Twitter Factor
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Twitter Factor

Come i nuovi media cambiano la politica internazionale

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Come i nuovi media cambiano la politica internazionale

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Cosa accade al giornalismo professionale quando CNN, Al Jazeera e BBC possono coprire alcune crisi internazionali solo attraverso il contributo messaggi, fotografie e video di comuni cittadini?Cosa accade alla diplomazia quando ministri e capi di Stato aprono account Twitter e Facebook, ma soprattutto quando le loro pagine sono meno seguite di quelle di un blogger egiziano?Cosa accade alla politica internazionale e alla sua narrazione quando nel variegato sottobosco degli attori non governativi compaiono organizzazioni come Wikileaks in grado di sfidare il paradigma della segretezza nella relazione tra gli Stati?Augusto Valeriani spiega e ricostruisce questo nuovo contesto comunicativo internazionale attraverso numerosi esempi e attraverso le parole di reporter, funzionari diplomatici e uomini delle Ong che si trovano di fronte nuove figure 'non professionali con cui non è più possibile non interloquire: semplici cittadini, 'dilettanti, capaci grazie allambiente comunicativo del web 2.0 di partecipare alla definizione del 'lessico e della 'grammatica della politica internazionale. Una realtà che determina inevitabilmente la nascita di rapporti di competizione, ma anche di insospettabili collaborazioni: nella nuova sfera pubblica internazionale nessuno può più fare da sé.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858101711

III. Imparare cosa serve in Tv e saper fare da soli sul web

1. Il velo di Angelina Jolie e le alluvioni in Pakistan

Nel settembre 2010 Angelina Jolie, dopo avere lanciato un appello alla comunità internazionale per la raccolta di fondi e aiuti da destinare alla popolazione pakistana, è volata nel paese come ambasciatrice speciale dell’UNHCR. Quello che è stato definito un «lento tzunami», un’ondata tremenda di alluvioni, stava infatti mettendo in ginocchio il Pakistan e aveva già causato diverse migliaia di vittime, senza che i grandi media globali stessero dando molto spazio alla notizia.
La presenza della star americana che visitava i profughi vestita in abiti locali, compreso un vistoso velo nero sul capo, catturò inevitabilmente l’attenzione di tutto il mondo dell’informazione, contenendo diversi elementi che rendevano il viaggio una perfetta photo opportunity: una star globale, una calamità naturale e una vaga allusione alla questione del velo delle donne mussulmane, uno dei temi più caldi, in quel momento, nel dibattito pubblico europeo. L’evento clou della visita – almeno da un punto di vista mediatico – è stato sicuramente l’intervista che Angelina ha rilasciato a Sanjay Gupta nell’ambito del suo programma su CNN. Gupta può essere definito un’icona del giornalismo «dal cuore grande»: neurochirurgo dell’ospedale di Atlanta, indicato dalla rivista «People» come uno degli uomini più sexy del mondo, è «corrispondente medico» di CNN, oltre che commentatore per il «Time» e per CBS News. Sempre più spesso Sanjay si trasforma in inviato speciale dell’emittente, soprattutto in occasione di grandi drammi umanitari, arrivando addirittura, mentre era embedded in Iraq nel 2003, ad operare civili iracheni e soldati americani in situazioni di emergenza.
La conversazione tra le due «celebrità» durante il programma entra immediatamente dentro i binari classici dell’umanitarianesimo televisivo: storie di anziani e bambini, di dignità e dolore. L’attrice, in diretta dal Pakistan, e il medico, forte di una sua recente «missione» nel paese, si raccontavano via satellite quello che avevano visto e soprattutto «provato» sul campo. Sul finale della conversazione, rispondendo ad una domanda di Gupta, la Jolie affermava: «Non ho molte persone con cui parlare di quello che sto facendo qui, non ho molti amici, ne parlo solo con Brad [Pitt]».
È stata però proprio quest’ultima frase, pronunciata via CNN, ad ampliare notevolmente lo spettro dei soggetti giornalistici per i quali la visita della Jolie nel paese asiatico diventava un evento altamente notiziabile: la «solitudine di Angelina» ha funzionato come un ariete in grado di far penetrare l’emergenza pakistana all’interno dello spazio di attenzione di un mondo di pubblicazioni, siti web e blog dedicati alla vita delle star e allo showbiz in generale. Se questa «missione Jolie» non ha offerto all’UNHCR la possibilità di fornire informazioni approfondite né sulla situazione pakistana, né sulla propria attività o su quella dei propri collaboratori e delle ONG partner nel paese, ha però massimizzato le opportunità di disseminazione della semplice informazione «in Pakistan ora c’è bisogno di aiuto», e questo era, evidentemente, l’obiettivo dell’operazione.
Nell’autunno dello stesso anno, Save the Children UK ha organizzato «Tacchi che uccidono per malattie che uccidono», iniziativa collegata ad una campagna di raccolta fondi per la prevenzione di epidemie come la malaria, mortali soprattutto per i bambini. Si trattava di un’asta per la vendita di scarpe da sera disegnate da stilisti di grido come Jimmy Choo, oppure calzate da star come Dita Von Teese, cui l’organizzazione aveva preventivamente chiesto in dono le «stiletto killer». L’asta in sé ha portato alla raccolta di una cifra non particolarmente elevata – circa cinquemila sterline – ma l’eco che la singolare iniziativa (non inedita per la verità) ha avuto sui media di tutto il mondo, e soprattutto sui portali web, che ne hanno approfittato per offrire ai loro lettori dettagliate gallerie fotografiche delle star coinvolte e delle calzature, ha rappresentato per l’organizzazione una grandissima opportunità di ottenere visibilità per sé e per la campagna. Se è vero che i media si sono concentrati più sulle «killer shoes» che sulle «killer diseases», Save the Children è riuscita a raggiungere, a costo zero, un pubblico estremamente vasto, con la possibilità di ottenere fondi a prescindere dall’asta.
Il «nuovo» Occidente, nato con la caduta del muro di Berlino, ha cercato disperatamente di tenersi unito attraverso ideali cosmopolitici come l’«umanitarianesimo» e la «cittadinanza globale». L’idea che le sciagure che colpiscono l’umanità in qualsiasi parte della terra, siano esse provocate dalla natura o dall’uomo stesso, riguardino ciascuno di noi è il corollario positivo alle teorizzazioni della «società del rischio» (Giddens 1997; Beck 2000): sconfitte le ideologie del Novecento, polverizzate le solidarietà tradizionali e scomparsa la fiducia che il progresso possa condurre ad un mondo sempre più ospitale e pacifico, l’uomo si è trovato solo e spaventato di fronte ad un futuro che percepisce ormai più come una minaccia che come un’opportunità. Quello della società del rischio è però un mondo di individui capaci anche di sviluppare empatia con il dolore di esseri umani lontani. Si tratta di legami effimeri e spesso irrazionali, le cui direzioni sono fortemente influenzate dalle rappresentazioni mediatiche del mondo, le sole attraverso cui la maggior parte delle persone costruisce le proprie mappe cognitive della realtà globale.
È evidente come questa mediatizzazione selettiva dell’emergenza umanitaria ad opera di attori politici e media non potesse non avere effetti sul lavoro di tutti quei soggetti non governativi che giocano un ruolo di primo piano nella gestione di tali situazioni. L’interesse dei grandi media per una particolare emergenza, conflitto o calamità naturale, determina una radicale quanto improvvisa trasformazione del contesto in cui questi attori non governativi si trovano ad operare e spesso anche delle risorse economiche che hanno a disposizione.
Le immagini di CNN, BBC World o Al Jazeera, con l’effetto a cascata che hanno sulle coperture di televisioni e giornali nazionali, sono in grado di attivare l’attenzione delle opinioni pubbliche, creando fenomeni di «globalizzazione della solidarietà» prima impensabili. Di fronte a questa che si configurava, almeno a prima vista, come un’incomprensibile «roulette russa», le organizzazioni non governative hanno iniziato, proprio nel decennio Novanta del secolo scorso, a sviluppare un atteggiamento ambivalente: da una parte un’attitudine fortemente critica nei confronti della macchina dell’informazione che sceglie poche crisi e «dimentica» (De Angelis 2007) moltissime altre situazioni, dall’altra la presa di coscienza sempre più chiara dei vantaggi connessi alla capacità di sviluppare una strategia produttiva nella relazione coi media.
Se un effetto CNN c’è stato, per le ONG ha significato soprattutto l’emergere di una sorta di «consapevolezza mediale» di sé, ovvero del proprio ruolo di attori nelle narrazioni mediali del mondo, con la conseguente necessità di lavorare sulla propria immagine. Si è andata dunque definendo in quegli anni, gli anni dell’esplosione della sofferenza in diretta televisiva, la necessità per le ONG di dedicare risorse significative alla comunicazione delle proprie attività e alla relazione con il mondo dell’informazione. In un sistema dove l’attenzione per le questioni internazionali è bassa ma dove l’interesse dei media può determinare una breve quanto intensa ondata di solidarietà globale, essere inclusi nel cono di luce proiettato dai riflettori delle televisioni satellitari diventava cruciale.
Anche per le agenzie impegnate nella gestione degli aiuti alle popolazioni civili o in attività di cooperazione e sviluppo nei paesi del Sud del mondo dunque, come per gli attori governativi, la mediatizzazione dello spazio internazionale ha determinato la necessità di fare i conti con la media logic, ridefinendo in parte l’ordine delle priorità nello svolgimento dei compiti professionali, o almeno obbligando a considerare nuovi elementi nelle valutazioni rispetto al successo di un’operazione. Si è trattato di acquisire una «mentalità d’impresa» e quindi di imparare a «vendere» se stessi e le proprie emergenze. Definire le caratteristiche del proprio «marchio» in contrapposizione con quello degli altri, offrire ai giornalisti informazioni, locations e storie che gli altri non hanno, coinvolgere celebrità come testimonial della propria attività, proteggere la propria reputazione dagli scandali, e soprattutto adattare le attività di comunicazione ai formati e ai tempi richiesti dalla macchina di produzione delle notizie, sono divenuti elementi cruciali per l’esistenza mediatica e dunque molto spesso anche per la sopravvivenza di una ONG (Cottle e Nolan 2007).
La logica del live journalism rende molto difficile l’approfondimento delle questioni e subordina la narrazione dei media all’imperativo dell’immediatezza. Adattarsi a questo principio, per le organizzazioni non governative e le agenzie internazionali responsabili di aiuti e cooperazione, le cui attività si sviluppano in lunghi periodi e si strutturano su progetti complessi, significa adottare strategie comunicative che inevitabilmente portano alla semplificazione del proprio lavoro e alla banalizzazione del contesto in cui si opera. Le ONG, tuttavia, non devono essere viste come semplici figuranti o soggetti passivi che non possono trarre vantaggi dalla mediatizzazione delle emergenze umanitarie. Nella relazione con il sistema dei media questi attori sono stati capaci di sviluppare strategie vincenti che hanno loro consentito di ottenere i propri obiettivi sfruttando al massimo le caratteristiche dell’ecosistema dei media.
La relazione inversamente proporzionale – evidente nel caso del viaggio di Angelina Jolie in Pakistan – tra l’ampiezza del raggio di disseminazione delle informazioni e le possibilità di approfondimento, determina spesso un differente approccio nella relazione con i giornalisti tra coloro che lavorano sul campo, e quindi maggiormente focalizzati sulla specifica realtà in cui si trovano ad operare, e coloro invece che, dalle sedi centrali delle stesse organizzazioni, sono maggiormente preoccupati della visibilità mediale dell’organizzazione. Nel 2004 Hilaire Avril, giornalista dell’IRIN, l’agenzia di informazione delle Nazioni Unite dedicata alla copertura delle questioni umanitarie, ha raccontato questa differenza in un articolo per il sito della Nieman Foundation for Journalism at Harvard: «Mentre mi preparavo per un viaggio in Kenya dove avrei realizzato un reportage sul Kakuma camp, il più grande campo di rifugiati sudanesi nel paese, ho chiesto informazioni agli uffici di New York delle principali ONG internazionali per avere contatti sul campo, ottenendo tutto ciò che mi serviva senza problemi. Tuttavia, una volta nel paese, ho trovato un approccio molto differente: nessuno aveva fiducia del fatto che avrei coperto l’intera storia e avrei spiegato la grandissima differenza che il loro lavoro, pur dovendo fare i conti con la scarsità di risorse, fa sulle condizioni di vita di quelle persone».
D’altra parte, però, il sistema del «giornalismo paracadute», che catapulta i reporter in angoli del pianeta a loro spesso ignoti, impone ai giornalisti forme di simbiosi con coloro che già si trovano sul campo, conoscono il contesto e soprattutto sono in grado di muoversi sul territorio. È evidente come questa condizione rappresenti una debolezza che le ONG possono sfruttare a proprio vantaggio nel momento in cui si mettano in condizione di poter realizzare vere e proprie forme di «embedding umanitario», offrendo informazioni e indicazioni ai giornalisti disorientati, permettendo loro di seguire le proprie attività portandoli con sé sul campo e, in alcuni casi, procurando loro una branda (Cottle e Nolan 2007). Come nelle più note forme di embedding militare, l’obiettivo è quello di creare, attraverso la condivisione di esperienze, empatia tra i giornalisti e gli operatori umanitari, che dovrebbe tradursi in coperture maggiormente attente e precise dell’attività di questi ultimi.
La definizione di grandi alleanze transnazionali tra piccole e grandi ONG nella realizzazione di momenti di sensibilizzazione può essere vista come uno dei risultati dello sfruttamento da parte di queste organizzazioni dello sviluppo di ambienti e discorsi mediatici transnazionali. Si tratta di una modalità d’azione che vede un framework globale sostenere e rafforzare lo sviluppo di iniziative nazionali o locali capaci di guadagnare l’attenzione dei media proprio in nome del loro legame con un «marchio» globale. La creazione di «giornate mondiali» dedicate ad un tema specifico, sia esso quello dell’acqua o della lotta all’AIDS, funziona secondo logiche di questo tipo. A temi che non riescono mai a superare i filtri del sistema dell’informazione a causa della loro complessità, o per il fatto che non sono caratterizzati da evoluzioni brusche, viene attribuito un preciso momento di attenzione massima attraverso l’istituzione di una giornata dedicata, una sorta di «punto esclamativo» globale che aiuta quella particolare questione ad emergere dal mare di notizie. L’attenzione globale, creata soprattutto dai media transnazionali, farà sì che i singoli sistemi nazionali dell’informazione cerchino storie che coinvolgano «eroi» locali, dando spazio alle storie e alle voci dell...

Indice dei contenuti

  1. Prologo. Giornalismo e affari internazionali, ancora «roba da professionisti»?
  2. I. Per sconfiggere il tuo «nemico» diventa suo amico... su Facebook!
  3. II. Da ambasciatori a «community managers»: la diplomazia cambia pelle?
  4. III. Imparare cosa serve in Tv e saper fare da soli sul web
  5. Epilogo. «Wikileaks»: uno scontro frontale per una foresta di alleanze
  6. Riferimenti bibliografici
  7. Ringraziamenti