui stesso Salandra, ed ecco, c’è la guerra, e Salandra è in sella. Il suo ‘governicchio’ è chiamato a grandi scelte: accanto a lui, all’inizio, il ministro degli Esteri è Di San Giuliano, poi nell’autunno del 1914 muore, Sonnino lo sostituisce e sarà il ministro degli Esteri nei tre governi di guerra italiani. Bisogna districare l’Italia dalla Triplice Alleanza e poi riposizionarsi sul piano internazionale; ci vogliono dei mesi prima dell’entrata in guerra anche per questa ragione: che fare? Trattare? Ma su un fronte o su tutti e due? Agitando quali moventi e valorizzando quali scopi di guerra? All’insegna del «sacro egoismo» – mediocre motto salandrino – i governanti italiani tratteranno con tutti e due i blocchi, mentre la piazza interventista ha scelto da subito la sola guerra possibile, a fianco dell’Intesa e contro gli Imperi centrali.
Oltre ai liberali neutralisti – i giolittiani –, si possono considerare neutralisti, cioè propensi alla conservazione della pace, quelli che un po’ all’ingrosso e approssimativamente si chiamano i cattolici, perché non c’è ancora un loro partito di riferimento. Un po’ sono amici dell’Austria – ordine, tradizione, religione –, un po’ seguono il comandamento che dice «Non uccidere». Le guerre si fanno lo stesso, ma quello etico-religioso è un lato della questione. E poi ci sono i socialisti, c’è il Partito socialista, che ha presa notevole fra le classi popolari. Queste sono le tre grandi famiglie politico-culturali che vorrebbero mantenere la pace, eppure non ...

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