Chi ha sbagliato più forte
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Chi ha sbagliato più forte

Le vittorie, le cadute, i duelli dall'Ulivo al Pd

  1. 276 pagine
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Chi ha sbagliato più forte

Le vittorie, le cadute, i duelli dall'Ulivo al Pd

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"Chi vincerà? Ci vuole un cambiamento di costume, culturale. Vincerà chi capisce che il gioco è cambiato e che bisogna farne uno completamente nuovo. Ci volevano un altro tipo di persone, un altro modo di fare politica. Un'altra solidità, un altro rigore. Un'altra integrità." Nanni MorettiDal sogno della Canzone popolare di Ivano Fossati, l'inno dell'Ulivo, ai centouno che a volto coperto hanno eliminato Romano Prodi dalla corsa per il Quirinale. Dalla democrazia dei cittadini alla palude delle larghe intese. È il risultato di una guerra civile a sinistra durata vent'anni. Una catena di ambizioni personali, rivalità tra capi, logiche di conservazione degli apparati che ha spezzato la speranza di un partito nuovo e ha condotto a sconfitte disastrose. Una debolezza culturale, istituzionale, perfino etica, che si è conclusa con una catastrofe. Questa è la prima storia del centrosinistra della Seconda Repubblica, in presa diretta. Un diario personale e politico. Con le voci di quattro protagonisti, Romano Prodi, Massimo D'Alema, Walter Veltroni, Arturo Parisi, e di un testimone d'eccezione, Nanni Moretti. Le vittorie, le cadute, i duelli. I leader e i personaggi minori, le loro debolezze e i voltafaccia, le rivelazioni di un traditore. Ma anche il racconto del popolo dell'Ulivo, che si muove come un fiume carsico e irrompe a sorpresa. I movimenti, i girotondi, le file ai gazebo delle primarie che spesso capovolgono i risultati già scritti: un'incredibile riserva di passione e di militanza nei tempi delle appartenenze liquide e dell'anti-politica crescente. Il ritratto di una, due generazioni che non ci stanno a farsi tradire da chi ha sbagliato più forte.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788858110539
Argomento
Economics

Capitolo 1.
Il giorno degli sciacalli

Come si progetta, si realizza e si porta a termine un omicidio (politico)? Quello della vigilia di Natale del 1971 resta uno dei più riusciti, e anche dei più dimenticati. Martedì 21 dicembre, San Tommaso Apostolo, annotò scrupolosamente il notista della “Stampa” Vittorio Gorresio, quattro ambasciatori della Dc (in ordine alfabetico, li elencò Gorresio: Andreotti, Forlani, Spagnolli e Zaccagnini) bussarono a casa del senatore Giovanni Leone, malato di bronchite, la voce roca, qualche linea di febbre, a comunicargli che l’assemblea dei grandi elettori democristiani lo aveva designato come candidato ufficiale alla presidenza della Repubblica, a voto segreto. Il senatore era già stato informato da una telefonata del deputato comunista, napoletano come lui, Giorgio Amendola: «Noi e i compagni degli altri partiti di sinistra non ti possiamo votare. Sei sicuro di volerti esporre?». Leone, 63 anni, senatore a vita, accettò e diventò sesto presidente tre giorni dopo al ventitreesimo scrutinio, con 518 voti, appena quattordici in più del quorum necessario, con la destra post-fascista determinante, il Movimento sociale di Giorgio Almirante. «Sono stato eletto il giorno dopo Santa Vittoria, mi porterà fortuna», si fece coraggio con la moglie.
Tempo dopo, quasi per distrazione perché i protagonisti avevano sempre evitato di parlarne, si apprese qualche dettaglio in più sulla riunione dei grandi elettori democristiani. Il candidato non era Leone. Dopo l’uscita di scena del presidente del Senato Amintore Fanfani, infatti, doveva entrare in gara l’altro cavallo di razza: Aldo Moro. In quel momento Moro, 55 anni, la frezza bianca che attraversava i capelli ancora neri come un guizzo di impazienza inusuale per lui, era ministro degli Esteri, ma non aveva incarichi di partito, anzi, si trovava in minoranza. Nel novembre 1968 era passato all’opposizione interna, in un discorso al Consiglio nazionale aveva sferzato i notabili della Dc con durezza sconosciuta: «un partito senza animazione ideale, senza esperienza storica, tutto preso da un confuso empirismo, immobile ed eguale, incapace di adoperare un criterio politico, per valutare e dominare situazioni nuove con animo nuovo». In quella stagione di imprevedibili cambiamenti e di tumultuose novità, Moro vedeva «l’ampliarsi delle attese e delle speranze, il travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità. Tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta come non mai. È il moto irresistibile della storia».
Parlava così l’uomo che quella sera di inverno del 1971 aveva sfiorato la candidatura al Quirinale. Fosse stato nominato dalla Dc, sarebbe stato poi eletto presidente con i voti di tutti i partiti della sinistra, Pci compreso. Enrico Berlinguer, il vice-segretario destinato alla successione di Luigi Longo, incontrandolo in gran riservatezza, gli aveva garantito i voti comunisti: «Non vogliamo nulla in cambio, è solo un atto di stima nei suoi confronti. Tutti i democristiani ci hanno chiesto i voti, tranne lui». E al Quirinale sarebbe arrivato il politico che meglio aveva interpretato la contestazione del 1968 e la reazione che aveva scatenato: la strage di piazza Fontana, la strategia della tensione, la presenza di una destra politica, economica, occulta che Moro conosceva per esserne diventato il bersaglio più ricorrente. «Flaccido e cascante come un piccolo visir cupo, funereo, ha sparso il suo cammino di cadaveri e rovine...», lo ritraeva “Il Tempo” di Renato Angiolillo, precursore dell’editoria berlusconiana della Seconda Repubblica. Uno iettatore, da eliminare.
Fu eliminato, infatti, dalla corsa al Quirinale. Fu nominato, invece, Leone «con uno scarto non rilevante e grazie all’appoggio quasi totale dei senatori», rivelò anni dopo Giulio Andreotti. E il sistema politico diede alle richieste di cambiamento una risposta di conservazione che avrebbe pesato negli anni Settanta. Cominciò la più debole e tormentata presidenza della storia repubblicana, conclusa, per la prima volta, con le dimissioni anticipate del capo dello Stato.
Moro, invece, di quel voto segreto dei suoi amici di partito contro di lui non parlò mai da uomo libero. Passeranno anni, si dovrà arrivare al 1978. Il presidente della Dc è ancora una volta il candidato più autorevole al Quirinale, per portare a termine dal Colle il suo capolavoro politico, l’accordo tra i democristiani e il Pci, quando viene rapito in via Mario Fani dalle Brigate rosse. E la mancata elezione al Quirinale del 1971 spunterà nel memoriale composto nei giorni del sequestro come un passaggio decisivo. E con una notazione sorprendente: «Alcune mie prese di posizione mi valsero ancora una volta (come già nel ’69) la qualifica di anti-partito, una posizione negativa registrata ed amplificata tra i gruppi parlamentari che giocò il suo ruolo, com’è naturale, decisivo ai fini della mia qualificazione personale per la carica di Presidente della Repubblica», scrive. «Tanto poco dominavo il partito che in questo caso fui battuto da altro eminente parlamentare [...]», ironizza. «Non ero depositario di segreti di rilievo né ero il capo incontrastato della Dc. Si può dire solo che in essa sono stato presente e ho fatto il mio gioco, per evitare una involuzione moderata della Dc e mantenere aperto il suo raccordo con le grandi masse popolari. Vincendo o perdendo. Anzi, più perdendo che vincendo».
Moro nel ’71 perde il Quirinale e vince la destra che si sbarazza dell’avversario più intelligente e temuto. Un leader importante, il più prestigioso anche se il più isolato, viene sacrificato: accusato di corteggiare l’anti-politica (giocò contro di lui «la qualifica di anti-partito»), lui che era «il capo di cinque governi, / punto fisso o stratega di almeno dieci altri, / la mente fina, il maestro / sottile / di metodica pazienza...», ritratto da Mario Luzi. Un omicidio (politico) che cambia il corso delle cose.
Sono le diciassette meno dieci, la campana maggiore di Palazzo Montecitorio comincia a rimbombare, scuote gli edifici intorno, fa tremare il selciato. Il cielo è color ferro, c’è una pioggerellina sottile, il freddo è più autunnale che primaverile, anche se è un lunedì 22 aprile. Un tempo, uno o due secoli fa, la campana serviva a richiamare il popolo romano all’estrazione dei numeri del lotto un giorno a settimana, oggi torna attiva ogni sette anni, celebra il giuramento sulla Costituzione del capo dello Stato appena eletto, alla conclusione di scrutini quasi sempre simili a una lotteria: nomi estratti a sorte, voti che ballano nel bussolotto.
La Repubblica italiana ha dunque un nuovo presidente, il dodicesimo dal 1946. La campana suona più forte, ora è quasi rock, le auto blu si fermano, quando le porte si aprono l’Eletto in cappotto scuro scende rapido dalla Lancia, nonostante l’età cammina a passi spediti verso il portone della Camera, forse vuole consumare rapidamente l’emozione, forse ha fretta di terminare il rito anche lui.
Giorgio Napolitano, 88 anni, è stato votato due giorni prima come capo dello Stato dal Parlamento e dai delegati regionali in seduta comune, con 738 voti su 997: un’elezione senza precedenti, il dodicesimo presidente è l’undicesimo, Napolitano è il primo inquilino del Quirinale a essere rieletto alla più alta carica repubblicana. Dovrebbe essere un giorno di festa, ma più che la soddisfazione pesa l’angoscia, lo spettacolo di un sistema politico obbligato ad aggrapparsi a un uomo arrivato alla quarta età per salvarsi dal precipizio, dal cortocircuito politico-istituzionale: lasciare l’Italia senza presidente, senza governo, nel pieno della peggiore recessione del dopoguerra.
Nel Presidente, romanzo di Georges Simenon pubblicato nel 1958, considerato dal biografo dello scrittore Pierre Assouline il ritratto più fedele della corruzione, dei ricatti e dei conflitti di interesse della Quarta Repubblica francese arrivata alla fine, il protagonista, forse ispirato a Georges Clemenceau, è un anziano statista ritirato sulla costa normanna, «appoggiato sullo schienale della vecchia poltrona Luigi Filippo, di pelle nera ormai logora, che per quarant’anni lo aveva seguito da un ministero all’altro, tanto da diventare leggendaria». Il presidente attende che il suo ex fedelissimo incaricato di formare il nuovo governo lo vada a trovare, è sicuro di un richiamo in attività che alla fine non ci sarà. «Sa, caro dottore», confida all’amico medico Fumet, «esiste una verità che sfugge non solo alle masse, ma anche agli opinionisti e questo mi lascia sconcertato ogni volta che leggo la biografia di un illustre uomo politico. Si parla tanto di quanto le classi dirigenti siano guidate dall’interesse, dall’orgoglio o dalla sete di potere. Tuttavia si perde di vista, o si rifiuta di comprendere, che a partire da un determinato stadio, da un certo grado di successo, un uomo di Stato non è più padrone di se stesso e diventa prigioniero della cosa pubblica [...] Nel corso di un’ascesa politica vi è un momento in cui gli interessi e le ambizioni personali di un uomo coincidono con quelle del Paese». «Fumet, uomo dalla mente duttile, lo osservava attraverso il fumo del sigaro», scrive Simenon. «“In altre parole, significa che a certi livelli il tradimento è impensabile?”, chiese. Il presidente rimase un momento in silenzio. Gli sarebbe piaciuto dare una risposta precisa, senza sbavature e cercò di chiarire meglio possibile il suo punto di vista: “Il tradimento puro, sì”»1.
Giorgio Napolitano accetta il secondo mandato nonostante mesi di dinieghi pubblici e privati, dopo che si è compiuta una catena di tradimenti. In due giorni, tra il 18 e il 19 aprile, tra la prima e la quarta votazione per l’elezione del nuovo presidente, il Partito democratico ha candidato uno dei suoi capi principali, Franco Marini, non riuscendo a consegnargli i voti necessari. E ha pugnalato il giorno dopo il suo padre fondatore, Romano Prodi, acclamato la mattina e bocciato il pomeriggio, a voto segreto. Ma non è questo il tradimento: l’inganno delle aspirazioni e delle speranze degli elettori è cominciato in realtà almeno due decenni prima.
Vent’anni: lo spazio di una generazione, anzi di due. Quella che all’inizio degli anni Novanta è pronta ad affrontare la prova della maturità, qualcosa di più della conquista del potere. Per chi è diventato adulto tra la contestazione, il terrorismo, gli anni Ottanta del riflusso e dell’eccesso, per la meglio gioventù diventata adulta andare al governo è una sfida non solo politica ma esistenziale. E la generazione immediatamente successiva, cresciuta dopo che il Muro è caduto, indisponibile a farsi incasellare in un recinto ideologico, chiamata a fare politica quando i partiti entrano in crisi, nell’Italia del dopo-Tangentopoli più che nel resto d’Europa.
Due generazioni unite dal mito della democrazia governante: partecipare, contare, decidere. Si trovano, invece, a dover fare i conti con una doppia anomalia, tutta italiana. La presenza a destra del conflitto di interessi di Silvio Berlusconi, con il suo potere finanziario, mediatico, politico che pesa come un ricatto sulla democrazia italiana. E la lotta fratricida a sinistra: l’assenza di una leadership forte e autorevole, accettata da tutti, sostituita da piccole ambizioni, senza un progetto, un disegno culturale e politico che non sia la permanenza nel gruppo di comando. Perdere tutti insieme, per restare alla guida, anche a costo di sacrificare l’impegno, la tenacia, la pazienza degli elettori.
Generazioni sprecate. Generazioni tradite.
Sabato 13 aprile, al primo scrutinio per il nuovo presidente nell’aula di Montecitorio mancano cinque giorni, il popolo di Berlusconi invade le strade di Bari. Alle tre del pomeriggio la centralissima piazza della Libertà comincia a riempirsi. Sull’enorme palco, sotto la scritta «Un governo forte oppure elezioni subito» una band suona i pezzi di Lucio Battisti, Julio Iglesias, Renato Carosone, Domenico Modugno, una colonna sonora da crociera pop, in attesa del comizio la gente balla la tarantella. Per capire che non è una manifestazione qualsiasi e che il Pdl ha impiegato tutte le risorse a disposizione, bisogna attraversare a ritroso la piazza, risalire la fiumana di persone fino alla sorgente. Sul lungomare, da più di un’ora, i pullman arrivati da ogni angolo della Puglia e soprattutto dal Salento eruttano a getto continuo truppe di simpatizzanti. Torpedoni numerati, Mesagne, Maglie, Gallipoli, Lecce 25, Lecce 26, Lecce 27... Sotto un gazebo vengono distribuite bandiere azzurre, cappellini, foulard, fischietti. Giovani, anziani, famiglie intere partecipano al rito della vestizione, come guerrieri medievali. Non si è badato a spese, eppure non c’è una scadenza elettorale che giustifichi una mobilitazione così spettacolare e perfino rischiosa: Bari è per Berlusconi la città di Gianpaolo Tarantini e di Patrizia D’Addario, l’escort che nel 2008 trascorse la notte con l’allora premier sul lettone di Putin a Palazzo Grazioli. Il sindaco di centrosinistra Michele Emiliano accoglie l’ospite con uno striscione sarcastico appeso davanti al Comune: «Caro Silvio, bentornato!». E lei, la D’Addario, si aggira nelle vie laterali.
Alle cinque fa molto caldo quando finalmente il Leader comincia a parlare. Un po’ di fatica e tanta tensione sul volto. Perché in quel giorno di geometrica potenza organizzativa, Berlusconi è in realtà un uomo molto preoccupato, spaventato, sul punto di perdere tutto. Sì, Berlusconi è impaurito, il pomeriggio del 13 aprile. La sua paura ha un nome e un cognome: Romano Prodi. Il fondatore del centrosinistra. L’economista di Bologna che è stato presidente del Consiglio, l’unico che lo ha sconfitto alle elezioni, due volte, nel 1996 e nel 2006.
Quella mattina, all’ora di pranzo, le agenzie hanno lanciato una notizia che cambia lo scenario: il Professore risulta inserito nella lista dei candidati per il Quirinale votati in Rete dagli iscritti del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, la novità sconvolgente delle ultime elezioni, otto milioni di voti, 163 parlamentari potenzialmente decisivi per eleggere il nuovo presidente. Prodi è in compagnia di altri nove nomi: il premio Nobel Dario Fo, il medico Gino Strada, la giornalista televisiva Milena Gabanelli, i giuristi Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky, i magistrati Giancarlo Caselli e Ferdinando Imposimato, Emma Bonino e lo stesso Grillo. Una votazione successiva stabilirà l’ordine delle preferenze, ma la presenza di Prodi è la vera novità. Nonostante le ripetute voci di un contatto diretto tra l’ex premier e il guru del grillismo Gianroberto Casaleggio, nessuno si aspettava che il nome del Professore, il simbolo del centrosinistra e dell’euro, potesse finire davvero tra i candidati del movimento. Eppure era stato lo stesso Grillo a offrire un’indicazione sulla sua strategia in una riga contenuta su un post del suo blog di qualche giorno prima. Per il Quirinale Pd e Pdl vogliono «non un Pertini, ma neppure più modestamente un Prodi che cancellerebbe Berlusconi dalle carte geografiche...».
Il Cavaliere legge e fiuta il pericolo: una saldatura del Pd con il Movimento 5 Stelle lo terrebbe fuori da tutto, un rischio mortale. Ecco perché vale la pena di mettere in campo la sua persona, il potere, i soldi. La piazza di Bari capisce che è arrivato il momento clou del comizio e si fa silenziosa. «La prossima settimana si vota per la presidenza della Repubblica», premette. «Vi piacerebbe vedere il magistrato Ingroia al Quirinale? Andreste pazzi per Rosy Bindi? E per Milena Gabanelli?». Il pubblico risponde pazientemente come Silvio si augura, con fischi e urla generosamente distribuiti. Ma queste sono domande retoriche, il messaggio che più conta deve ancora arrivare. «Vi farebbe impazzire di gioia Romano Prodi?», domanda l’uomo di Arcore. Gli ululati crescono di intensità. «Peccato che non vi piaccia!», ironizza Silvio. «Il vostro è un giudizio ruvido ma assennato. Con Prodi presidente ci toccherebbe andare tutti all’estero». A quel punto la piazza esplode rabbiosa, per la soddisfazione del suo Capo: nooo, Prodi no! Ecco perché valeva la pena di convocare a Bari un sabato pomeriggio di aprile tutta quella gente: non per proporre una via di uscita alla crisi politica che si è aperta con le elezioni. Ma per scatenare un tetro crucifige di piazza. Contro un avversario che non va semplicemente battuto, ma eliminato.
In partenza per l’estero, in quei giorni, in realtà c’è l’ex presidente del Consiglio. Da qualche mese Prodi ha un incarico ufficiale delle Nazioni Unite, inviato del segretario generale Ban Ki-moon in Mali e nel Sahel, a 73 anni si muove tra l’Africa, gli Stati Uniti e la Cina. L’unica uscita italiana che si è concesso, alla vigilia delle elezioni del 24 febbraio, è stata un’apparizione a Milano sul palco del comizio del Pd. La sera del 12 marzo è in piazza San Pietro, mescolato ai fedeli aspetta la fumata del conclave che deve eleggere il successore del dimissionario papa Ratzinger. Con il naso in su, stretto nella giacca a vento sotto la pioggia, emozionato come un pupo: «È la prima volta in vita mia che assisto a una fumata». Il cattolico Prodi sussurra a bassa voce il suo candidato, tifa per il cardinale di Vienna Christoph Schönborn, quando dal comignolo della cappella Sistina esce uno sbuffo nero accenna una corsetta per guardare meglio, non trattiene la delusione. E evita qualsiasi curiosità sul conclave laico che potrebbe riguardarlo.
Prodi è formalmente fuori dalla politica italiana dal 2008, da quando il suo secondo governo è stato sfiduciato al Senato. I giornali sono pieni in quei giorni di retroscena su quella caduta: non nelle cronache politiche, però, in quelle giudiziarie. «Dal luglio 2006 fino al marzo 2008 ho ricevuto da Silvio Berlusconi tre milioni di euro», dichiara ai magistrati di Napoli Sergio De Gregorio. De Gregorio è un senatore del Pdl non ricandidato nelle elezioni del 2013, nel 2006 era entrato per la prima volta a Palazzo Madama con lo schieramento opposto: nel centrosinistra, eletto nel partito più anti-berlusconiano, Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Dopo appena un mese, però, aveva accettato i voti del centrodestra per diventare presidente della Commissione Difesa. Per Berlusconi è uno spostamento prezioso, in una legislatura in cui tutto si gioca tra uno o due voti. E già nel mese di luglio, racconta De Gregorio ai pubblici ministeri, il Cavaliere comincia a dimostrare la sua gratitudine: «Ho partecipato all’Operazione libertà diretta a ribaltare il governo Prodi. Già dopo il voto che mi vide eletto presidente della Commissione Difesa, discussi a Palazzo Grazioli con Berlusconi di una strategia di sabotaggio, della quale mi intesto tutta la responsabilità. L’accordo si consumò nel 2006. Il mio incontro a Palazzo Grazioli con Berlusconi servì a sancire che la mia previsione di cassa era di 3 milioni. Subito partirono le erogazioni. Ho ricevuto 2 milioni in contanti da Valter Lavitola a tranche da 200 e 300mila euro». De Gregorio illumina un altro passaggio: «Dissi a Berlusconi che forse il senatore Caforio di Idv poteva ascriversi al ruolo degli indecisi e lui mi chiese: che cosa gli puoi offrire? Risposi: gli posso offrire di rendersi autonomo, come è accaduto nei miei confronti, e magari che gli diate un finanziamento alla forza politica di sua espressione. Lui disse: puoi proporgli fino a cinque milioni di euro di finanziamento. Tuttavia Caforio mi registrò e mi denunciò alla Procura della Repubblica di Roma»2.
Non è la prima volta che contro Prodi la destra scatena armi non convenzionali. Nel 2003 spunta dal nulla un consulente finanziario che giura di sapere tutto dell’affare Telekom-Serbia, l’acquisto da parte della Telecom di un terzo della società telefonica serba avvenuto...

Indice dei contenuti

  1. Capitolo 1. Il giorno degli sciacalli
  2. Capitolo 2. Piazza Santi Apostoli
  3. «Venti anni di menzogna»
  4. Capitolo 3. Gargonze
  5. Capitolo 4. Ottobre
  6. Capitolo 5. Ombre di domani
  7. «Faccio politica, non ho tempo di odiare...»
  8. Capitolo 6. L’Urlo
  9. «Cara Sinistra...»
  10. Capitolo 7. Il Ritorno
  11. «La mia più grande delusione»
  12. Capitolo 8. Il treno di Walter
  13. «Quando tutto si è spezzato»
  14. Capitolo 9 Nella Palude
  15. «Uno, Nessuno, Centouno»
  16. Terre promesse