1864. L’Italia a Firenze
di Raffaele Romanelli
Il 19 novembre 1864, con 317 voti a favore e 70 contrari, la Camera subalpina votò la legge riguardante il trasferimento della capitale del Regno d’Italia a Firenze.
Trasferire una capitale è un gesto forte, che segna una fondazione, o una rifondazione di un corpo politico. Torniamo ai libri di scuola, e pensiamo al significato che assume, con Costantino, la traslazione del centro dell’Impero romano-cristiano da Roma a Bisanzio, e poi all’abbandono della città di Costantino – che per tanti secoli era stata la città non del cristianesimo d’oriente ma del sultano – da parte dei nuovi turchi che nel secolo XX trasferiscono la loro capitale dalle rive del Bosforo agli altipiani anatolici, ad Ankara. O pensiamo a Madrid, fondata come affermazione sull’antico policentrismo statale, o a San Pietroburgo, o a Washington, e in tempi più recenti a Brasilia, o a Islamabad. Tutti gesti di forte significato politico, strategico, culturale. Oppure, per avvicinarci al nostro tema, pensiamo ai tanti significati che si vollero attribuire al trasferimento della capitale a Roma, nel 1871, occasione, si disse, di un rinnovamento della Chiesa, o della fondazione di una «terza Roma», capitale della scienza e della modernità, dopo la Roma dei Cesari e la Roma dei Papi.
Ecco, il trasferimento della capitale a Firenze non ebbe nulla di tutto ciò. Chi si aspettasse che nel 1864 si parlasse molto di Firenze, si evocassero le sue virtù repubblicane, o il significato che avrebbe avuto l’insediamento della capitale del Regno in una città d’arte e di cultura, di Giotto e Cimabue, per non dire di Dante e Boccaccio, e si parlasse del Rinascimento, di Brunelleschi e di Lorenzo il Magnifico, insomma di quel Pantheon, di quel pot pourri che gli italiani sono abituati ad associare al nome di Firenze, si sbaglierebbe.
Il dibattito sulla stampa e in Parlamento fu ampio e di alto livello, ma Firenze fu raramente nominata. Di cosa si parlò allora? Più che di Firenze, si parlò soprattutto del significato da attribuire alla decisione in quel momento. E dunque anche noi, prima di parlare di Firenze dobbiamo preparare la scena, perché è su quello sfondo che si potrà tracciare il profilo di Firenze capitale.
Fatta l’Italia pochi anni prima, il 25 marzo 1861 era stato votato un solenne ordine del giorno nel quale si manifestava la fiducia che «Roma, capitale acclamata dall’opinione nazionale, sia congiunta all’Italia». Il che auspicabilmente avrebbe dovuto farsi in accordo col pontefice. Il problema era che il pontefice era nemico acerrimo di ogni libertà e di ogni spirito nazionale. E a Roma, a sua difesa, stazionavano le truppe francesi. C’erano, quelle truppe, fin dal 1849, quando a spengere nel sangue la repubblica romana erano arrivate le truppe della giovane repubblica di Francia. Guidati da Garibaldi, gli uomini migliori del patriottismo italiano si erano battuti come leoni per difendere la repubblica. Ma erano stati sopraffatti.
Garibaldi era dovuto fuggire con 5000 uomini, i francesi erano rimasti, e in Francia la repubblica era diventata un impero. Morto Cavour, i suoi successori, prima Ricasoli, poi Rattazzi, non avevano saputo far molto per ottenere Roma. Nel 1862 ci aveva riprovato Garibaldi, salendo di nuovo dal Sud, ma il governo di Torino, dopo averlo in qualche modo appoggiato gli aveva mandato contro le sue truppe sull’Aspromonte. Fu allora che Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba. A Rattazzi era succeduto Minghetti, liberale moderato, emiliano, buon cattolico, e fu lui nel settembre del ’64 a firmare con Napoleone III una convenzione in base alla quale i francesi avrebbero gradualmente ritirato le truppe da Roma e l’Italia si impegnava a non muovere contro Roma con la forza, con ciò facendosi garante del governo pontificio, sempre nella speranza di arrivare sì a Roma, ma in accordo col papa. Era inteso che a suggello di questo accordo la ...