Sociologia della cultura
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Sociologia della cultura

Spazio, tempo, corporeità

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Sociologia della cultura

Spazio, tempo, corporeità

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Integrando i linguaggi di diverse discipline (dalla sociologia all'antropologia, dalla psicologia alle neuroscienze) il volume affronta – con esempi tratti sia dalla quotidianità sia da romanzi e film – temi centrali per la comprensione delle pratiche culturali, fra i quali il senso comune, la categorizzazione e la formazione del pregiudizio, la costruzione di confini, il senso dell'abitare, il rapporto fra tempi sociali e tempi soggettivi, la memoria collettiva, il significato sociale dell'età e delle generazioni, le tecniche del corpo, i processi sociali che regolano la nascita e la morte, il rapporto con la sessualità e la costruzione del genere.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788858110775
Categoria
Sociology

Capitolo 1
Un concetto operativo di cultura

1.1. Un termine, tre processi

Come molti concetti elaborati nel corso dei secoli dalle scienze sociali ed entrati nel linguaggio ordinario, il termine cultura vive oggi una sorta di schizofrenia: da un lato, è ormai così pervasivo e (ab)usato nella quotidianità – «Tizio/a è uomo/donna di grande cultura», «la pasta fa parte della nostra cultura» – che chiederne una definizione a chiunque non sia uno specialista delle diatribe terminologiche delle scienze umane e sociali, suonerebbe un po’ come una domanda retorica, dato che ognuno di noi si trova a utilizzare questo termine in espressioni di senso comune, finendo pertanto per ritenere autoevidente il suo significato e superflua qualsiasi spiegazione. In un mondo in cui si tengono un po’ ovunque Festival della cultura; in cui ogni telegiornale vede ministri affannarsi a tirare in ballo differenze di cultura fra stranieri e italiani; in cui si può fare pubblicità a un prodotto propagandando la propria marca come quella che ha «la cultura» del caffè, dell’automobile, dei divani o di qualsiasi altra merce; in cui si diffondono espressioni come «la cultura del mangiar bene», ma nel quale si parla anche del diffondersi di una cultura mafiosa (una non esclude l’altra!), della necessità per il business di prestare attenzione alla cultura aziendale (anche questa può accompagnarsi alle due precedenti!); in cui esistono istituzioni, organizzazioni chiamate «assessorato alla cultura», «corso di mediazione culturale», sembrerebbe evidente che tutti debbano sapere di cosa si stia parlando.
Dall’altro, tuttavia, le scienze sociali, all’interno delle quali il termine è oggi altrettanto pervasivo e (ab)usato, stanno profondendo da decenni sforzi di definizione, rielaborazione, persino abiura: la disciplina che più di ogni altra ha costruito le sue fortune sul termine – l’antropologia – è addirittura arrivata negli ultimi anni a teorizzare con alcuni suoi esponenti la necessità di abbandonare del tutto la parola (Giglioli e Ravaioli, 2004). Tutto ciò mentre allo stesso tempo proliferano cattedre e manuali di studi culturali, di sociologia delle relazioni interculturali e, per dare una dimensione quantitativa dell’interesse che il concetto riscuote, la sezione di Sociologia della cultura diventa nel breve corso di due anni la più numerosa delle facenti parte della European Sociological Association. Cosa succede dunque?
Dagli indizi disseminati nelle righe precedenti, un buon lettore di gialli potrebbe inferire (grazie allo sviluppo di competenze culturali, naturalmente) un paio di cose: da un lato, la varietà di modi e di espressioni con le quali è utilizzato il termine nella quotidianità fa sorgere il sospetto che probabilmente non sempre si stia parlando della stessa cosa: è evidente che quando i ministri di cui sopra diffondono un allarme per la differenza di cultura fra gli italiani e i marocchini non possono avere in mente lo stesso concetto al quale fa riferimento, durante un Festival della Cultura, un altro ministro (magari quello della Cultura, se in Italia esistesse come in Francia) dello stesso governo, per rendere omaggio al famoso scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, presentandolo come «un uomo di grande cultura». Secondariamente, il lettore di gialli capirebbe che, se le persone della strada (e persino i ministri!) fanno così spesso uso del termine nella loro quotidianità e se sconosciuti ricercatori di sociologia e illustri nomi dell’antropologia continuano a non poterne fare a meno, dietro il termine evidentemente si celano delle questioni, delle tematiche, dei problemi che necessitano, per essere espressi, del termine stesso.
Negli ultimi decenni, dunque, il termine cultura è stato ampiamente decostruito, criticato, smontato nel suo essenzialismo (ed etnocentrismo), così come altri concetti-chiave delle scienze sociali, del vocabolario politico e di quello filosofico. Tali concetti, perciò, non sono più utilizzabili
nella loro forma originaria e non ristrutturata, [...] non sono più ‘buoni per pensare’. Ma, dato che non sono stati sostituiti dialetticamente, e non ci sono altri concetti del tutto diversi con cui rimpiazzarli, non si può far altro che continuare a usarli per pensare, anche se ora sono detotalizzati o decostruiti e non funzionano più entro il paradigma che li ha generati (Hall, 2006: 313-314).
Insomma, cultura è un concetto di questo tipo, che opera «sotto cancellatura», come una parola sempre più sbiadita dall’azione di tante gomme concettuali che negli anni le sono passate sopra, lasciandone però sempre una traccia visibile sulla pagina delle scienze sociali: un’idea, insomma, «che non può essere pensata come in passato, ma senza la quale alcune questioni-chiave non possono essere pensate» (ibid.). Occorre perciò ripercorrere, almeno nelle linee principali, quali siano tali questioni-chiave e come attorno a esse si sia riarticolato il concetto di cultura, esplorandone alcune delle principali definizioni e cercando di comprendere a che cosa ci possano servire dal punto di vista euristico.
Anche se ormai da decenni gli scienziati sociali di ogni genere e risma si impegnano a classificare i diversi significati del termine (Kroeber e Kluckholn, 1952; Baldwin et al., 2006), un aiuto nel ricomporre questo mosaico di definizioni ce lo dà un saggio fondamentale1 di Bauman, dal titolo programmatico Cultura come prassi; qui, il sociologo polacco raggruppa gli usi correnti del concetto di cultura in tre grandi filoni, originati da problematiche storicamente differenti e chiamanti in causa differenti processi sociali, tanto da poter sostenere che il termine cultura «è stato incorporato in tre diversi universi di discorso [...]. Esiste quindi un solo termine, mentre i concetti sono tre, uno diverso dall’altro» (Bauman, 1976: 14).
In primo luogo, esiste una nozione «gerarchica» di cultura, che dà conto della preoccupazione, dai Greci in avanti, per il raggiungimento dell’ideale dell’essere umano: cultura qui rimanda proprio alla sua radice etimologica legata alla metafora rurale, in quanto significa lo sforzo continuo e consapevole per portare in linea con tale ideale l’effettivo procedere della vita. In questo senso, la cultura si oppone – e non su un piano di equivalenza – alla barbarie, il colto all’incolto, ed è sempre in questo senso che si possono pensare delle «politiche culturali», sostenere che qualcosa è di «alta cultura» o di «bassa cultura». Per rifarci a classificazioni forse ormai vetuste ma ancora circolanti nei manuali (Crespi, 2003; Sciolla, 2002) è il «concetto umanistico» di cultura, quello riassunto nell’idea di «ciò che di meglio è stato pensato, creato» in letteratura, arte, ecc. È evidente che, come d’altronde le altre accezioni del termine, tale concetto sia strettamente legato a questioni di potere e di legittimazione che nella società contemporanea si intrecciano a doppio filo con la legittimazione della classe intellettuale e con la sua crisi2. È grazie a questo concetto che possiamo pensare a importanti temi di sociologia dei processi culturali quali l’apparire (e i conflitti legati a tale apparire) all’interno di una società di modelli di comportamento come la kalokagathia greca, o come quello di eccellenza scientifica e competenza specialistica oggi in auge o, ancora, il mutamento nel tempo di quella che in una società viene ritenuta la cultura legittima (si pensi alla storia di arti come il cinema o il jazz, passate da essere considerate intrattenimento spicciolo a una legittimazione anche accademica e istituzionale). Conseguentemente con le premesse, il concetto gerarchico di cultura non ammette un plurale: esiste la cultura, i cui contenuti cambiano solo attraverso lotte – simboliche e materiali.
Il secondo concetto – e universo discorsivo – racchiuso nel termine cultura è invece un concetto differenziale (Bauman, 1976: 31), volto a dare conto delle evidenti diversità che sussistono o possono sussistere fra persone collocate in contesti temporali, geografici o sociali differenti. È il concetto che ritroviamo in espressioni comuni dalle quali siamo circondati, per esempio ogni volta che in un curriculum di studi universitari troviamo una «cultura inglese» (spagnola, araba, ecc.), oppure quando diciamo – vedremo con quali problemi quando si essenzializza troppo il concetto e lo si rende uniforme – che nella «cultura peruviana» i cugini hanno un ruolo più forte che in quella italiana, o anche quando parliamo di «cultura politica di sinistra», o di una cultura hip hop, o anche, a un livello ancora più micro, di una cultura aziendale della impresa X o Y. Tale concetto parte dalla premessa che gli esseri umani non sono interamente determinati dal loro patrimonio genetico, e che a uno stesso quadro di condizioni biologiche e sociali possono corrispondere diverse forme socioculturali. È questo il concetto noto come «antropologico», che in molti3 datano a partire dal dibattito Zivilization/Kultur, ma che si può far risalire a un periodo antecedente, a partire dagli scritti di Locke. L’antropologia filosofica che fa da sfondo a tale universo di discorso è quella che rimanda alla costitutiva incompletezza dell’essere umano, sviscerata da Gehlen (1983) col concetto di «essere manchevole» e articolata più recentemente da Geertz (1987). Questo concetto non ha evidentemente senso inteso al singolare e si accompagna pertanto a una posizione relativistica: si parla quindi di culture, e non più di una cultura unica. Tuttavia, come sostiene Bauman, «il concetto differenziale di cultura non è implicito [...] nella realtà immediatamente data, indipendentemente dall’attività dei ricercatori» (1976: 55-56). Come vedremo più avanti nel capitolo, è molto complicato, ed è in realtà già un’operazione culturale, delimitare i «confini» dove inizia o finisce una cultura, nonché individuare a priori chi ne faccia parte.
Le conseguenze più rilevanti di questo tipo di concetto, benché nel corso degli anni abbia subito svariate precisazioni, articolazioni e revisioni, sono quelle di condurre da un lato il senso comune a ritenere come ovvie le categorie di «incontro» o «scontro» di culture, dall’altro alimentare la tendenza del pensiero – colto – contemporaneo a «trattare tanto le norme morali quanto i nostri trasporti estetici come questioni di pura convenzionalità» (Bauman, 1976: 63). Questo comporta tra l’altro che, in qualche modo, i discorsi di senso comune e i loro usi politici si alimentino, nelle situazioni di tensione fra gruppi o di manifestazioni palesi di usanze differenti, del concetto differenziale, relativistico e neutro «apparteniamo a culture diverse», ma traggano conclusioni muovendo da un’idea gerarchica che si esplicita in affermazioni come «la nostra cultura è quella giusta/vera/illuminata/superiore»4.
Ritorneremo più avanti, sia nel capitolo sia nel prosieguo del libro, sul concetto gerarchico e su quello differenziale di cultura, per l’enormità della rilevanza sociale e sociologica dei temi che sollevano, ma lo faremo muovendo da una terza modalità – fondamentale – di trattare il termine, che permette di pensare la cultura non in chiave gerarchizzante o differenziante, ma come modalità accomunante il genere umano. In questo senso, Bauman parla di una concezione «generica» di cultura.
Il punto chiave è comprendere, in un certo senso, quale sia il meccanismo specie-specifico dell’uomo che gli consente di produrre culture nell’accezione differenziale del termine, al di là del loro contenuto particolare. Senza drammatizzare troppo la portata dell’affermazione, potremmo dire che qui la questione, in termini semplici, sia chiedersi cosa renda «umano» il modo umano di stare al mondo. Se le culture intese in senso differenziale frammentano il mondo umano in una miriade di piccoli universi, il fatto di essere una «specie simbolica» (Deacon, 2001) – che quindi è in grado di produrre culture – è l’elemento che accomuna gli esseri umani. Più precisamente, se è vero che anche gli animali usano «simboli», quelli umani sono allo stesso tempo
arbitrari [...], possiedono dei referenti obiettivati e sono integrati in un sistema-codice. [...] È il potere unico di riprodurre e produrre strutture nuove, e non la semplice capacità di introdurre degli intermediari simbolici nello spazio che divide la coscienza del fatto dal fatto stesso, che conferisce al linguaggio umano il suo potenziale generatore di cultura, facendone il vero fondamento della cultura come fenomeno generico [...]. L’essere strutturato e l’essere capace di strutturare pare siano i due elementi centrali del modo umano di vivere, noto come cultura. [...] La cultura, in quanto qualità generica, in quanto attributo universale dell’umanità nella sua differenza da ogni altra specie animale, è la capacità di imporre nuove strutture al mondo (Bauman, 1976: 82-87).
Soffermiamoci su due punti importanti: in primo luogo, precisando quale sia la particolarità dell’universo simbolico in cui vive l’uomo. Come già evidenziato dalla linguistica, dalla semiotica e, nell’antropologia culturale, da Lévi-Strauss, il nodo centrale del simbolismo umano non è il semplice impiego di simboli, ma il fatto che il loro significato ha senso solo in un sistema unico di rimandi incrociati e di opposizioni. In effetti, «l’unico elemento comune ai simboli e ai loro significati è quello dell’ordine: e questo non può essere colto con lo studio isolato di simboli particolari, ma soltanto nei termini delle loro relazioni in sistemi» (Parsons 1937: 484; Giglioli e Ravaioli, 2004). Prendiamo per esempio le figure stilizzate dell’uomo e della donna all’esterno di un bagno nella nostra università: esse hanno significato solo l’una in relazione all’altra, ed è in questo modo che i simboli orientano i nostri comportamenti, ovvero rappresentando l’ambiente – che al tempo stesso concorrono a «creare» – per mezzo di categorie relazionali la cui comprensione è esattamente ciò che differenzia cognitivamente i primati umani dagli altri mammiferi (Tomasello, 2005). Ciò vuol dire che gli animali non sono in grado di rappresentarsi il mondo in termini di forze sottostanti, di intenzioni e di conseguenze, cosa che invece fanno gli esseri umani. Pensiamo all’uso di simboli religiosi, politici, calcistici e alla loro opposizione o messa in relazione (i colori di una maglia di calcio possono al contempo denotare il riferimento all’essere tifosi di un certo club, ma connotarsi anche come simbolo religioso, per esempio nel caso delle maglie di Celtic Glasgow e Rangers Glasgow, oppure nazional/regionalistico, come nel caso dell’Athletic Bilbao, o ancora, politico, come nell’opposizione delle due squadre di Amburgo, Hamburg e St. Pauli).
Secondariamente, cerchiamo di chiarire cosa significhi strutturare e come avvenga questo processo. Strutturare, nel senso in cui lo usa Bauman, è inteso come «dare un ordine». Dal punto di vista culturale, ciò significa organizzare l’ambiente, selezionare la complessità5, dargli significato, o, meglio ancora, senso, perché in tale parola incontriamo una duplice accezione di significazione e di orientamento, ovvero di direzione. Attraverso la costruzione di un mondo di senso, l’uomo ritaglia (ed esclude) possibilità nella sua esistenza, attraverso le pratiche e i simboli creati e riprodotti nell’esperienza.
La prassi umana, considerata nei suoi tratti più universali e generali, consiste nel trasformare un caos in ordine o nel sostituire un ordine a un altro, dove l’ordine è sinonimo di intellegibile e significativo. Nella prospettiva semiologica ‘si...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Capitolo 1 Un concetto operativo di cultura
  3. Capitolo 2 La costruzione culturale dello spazio
  4. Capitolo 3 La costruzione culturale del tempo
  5. Capitolo 4 La costruzione culturale della corporeità
  6. Riferimenti bibliografici