II.
Come Cristo comanda
Una macchina perfetta
Maometto il Conquistatore aveva fatto dell’impero ottomano una macchina praticamente perfetta, che girava a pieno regime grazie alla scrupolosa preparazione del personale che innervava l’esercito e le istituzioni centrali. Con tanto di ricambi: qualsiasi ambasceria che si fosse recata nella sede imperiale avrebbe potuto incontrarvi frotte di ragazzini «rastrellati» dalle più svariate regioni e impegnati a compiere un puntuale apprendistato, dopo essere stati scrupolosamente selezionati in base alle singole attitudini fisiche e intellettive. Al reclutamento si provvedeva essenzialmente con il devşirme (dal turco devşirmek, «scegliere»), la coscrizione nei villaggi cristiani di giovinetti che venivano allevati secondo i costumi turchi e indottrinati alla religione islamica, per entrare nell’élite dell’esercito o per andare a comporre i quadri amministrativi e la guardia sultanale in qualità di Kapï-kullarï, «Servitori della Porta». Le commissioni incaricate di effettuare la leva operavano con cadenza quadriennale o quinquennale, selezionando di preferenza dei giovanissimi fra gli otto e i dodici anni, ma non disdegnando i ventenni. I prescelti sarebbero stati mantenuti a carico dell’erario e innestati in un rigoroso congegno di promozioni che premiavano le capacità individuali.
Esistevano due specifiche classi di allievi, a seconda che essi venissero avviati direttamente al servizio di corte o che alloggiassero, temporaneamente, presso delle famiglie turche dell’Anatolia, per lavorare la terra, assimilare i dettami dell’islamismo e migliorare la lingua. I primi, gli iç oğlanlar, i «ragazzi dell’interno», riuniti in accademie speciali, imparavano l’arabo (l’idioma della fede), il persiano (l’idioma dell’eleganza), la poesia, il parlare forbito, l’equitazione e la scherma, per predisporsi a entrare nei ruoli governativi; i secondi, gli acemi oğlanlar, i «novizi», reduci dal domicilio anatolico, rientravano nella capitale e frequentavano scuole in cui alla cultura di base era associato un tirocinio più spiccatamente militare. Per costoro era previsto l’arruolamento fra le milizie al servizio diretto del sultano oppure qualche impiego esclusivo, come quello del bostanci, il «giardiniere», membro delle guardie di palazzo il cui capo, il bostancibasi, era responsabile dell’esecuzione di persone altolocate.
Contrariamente all’interpretazione che ne veniva data in Occidente, il devşirme non costituiva un’istituzione spietata o un’umiliazione da infliggere ai non musulmani, né i coscritti venivano arruolati per andare a soddisfare gli appetiti sessuali dei sultani, come si pubblicizzava nell’Europa cattolica: non di rado, anzi, erano gli stessi genitori a proporre i propri figli, per assicurare loro un posto nei più alti ranghi statali e beneficiare, in virtù della parentela, dei conseguenti vantaggi. Le singole carriere contemplavano ad ogni buon conto avanzamenti fondati sostanzialmente sul merito e sull’anzianità, nella composizione di una classe dirigente cui potevano teoricamente accedere tutti, senza distinzione censuale, etnica o religiosa: la mobilità sociale, diversamente dalle vecchie cristallizzazioni feudo-signorili dell’Europa, era un dato di fatto che rendeva più moderno il sultanato. Inoltre, qualora ne fosse stato riconosciuto il valore, Greci, Tedeschi, Ungheresi o Italiani avrebbero potuto ricoprire cariche di rilievo nei gangli dell’amministrazione, ovvero fruire di prebende ed entrare nel circolo di Maometto II (come il vicentino Giovanni Maria Angiolello, fatto prigioniero dai Turchi a Negroponte e divenuto in seguito uomo di fiducia del sultano, presumibilmente come defterdār, custode degli archivi imperiali). Avventurieri, galeotti, nobili e perfino religiosi, costretti a evitare una condanna o allettati da un’esistenza migliore, non esitavano a trasferirsi in Oriente: dal 1453 al 1623, su 48 gran visir (i «primi ministri») 33 saranno dei rinnegati.
Il rigore, l’impostazione meritocratica e l’apertura internazionale si scioglievano peraltro in una dedizione totale alla maestà imperiale. Il Gran Turco era venerato e disponeva della vita e della morte di ciascun suddito. Intorno a lui i cerimoniali erano scanditi cronometricamente da eunuchi che organizzavano le mansioni ministeriali, smistavano i paggi, assumevano o licenziavano gli inservienti e, all’occorrenza, erogavano sanzioni corporali, dalle semplici bastonate o dalle frustate fino all’impalamento e alla decapitazione. I sorveglianti dell’has oda erano addetti continuativamente alla vigilanza della dimora, dell’abbigliamento e delle armi del sovrano, il quale veniva da loro supportato nel portare la spada, nel montare a cavallo e nel redigere atti pubblici o lettere private. Altri tre ministeri si occupavano rispettivamente dell’erario, delle scorte alimentari e, naturalmente, delle guerre, che a Oriente come a Occidente ingrandivano o consolidavano un dominio vasto e composito. La sorveglianza si estendeva all’harem, precluso agli estranei, comprendente centinaia di donne che all’arte erotica abbinavano una profonda educazione alla musica, alla danza, al ricamo, alla conversazione e al teatrino dei pupazzi: e dal gineceo di un sultano potevano anche passare quelle ragazze che come Mara, la figlia del despota serbo Giorgio Branković, costituivano merce di scambio nelle contrattazioni diplomatiche.
Nello sforzo di congegnare un impero unitario e funzionale, teso a irrobustire le fondamenta di un potere dal respiro neo-giustinianeo e neo-universalistico, il Conquistatore di Costantinopoli aveva impresso una forte centralizzazione allo sviluppo dello Stato ottomano. Dal di fuori, negli ambienti europei, la svolta accentratrice sarà vista come una forma di assolutismo, quasi come una tirannide che, per uno stereotipo negativo di lunga durata, nutrirà la nozione di «sultanismo» utilizzata da Max Weber per definire le peculiarità dell’egemonia ottomana. In realtà, il Fatih si prefiggeva di governare al meglio un territorio sempre più ampio, col proposito di integrarvi le popolazioni conquistate e, insieme, di ridimensionare il peso politico della vecchia e privilegiata aristocrazia gazi, che era stata protagonista dell’espansione turca e che, ostile ai cambiamenti, minacciava di intralciare l’imperatore. La stessa idea di un sultanato che si riallacciasse alla romanità, e che quindi comportasse l’assunzione di un’identità estranea ai costumi turchi, provocava il risentimento di un consistente pezzo della nobiltà turco-musulmana.
Nondimeno Maometto II, pur essendo consapevole di ingenerare il malcontento dei conservatori, era andato per la sua strada: aveva confiscato le proprietà e le rendite fondiarie concesse dai precedenti sultani ai nobili, alle fondazioni religiose e alle confraternite di dervisci; aveva statalizzato diversi istituti monastici islamici; aveva legato a sé la burocrazia delle province; aveva provveduto a un riequilibrio demografico deportando popolazioni dall’una all’altra regione dell’impero; e aveva istituzionalizzato il cosiddetto sistema delle «nazioni religiose», che oltre all’islam sunnita dei Turchi riconosceva pienamente i principali culti e ne autorizzava la libera estrinsecazione. A beneficiarne erano stati innanzitutto i Greci ortodossi, seguiti dagli Armeni e dalla popolazione ebraica. Già al suo ingresso in Costantinopoli, il Fatih aveva accordato grandi poteri al patriarcato cristiano-ortodosso, in evidente contrapposizione al papa di Roma, capo spirituale del cattolicesimo occidentale.
L’integrazione religiosa si abbinava a un’eterogeneità culturale che induceva filosofi curdi, scienziati persiani e geografi africani ad amalgamarsi con dignitari dalle ascendenze più disparate, in un rigoglio di discipline teologiche e filosofiche che venivano ampiamente coltivate nei centri del sapere, dove circolavano gli scritti del dotto islamico Mullah Hüsrev e dello scienziato iracheno al-Fanari. Uno dei cardini scientifici era lo studio della matematica, primario fra i Turchi in quanto, fra l’altro, sostanziava la formazione dei celebri giannizzeri (dal turco yeniçeri, «nuovo esercito»): il fior fiore della milizia, puro prodotto del devşirme, era difatti composto da personale istruito alla guerra non meno che alle scienze, alle arti e alle buone maniere. La particolarissima preparazione e la consapevolezza dell’ufficio permeavano ogni giannizzero di un’aura quasi sacrale, avvolgendolo di misticismo. Un inconfondibile abbigliamento, comprendente caffettani spumeggianti di vario colore e un altissimo copricapo bianco e piumato, con falda ricadente sulle spalle, distingueva tutti gli appartenenti a una casta guerriera che, curiosamente, nella denominazione gerarchica, ricalcava la terminologia del desco familiare: l’insieme del corpo, ad esempio, era chiamato «focolare», il capo di reparto era «colui che serve la zuppa», e il simbolo della compagnia erano le marmitte, in una sequenza di insegne che presumibilmente sottintendevano significati reconditi o iniziatici, interpretabili esclusivamente dai commilitoni.
Nella simbologia giannizzera, una pentola che giaceva rovesciata al centro dell’accampamento dava il segnale della rivolta: e infatti, dalla elevata istruzione e, dunque, da un’esaltazione delle capacità intellettive potevano discendere, al di là di un ferreo indottrinamento, delle prese di posizione nette e delle dure contrapposizioni alle derive dei poteri statali ritenute pregiudizievoli per la società. Di conseguenza, il peso politico del corpo diverrà, nei secoli, sempre più ingombrante, anche per gli stessi sultani (e fino alla sua definitiva abolizione nel 1826). Ma intanto, negli ultimi decenni del Quattrocento, l’eccellenza dell’addestramento e la razionalità nella distribuzione dei compiti – in base a vocazioni o competenze personali – facevano di ciascuno dei diecimila giannizzeri a disposizione di Maometto II uno strumento formidabile per le conquiste militari e la gestione delle province ottomane. Con una forza del genere, il Conquistatore di Costantinopoli non poteva temere rivali.
La guerra di Dracula
Eppure, c’era stato qualcuno capace di contrastare efficacemente e a lungo il Fatih. Un capitano indomito, un condottiero coraggioso e spietato, che aveva guerreggiato con i Turchi legando una fama sinistra al proprio nome: Dracula. Era il principe valacco Vlad III, del ramo dei Draculesti, fondatore della città di Bucarest e noto con il sintomatico appellativo di Ţepes, «Impalatore». Da bambino, assieme al fratello piccolo Radu, detto «il Bello», era stato consegnato ai Turchi a garanzia dell’alleanza fra il padre Vlad II, voivoda di Valacchia, e il sultano Murad II (1421-1451), genitore del futuro Conquistatore di Costantinopoli.
Era un’usanza già largamente adottata dagli imperatori bizantini: l’integrità fisica degli «ospiti» era appesa a un filo e dipendeva ovviamente dalla coscienza o dalla volontà dei padri, che spesso abbandonavano al proprio destino la prole «di scarto», quella a cui non erano particolarmente affezionati, tenendo per sé i figli che ritenevano più adatti alla successione. In caso di tradimento, i rampolli affidati alle cure ottomane avrebbero potuto essere imprigionati, torturati, accecati o uccisi: ed effettivamente, per qualche tempo, l’ambiguità dei rapporti fra il voivodato e il sultanato aveva costretto i piccoli Vlad e Radu ad una prigionia tutt’altro che dorata. In seguito, però, con la ricomposizione dei dissidi, gli ostaggi erano stati aggregati all’entourage sultanale, familiarizzando con funzionari, artisti e personalità d’elevato lignaggio, prendendo coscienza della schiera interminabile di consiglieri, guardiani, cortigiani, mercanti, poeti, musicisti, cuochi, assaggiatori, falconieri, stallieri, portabandiera, artiglieri, costumisti e lavandai votati tutti quanti a servire il sultano e a farsi ingranaggio dei meccanismi imperiali.
Vlad, in particolare, era entrato in confidenza col coetaneo Maometto: insieme all’erede al trono aveva approfondito l’etichetta e le regole della diplomazia sultanale, aveva studiato varie lingue e aveva celebrato la comune iniziazione ai piaceri della carne. L’amicizia si era nutrita della compartecipazione a banchetti e baldorie, a ricevimenti ufficiali e a scherzi adolescenziali. I due amici avevano condiviso tanto le carezze di cortigiane licenziose quanto le ammonizioni – talora commutate in punizioni – di pedagoghi inappuntabili: il Fatih era stato infatti un ragazzino un po’ bizzarro e restio all’apprendimento, al punto che i suoi precettori avevano dovuto invogliarlo a studiare usando le maniere forti. Il carattere scorbutico e la giovanile refrattarietà ai doveri istituzionali s’erano manifestati non soltanto allorché, a dodici anni, gli era stata affidata la reggenza della Rumelia, ma soprattutto quando Murad II s’era spinto ad abdicare, per agevolare la successione del figliuolo. Era il 1444: appena un biennio, e il vecchio sultano era stato obbligato a tornare in carica per una rivolta dei giannizzeri, che avevano in odio l’inettitudine di Maometto.
All’apparente dappocaggine il principe ottomano era parso sommare una sessualità equivoca, sfuggente, che verrà successivamente e violentemente riversata su Radu il Bello, il più giovane e indifeso dei principini romeni. Il racconto che del torbido rapporto fa Laonico Calcondila, cronista bizantino del XV secolo, è esplicito:
Innamorato del bambino, Maometto lo invitava all’intimità, brindava alla sua salute, lo invitava nel suo letto. Ma il bambino, meravigliato da un simile comportamento, non voleva assolutamente che Maometto gli mettesse le mani addosso, e si dibatteva, rifiutando le sue insistenti richieste. Siccome Maometto non frenava il proprio istinto e continuava a baciarlo, Radu prese un coltello, gli inflisse un profondo taglio a una coscia e andò a nascondersi su un albero. I medici curarono la ferita, e il giovinetto scese dal suo nascondiglio solo quando Maometto si fu allontanato. In seguito, il bambino ritornò al palazzo imperiale, diventando il favorito [di Maometto].
Ma se Radu avrebbe trascorso molto altro tempo alla corte ottomana, assecondando pian piano le blandizie di Maometto e divenendone compagno diletto, Vlad Dracula sarebbe invece tornato in Valacchia per assumerne lo scettro e difenderla dalle ingerenze esterne: comprese quelle dei Turchi, che premevano ai confini danubiani. Ne deriverà un conflitto aspro e senza esclusione di colpi, un faccia a faccia estremo ed esiziale fra compagni d’adolescenza.
Nell’estate del 1462, Maometto il Conquistatore aveva difatti radunato fra i 70.000 e i 90.000 uomini per muovere guerra ai Valacchi. Venticinque grosse triremi e centocinquanta battelli ausiliari erano stati associati alla più poderosa armata mai schierata dopo la presa di Costantinopoli, tre volte più grande dell’esercito valacco. Il Danubio era stato varcato dai soldati turchi con lo strascico usuale di fabbricanti e riparatori d’armature, di arrotini che tenevano in efficienza lame e punte di spade e lance, di medici, farmacisti, fornai, cucinieri, sarti e donne deputate a regolare le pulsioni maschili. Era una massa di persone che avrebbero dovuto pur bere, pur mangiare. Ma sulla loro strada avevano trovato il nulla. Non cibo, non acqua e tanto meno persone da soggiogare o schiavizzare, giacché anziani, donne e fanciulli erano stati messi al riparo nelle impenetrabili selve valacche. In una settimana di marcia, tutto ciò che gli invasori avevano potuto incontrare erano stati borghi e villaggi svuotati, carcasse di bestie che irrancidivano nell’afa, raccolti inceneriti, fonti avvelenate, paludi allagate artificialmente, acque putrescenti e buche funeste che celavano l’insidia di tronchi appuntiti. Gli esploratori ottomani in avanscoperta avevano osservato pianure bruciate dal sole e punteggiate da abitati silenti, immoti. Le armate di Maometto II si erano addentrate in un lago di arsura abbacinante, popolato dai fantasmi della siccità. Di giorno, sugli scudi roventi, si erano potute cuocere senza fiamma le residue porzioni di carne trasportate dai carriaggi. Finanche gli arruolati africani o centro-asiatici, pur avvezzi ai deserti, avevano sofferto per le labbra completamente riarse.
La penuria d’acqua potabile, le miriadi di insetti infettanti, le temperature insopportabili avevano sfibrato la truppa e innervosito i comandanti. Lo strazio era stato moltiplicato dagli assalti dei plotoni valacchi che sbucavano all’improvviso dalle radure boschive, o che schizzavano fuori dai canneti degli acquitrini per trucidare quei militi turchi che la virulenza delle epidemie aveva lasciato, spossati, nelle retrovie. Malaria e agguati si erano accavallati. Contagi e colpi di mano si erano reiterati: nel fronteggiare Maometto II, Dracula aveva combattuto facendo dell’altrui forza una debolezza, approfittando della calura estiva che aveva drammaticamente accresciuto i bisogni e le pene delle decine di migliaia di bocche da sfamare e dissetare.
Boschi, paludi, oscurità, melma, sentieri che si aggrovigliavano nelle foreste e nascondigli di canneti e fanghiglia, sconosciuti a chi non fosse del posto, erano stati gli alleati migliori dei Valacchi: l’esercito turco, pesante, voluminoso, si era impigliato coi suoi carriaggi nelle boscaglie, era sprofondato coi ...