1.
Il negazionismo:
una definizione in forma di introduzione
1.1. Mettere a fuoco il problema: il senso delle parole
Partiamo da un paio di dichiarazioni. La prima sostiene che
Le pretese camere a gas hitleriane e il preteso genocidio degli ebrei formano un’unica menzogna storica che ha permesso una gigantesca truffa politico-finanziaria di cui i principali beneficiari sono lo Stato d’Israele e il sionismo internazionale, e di cui le principali vittime sono il popolo tedesco, ma non i suoi dirigenti, e il popolo palestinese nel suo insieme.
Nella seconda, invece, si afferma:
Su una tragedia reale era stato edificato un mito che la travisava ed amplificava alle dimensioni di accadimento senza precedenti nella storia e la sostanza di questo mito si dileguava mano a mano che le asserite modalità di attuazione del preteso sterminio, la sua asserita progettazione e i suoi asseriti esiti venivano sottoposti ad un’indagine incardinata su quei criteri al cui impiego metodico la ricerca storica è debitrice della propria capacità di produrre certezze, e, con ciò, del proprio statuto di disciplina scientifica.
Entrambe si inquadrano dentro il fenomeno del negazionismo olocaustico. Che cos’è? Si tratta di un insieme di affermazioni nelle quali si contesta o si nega la realtà del genocidio sistematico degli ebrei perpetrato dai nazisti, e dai loro complici, nel corso della Seconda guerra mondiale. Questa negazione può assumere forme e caratteri diversi, tutti accomunati però dal rifiuto di considerare come effettivamente accaduto lo sterminio in massa della popolazione ebraica. Allo stesso modo, coloro che si rifanno a queste posizioni, e che sono stati quindi definiti negazionisti (benché rifiutino seccamente tale denominazione, preferendovi quella di «revisionisti»), ritengono che il Terzo Reich hitleriano non intendesse procedere all’uccisione in massa degli ebrei, ovvero che tale obiettivo non fosse nei suoi progetti politici e nelle sue motivazioni ideologiche. Se il nazismo non aveva questa intenzione, argomentano i negazionisti, pare assai poco verosimile che abbia pianificato e attuato uno sterminio sistematico della popolazione ebraica europea. Vi furono senz’altro dei morti tra gli ebrei europei, ma questo rientrava nelle logiche brutali della guerra. Pertanto, «per il negazionista, l’inesistenza delle camere a gas è un dato posto come inconfutabile, a partire dal quale riscrivere radicalmente la storia della Seconda guerra mondiale, rifiutando aprioristicamente qualunque documento o testimonianza che attesti l’esistenza dello sterminio». Più in generale il negazionismo va inteso come «un fenomeno culturale, politico e giuridico non nuovo» che «si manifesta in comportamenti e discorsi che hanno in comune la negazione, almeno parziale, della verità di fatti storici percepiti dai più come fatti di massima ingiustizia e pertanto oggetto di processi di elaborazione scientifica e/o giudiziaria di responsabilità».
I sostenitori di tale approccio si descrivono come individui che, a vario titolo e in diversi modi (soprattutto in qualità di studiosi, pubblicisti, opinionisti), chiedono genuinamente prove concrete, ossia riscontri oggettivi, nel merito della Shoah e del suo effettivo consumarsi durante gli anni della Seconda guerra mondiale. In altre parole: lo sterminio non c’è stato, ma chi sostiene che è effettivamente avvenuto ha l’onere di comprovarlo in maniera incontrovertibile. Noi, che non ci crediamo, lo ascolteremo e vaglieremo criticamente le prove che dovesse esibire. Ciò affermando, più che nel rinviare da subito alla netta negazione del passato, i negazionisti si autoassegnano la qualità di «storici revisionisti». Sarebbero da intendersi come tali poiché pretendono di rileggere criticamente l’ampia messe di studi disponibili sullo sterminio ebraico. Posta questa premessa, in chiave di rassicurante autolegittimazione, il passaggio successivo del negazionismo è l’affermazione, sospesa tra un marcato scetticismo e il cinico rifiuto, che l’intera storiografia sarebbe viziata da un pregiudizio di fondo, quello di sostenere aprioristicamente e pregiudizialmente l’esistenza dello sterminio, quando in realtà di esso non è comprovato – al di là di ogni ragionevole dubbio – pressoché nulla. Al limite, ed è questa la posizione «riduzionista» che ha un discreto seguito anche tra chi non necessariamente si richiama alla più stretta vulgata negazionista, esso ebbe luogo con modalità e proporzioni diverse da quelle richiamate dalla storiografia; comunque senz’altro minori. Di quest’ultima – che è il loro vero obiettivo polemico – i negazionisti mettono in discussione ciò che essi chiamano, a vario titolo ma quasi sempre con intenzioni sarcastiche, offensive e demolitorie, l’«olocaustomania», la «menzogna olocaustica», la «sacra vulgata olocaustica» e così via.
L’autoappropriazione del termine «revisionismo» viene fortemente contestata dalla comunità scientifica, che vede in essa un tentativo di occultare, dietro una parola di uso corrente in ambito storiografico, un’operazione di ben diverso costrutto, poiché scientificamente infondata, politicamente indirizzata e moralmente inaccettabile. Il termine «negazionista», in genere non accetto dai negazionisti medesimi, che ne colgono le implicazioni delegittimanti, è invece quello propriamente usato dagli studi storici per definire le condotte che, sotto la parvenza di un’elaborazione critica della rilettura delle fonti, rivelano da subito un intendimento dichiaratamente ideologico, volto a stravolgerne il senso ultimo, sostituendolo con un orizzonte di significati destituito di fondamento fattuale. Quest’ultimo è tale non solo perché non corroborato dall’evidenza dei fatti medesimi, ma – soprattutto – perché indirizzato a un travisamento di senso, funzionale a un obiettivo manipolatorio più o meno palesato da subito. Nei paesi di lingua francese si utilizza quindi la parola négationnisme; in quelli di lingua inglese ci si riferisce all’Holocaust denial (dal verbo to deny, che significa per l’appunto negare); in Germania ci si rifà ad Holocaustleugnung (dal verbo leugnen, che significa negare, ma anche mentire), nei paesi di lingua spagnola Negacionismo del Holocausto; nei paesi di lingua portoghese Negação do Holocausto. La radice comune di queste diverse, ma associabili, denominazioni linguistiche non sta nel solo termine «negazione» ma nel rimando che è immediatamente operato verso ciò che è fatto oggetto di rifiuto: la realtà tout court. I negazionisti, nel non volersi riconoscere come tali, rivendicano il ruolo – che diventa per certuni una sorta di missione – di liberare dalla «menzogna» la storia, affermando quindi di portare alla luce le verità celate. Da ciò deriverebbe l’emancipazione del passato da un’interpretazione cristallizzata, mitologica, in altre parole fondata su qualcosa d’inesistente. Anche per questo risultano seducenti e convincenti per una certa parte del pubblico di ascoltatori e lettori, più o meno ingenua, comunque proclive a interpretare il discorso storiografico come una ‘versione pubblica’, e quindi di comodo, della storia. Il messaggio negazionista può esplicitarsi indipendentemente dai riscontri di fatto; oppure, il che è elemento che ne costituisce il reciproco inverso, per la rilettura capovolta del senso condiviso dei fatti trascorsi. Sono due modi logici di agire complementari, perché si rinforzano a vicenda: affermare qualcosa senza sforzarsi di comprovarlo ma dichiarandolo alla stregua di una verità indiscutibile (certe cose non sono mai successe, punto e basta); non negare qualcosa che c’è ma attribuirgli un significato alternativo (la parola «evacuazione» non è l’espressione cifrata, di natura burocratica, che indica la deportazione nazista verso i campi della morte, bensì il termine che esprime il trasferimento di una parte della popolazione in altri territori).
A questo punto si può affermare che il negazionismo è soprattutto il «tentativo» di negare recisamente che la Shoah, lo sterminio sistematico degli ebrei per opera dai nazisti, abbia mai avuto corso. Ad esso rinviano in parte anche quei fenomeni, strettamente connessi alla negazione, che sono invece da intendersi come affermazioni riduzioniste. Il riduzionismo batte soprattutto il chiodo sull’inverosimiglianza del numero dei morti nei Lager. Non furono così tanti. Aprendo una dura polemica sul problema della definizione delle reali misure di grandezza di un crimine di massa, cerca così di delegittimare la comune consapevolezza della volontà omicida che stava alla base del Terzo Reich. Il negazionismo va quindi letto sotto una doppia luce: sul piano metodologico e contenutistico, come l’aggressione preordinata all’agire dello storico, tanto più nel momento in cui questi si adopera nell’indagine relativa alla definizione di una verità di fatto condivisibile (evento e sue correlazioni di senso); sul piano politico e ideologico, come la prosecuzione, sotto mentite spoglie, di un discorso di legittimazione del nazismo attraverso la cancellazione degli aspetti più aberranti e impresentabili della sua storia. Pur nella sua radicalità, che lo rende oggetto di molti rifiuti, esso va inteso anche come parte di un più ampio universo di atteggiamenti e significati tipici di certo populismo culturale, soprattutto laddove «le retoriche negazionistiche hanno ereditato [...] dal ‘socialismo’ nazista antisemita una finta critica dei rapporti sociali dominanti, la mania di spiegare tutto e l’ambizione teorica totalizzante». Il negazionismo non intende solo rimuovere fatti e atti scomodi. Vuole ricostruire la storia, darle un indirizzo diverso, un significato nuovo.
Come insieme di atteggiamenti ha conosciuto dal dopoguerra ad oggi almeno quattro stagioni: la prima, caratterizzata dall’indirizzo neonazista, teso semplicemente ad occultare i crimini del regime hitleriano (tra il 1945 e il 1965); una seconda fase, economicista, che ha raccolto alcune suggestioni del negazionismo della destra radicale ritraducendole però all’interno di un apparato concettuale di derivazione marxista (tra il 1965 e il 1978); un terzo momento, quello del cosiddetto «negazionismo tecnico», che ha tentato di sganciare l’intero impianto critico da alcune delle sue più marcate premesse ideologiche, fondando i suoi giudizi di valore sull’analisi e la rilettura polemica delle fonti (tra il 1978 e il 1990); il quarto e ultimo periodo, tutt’oggi operante, che nasce dall’intreccio tra l’adozione che del negazionismo è stata fatta dall’islamismo radicale e la sua capacità di propagarsi sul web. Ovviamente questa cronologizzazione non è da intendersi rigidamente. Motivazioni, atteggiamenti, convincimenti si trasfondono da una stagione all’altra, da un autore all’altro.
La ricerca storica considera i negazionisti degni di una qualche attenzione, ritenendoli semmai alla stregua di impostori. E non a caso questi ultimi hanno bollato con l’anatema di «sterminazionisti» la totalità dei membri della comunità degli storici, rei, a loro dire, di ripetere pedissequamente una versione ‘ufficiale’, ossia di comodo, della storia. I motivi dell’impossibilità per la storiografia di una qualsiasi comunicazione sono i più vari, a partire dal rifiuto morale, che è soprattutto ripugnanza, nel dare voce, anche solo marginalmente, a coloro che alimentano il diniego dell’evidente, tanto più se questo riguarda violenze e massacri abbondantemente comprovati. Più in generale, chi nega la concretezza dei fatti non può essere considerato per nessuna ragione uno storico, non avendone alcun titolo. Semmai il suo comportamento è ascrivibile ad altro ordine di obiettivi e, soprattutto, a un criterio di natura ideologica. Il problema della concreta incidenza del negazionismo, tuttavia, non si pone su...