Controcorrente
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Intervista sulla sinistra al tempo dell'antipolitica

  1. 184 pagine
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Intervista sulla sinistra al tempo dell'antipolitica

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Chi vincerà la sfida dei prossimi anni, la politica o l'antipolitica?Massimo D'Alema va controcorrente e scommette su una sinistra rinnovata per fermare l'avanzare di movimenti di impronta populistica. In questa lunga intervista si sommano la cronaca dei trent'anni passati con autocritiche finora mai pronunciate e punti fermi ribaditi. D'Alema pensa a una sinistra più europea per contrastare l'eterno ritorno del nuovismo, il mito della società civile, le suggestioni tecnocratiche. La sinistra 'controcorrente' di D'Alema si libera dagli ingombranti fardelli del passato ma non accetta le scorciatoie liberiste in economia e plebiscitarie nel sistema politico. È una sinistra che lascia ai più giovani una lettura severa del recente passato ma anche la traccia per diventare classe dirigente.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788858107294
Argomento
Economics

1. L’addio al Pci e alla Prima Repubblica

D. Nel luglio del 1994, appena eletto segretario del Pds, hai esordito dicendo: «Il compito della mia generazione è portare la sinistra italiana al governo del Paese. Altre generazioni hanno fatto cose fondamentali: hanno riconosciuto la democrazia, hanno rinnovato il Paese. Ora, per noi, il problema è il governo: vogliamo essere messi alla prova». Una generazione, la tua, di dirigenti che, in effetti, si sono portati oltre il Pci, hanno fondato un nuovo partito e ce l’hanno fatta a portare la sinistra al governo. Ma è anche la stessa che si è divisa, che ha perso alcuni appuntamenti importanti. Non pensi che per capire meglio questo percorso bisogna partire da quella svolta che, insieme alla caduta del Muro di Berlino, cambiò la sinistra e la politica italiana?
R. La caduta del Muro colse il Pci in pieno declino. Dopo i momenti più alti nella metà degli anni Settanta e dopo il picco di consensi alle europee dell’84, condizionato dall’emozione per la scomparsa di Enrico Berlinguer, il Pci appariva un partito privo di prospettiva. Era evidente la decadenza dell’intero sistema politico italiano, ma il Pci non si mostrava capace di offrire al Paese una proposta alternativa. Insomma, una ricollocazione strategica era necessaria già prima dell’89. In questo senso, il cambiamento fu tardivo. Quando avvenne fu liberatorio e costituì, oltre ogni altra considerazione, un merito indiscutibile di Achille Occhetto. A suo modo, Occhetto è stato il Gorbaciov italiano: come lui, ha avuto il grande coraggio di tagliare i ponti, ma ha anche avuto la sua stessa fragilità nel costruire le fondamenta della nuova stagione.
D. Occhetto annunciò il cambio del nome del Pci il 12 novembre dell’89 alla sezione della Bolognina. Ne aveva parlato con voi, cioè con il gruppo dirigente del Pci?
R. Da settimane discutevamo sulla necessità di un cambiamento radicale. Eravamo concentrati soprattutto sull’adesione all’Internazionale socialista, che avrebbe dovuto segnare il nostro passaggio a pieno titolo nel campo del socialismo democratico. Niente di più. La decisione di forzare i tempi fu una scelta personale di Occhetto. A dire il vero, alla Bolognina non fece un vero e proprio annuncio: alla domanda di un giornalista sul cambio del nome del partito, si limitò a non escluderlo. Ricordo che quel 12 novembre ’89, era domenica, ero riuscito a ritagliarmi una mezza giornata per un giro in barca a vela. Mi trovavo tra Ponza e il Circeo insieme a Federico Geremicca, cronista politico dell’«Unità», di cui ero direttore. A fine mattinata mi riferirono le dichiarazioni della Bolognina. Non avemmo dubbi sul fatto che ormai il passo era compiuto e non sarebbe stato più possibile tornare indietro. Per questo anche «l’Unità» diede alla dichiarazione di Occhetto il valore di un annuncio, come gli altri quotidiani. E quella domenica l’emozione e la tensione non ci lasciarono. Il giorno successivo si riunì la segreteria. Occhetto si presentò con un testo scritto, battuto a macchina. Non era mai accaduto. Quella riunione, solitamente informale, divenne solenne.
D. Tu che cosa dicesti?
R. Parlammo tutti poco, perché prendemmo atto della decisione del segretario. Dopo la riunione, andai da mio padre. Il suo legame con la storia del Pci era molto forte: si era iscritto nel ’37, era stato uno dei protagonisti della Resistenza, aveva dedicato l’intera vita al partito e alla lotta politica. E da pensionato continuava a seguire con grande passione le nostre vicende. Mi colpì l’estrema determinazione con cui si espresse subito a favore della “svolta”. Gli manifestai anche alcune mie perplessità sui modi con cui era stata presentata, su un eccesso di leggerezza, ma lui non le giudicò essenziali. Nonostante la sua abitudine al rigore delle discussioni interne al partito, mio padre mi disse che Occhetto aveva fatto bene ad agire in modo irrituale, perché altrimenti si sarebbe impantanato. E non era il solo a pensarla così tra gli anziani del partito: molti di loro videro nella “svolta” un vero e proprio atto salvifico.
D. Vi aspettavate un fronte del no così robusto? Avevate messo in conto una scissione?
R. La speranza di rinnovamento democratico del movimento comunista dall’interno, che il Pci aveva coltivato nelle varie fasi della sua storia e che la stagione di Michail Gorbaciov aveva alimentato, si era infranta nella durezza e nella irreversibilità della crisi dei regimi dell’Est europeo. Ma non era questo il giudizio di tutti. La contestazione di Armando Cossutta ci allertò sulla possibilità di una scissione. Mi sorprese, invece, la posizione di Pietro Ingrao. Non era scontata. Ingrao, in fondo, era espressione di una sinistra che già si pensava oltre la tradizione comunista. E con la sua cultura, Ingrao avrebbe potuto benissimo diventare l’anima di sinistra del nuovo partito. In lui ci fu, invece, un’ostilità immediata alla “svolta” e un ripiegamento identitario, di cui tuttora non riesco a ricostruire per intero le ragioni.
D. Nell’89 tu avevi quarant’anni. Nella tua vita avevi mai pensato a un impegno politico fuori dal Pci?
R. Una sola volta sono stato sul punto di lasciare il partito. Fu quando venne espulso il gruppo del Manifesto, nel ’69. Ero a Pisa e, dopo una drammatica notte di discussione con il mio amico Fabio Mussi, decidemmo insieme di restare. Penso che Rossana Rossanda non me l’abbia mai perdonato. Ma io non immaginavo possibile un mio impegno altrove. Eravamo comunisti, ma lo eravamo a modo nostro. A 19 anni mi trovai per caso a Praga con un amico il giorno dell’invasione russa: non avemmo la minima esitazione a mescolarci con i giovani che si ribellavano e nell’incoscienza del pericolo anch’io disegnai una svastica con il gesso su uno dei carri armati. Ci sentivamo forti delle nostre idee, ma anche delle radici nazionali e popolari che il Pci aveva sviluppato e della scelta democratica sancita dal patto rappresentato dalla Costituzione italiana. Poi, sul finire degli anni Ottanta, mutò rapidamente l’orizzonte. La verità è che tutti noi ci accorgemmo in ritardo che potevamo far vivere le risorse della sinistra italiana solo fuori dal perimetro del comunismo.
D. Il Pci che stava diventando Pds doveva fare i conti con una crisi acuta del sistema politico, con un rapporto molto conflittuale con il Psi, con un movimento referendario che cresceva e talvolta sembrava prendere la guida dell’opposizione.
R. Nell’impostazione di Occhetto e di tutti coloro che sostenevano la “svolta”, il tema della nuova identità della sinistra non è mai stato separato da quello della crisi del sistema politico italiano e del suo possibile sblocco. Se la nostra discussione fosse stata solo ideologica, concentrata sulla natura e sulle sorti del comunismo, avrebbe prodotto chissà quale risultato. Il problema che stavamo affrontando, invece, era l’impatto della caduta del Muro e della fine della Guerra Fredda sul nostro sistema malato. Un sistema nel quale era abortito, negli anni Settanta, un atteso ricambio di classi dirigenti, ovviamente anche per incapacità del Pci. Un sistema dove la questione morale, intesa in chiave non moralista, era plasticamente incarnata dal declino del ruolo propulsivo dei partiti e da una loro progressiva, sistematica occupazione dello Stato. La trasformazione del Pci e la costruzione di un partito nuovo era una necessità, ma anche una grande occasione. Tuttavia, all’epoca, non pochi polemizzarono con noi, sostenendo che parlavamo della crisi italiana per sottrarci all’autocritica sul fallimento del comunismo o per attutirne gli effetti. In realtà, di lì a poco, assistemmo al crollo del nostro sistema politico. E la causa non fu certo un complotto: erano marcite le strutture portanti.
D. D’Alema fu presentato allora, ma anche dopo, come un frenatore della “svolta”. Era vero?
R. In quei mesi, due erano i miei obiettivi principali: dare basi solide al processo che si apriva e coinvolgere la maggior parte possibile delle nostre forze. Altro che frenatore! Ero un sostenitore convinto della “svolta” e non volevo che sbandassimo alla prima curva. Per il nostro popolo la fine del Pci fu un dramma. Un giorno, in una riunione di partito, dissi che l’errore più grande che avremmo potuto fare sarebbe stato dare l’impressione che la nostra scelta fosse una mossa politica. Ero refrattario all’ideologia della “svolta”, quasi che il cambiamento bastasse di per sé a definire un progetto. Mi infastidivano le battute superficiali e sferzanti di alcuni dirigenti, le frasi del tipo “il comunismo è un bambolotto di pezza”, che avevano l’effetto di banalizzare il travaglio di tante persone. In realtà, quel passaggio provocò sofferenze vere: la divisione passò per le famiglie, molti si interrogarono sul senso della propria vita. Temevo il rischio di una separazione di natura etica tra un gruppo dirigente e un popolo. E penso di aver contribuito per la mia parte, da uomo dell’istituzione-partito, ad allargare il consenso alla proposta di Occhetto. Tanto che lui stesso, tra il primo congresso della “svolta” e il congresso di Rimini di fondazione del Pds, mi richiamò dall’«Unità» per affidarmi l’incarico di coordinatore della segreteria. Non sarebbe potuto accadere se fossi stato un frenatore.
D. Con Occhetto però ci furono subito contrasti.
R. Mi apparve via via come un limite la fragilità delle basi culturali della “svolta”. Il difetto vero era il “nuovismo”, le cui conseguenze negative divennero evidenti negli anni successivi e culminarono nella sconfitta politica alle elezioni del ’94. Mancò allora un’approfondita riflessione sul Pci, su ciò che era morto e ciò che era vivo del comunismo italiano. L’ideologia del nuovo tendeva a considerare il passato, tutto il passato, come qualcosa da cui fuggire. Anche la fiducia verso un’indistinta società civile conteneva il giudizio di una sostanziale inutilità dei partiti. Il nostro problema non era solo quello di salvare la parte onorevole della storia del Pci. Il problema ben più grande era radicare la nuova sinistra che stava nascendo nella storia nazionale. Allora la rete dei rapporti politici fu demonizzata con l’uso della categoria del “consociativismo”, ossia una sorta di patto di potere occulto tra i grandi partiti che avrebbe irretito per decenni la società italiana e impedito una sua possibile modernizzazione. In realtà, ci fu anche il consociativismo nella Prima Repubblica, ma ci furono insieme conflitti ideali e politici di straordinaria intensità e un sistema democratico che nella sua dialettica favorì grandi trasformazioni sociali e positivi cambiamenti per il Paese. Il partito che stava per nascere sarebbe stato più forte se avesse avuto coscienza maggiore del suo radicamento nella nostra storia democratica. Il nuovismo, invece, ha fondato l’illusione di una Seconda Repubblica senza storia, che sta ancora producendo effetti nefasti nel Paese.
D. L’area migliorista del Pci, penso a Giorgio Napolitano, Paolo Bufalini, Gerardo Chiaromonte e Emanuele Macaluso, sostenne il cambiamento, ma pensava che la “svolta” dovesse servire anzitutto a un rapido approdo nella famiglia socialista. Avevano torto o ragione?
R. Per una forza di sinistra come la nostra, l’ancoraggio all’esperienza socialista sarebbe stato certamente l’esito più corretto dal punto di vista della grammatica politica. Ma, purtroppo, da noi l’obiettivo era allora irrealistico. Lo spazio socialista era occupato da un partito, il Psi, che faceva parte a pieno titolo del sistema di potere che stava declinando. Insomma, non avremmo potuto presentare il nuovo partito che stavamo fondando come l’autentico Partito socialista italiano. Né potevamo aderire alla parola d’ordine dell’“unità socialista” che Bettino Craxi ci proponeva. Sono stato, negli anni precedenti alla “svolta”, un duro oppositore della politica di Craxi e con i dirigenti del Psi ce le siamo date di santa ragione. Mi consideravano un colonnello berlingueriano, ma non mi sono mai sentito un antisocialista. Non condividevo la tentazione “oltrista”, che pure stava prendendo piede al nostro interno: non aveva senso un distacco dal socialismo europeo in termini di valori e non si poteva fondare il Pds immaginando che la sinistra liberale o un’immersione nei movimenti fossero sufficienti a definirne l’identità. Quando Craxi lanciò l’unità socialista, scrissi che la prospettiva era in sé giusta, ma che, tuttavia, i proponenti non erano credibili per l’impresa. Avvertivamo acutamente la crisi del sistema politico e intendevamo preservare il nuovo partito dal suo crollo, anziché spenderlo per tamponare provvisoriamente le falle.
D. Nel marzo del ’90, tra il congresso della “svolta” e quello fondativo del Pds, tu e Walter Veltroni avete incontrato Craxi nel camper dell’assemblea organizzativa del Psi a Rimini. Fu il vostro primo faccia a faccia? Cosa vi siete detti?
R. Con Craxi avevo avuto sporadici incontri. Quella fu la prima volta in cui parlammo distesamente. Lo spazio del camper era angusto, ricordo che c’erano due divanetti. Craxi ne occupava uno per intero, con il corpo parzialmente reclinato e il gomito poggiato su un bracciolo. Veltroni ed io eravamo affiancati, e piuttosto stretti, nell’altro divanetto. Giuliano Amato, il quarto partecipante all’incontro, sedeva su uno sgabello alto. Noi due avevamo una missione precisa: chiedere a Craxi di non interrompere la legislatura. Infatti, le elezioni anticipate avrebbero colto il nostro partito in mezzo al guado: ci eravamo avventurati nella macchinosa procedura dei due congressi e sarebbe stato un guaio presentarci agli elettori nell’incertezza persino sulla nostra identità. Craxi acconsentì e prese un impegno che poi mantenne. Penso che l’abbia fatto anche per altre ragioni, a cominciare dal suo buon rapporto con il gruppo dirigente della Dc, che da poco aveva messo in minoranza Ciriaco De Mita. Va detto, tuttavia, che Craxi non ci fu ostile in quel frangente. Non ostacolò neppure il nostro avvicinamento all’Internazionale socialista. Formalmente avrebbe potuto porre il veto all’ingresso del Pds nell’Internazionale. Non gli sarebbe stato facile, viste le nostre positive relazioni con i maggiori partiti socialisti europei e soprattutto con Willy Brandt, ma comunque va dato atto a Craxi di essersi sempre espresso favorevolmente nelle sedi ufficiali. Nel colloquio dentro il camper rimasi colpito da alcune sue parole amare, addirittura sprezzanti, rivolte verso il suo partito. Disse qualcosa come: se avessi avuto la possibilità di dirigere un partito vero, come il vostro, forse avremmo cambiato l’Italia. Craxi si sentiva uno sconfitto, ma aveva ancora una carta da giocare: il suo disegno politico era tornare alla guida del governo, nella legislatura successiva, con una maggioranza nuova che comprendesse anche noi. A questo serviva l’unità socialista. Craxi, al di là delle sue discutibili scelte e delle responsabilità che si assunse, era un uomo di sinistra. E, proprio perché si sentiva di sinistra, sono sempre stato convinto che non sarebbe mai finito nel melting pot della destra poi costruito da Silvio Berlusconi. Il suo ultimo disegno naufragò all’indomani del voto del ’92: il quadripartito che reggeva il governo Andreotti subì un duro colpo elettorale, il Pds rifiutò il sostegno a un eventuale governo Craxi e la sconfitta definitiva per il segretario socialista fu l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale.
D. Un’altra personalità con cui il neonato Pds ha dovuto fare i conti è stato l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Fu lui a riaprire al Pds, ma con la vicenda Gladio fu azzoppato. Il Pds chiese allora l’impeachment. Sparaste sulla Croce Rossa?
R. Fu Giulio Andreotti a svelare Gladio. E Cossiga si scagliò contro di lui con grande violenza. Ma togliere il segreto su Gladio era una scelta che andava nel senso di liberare la Repubblica dai condizionamenti del passato, cioè dal peso della Guerra Fredda, di cui l’organizzazione segreta “Stay Behind”, predisposta d’intesa con gli americani in funzione anticomunista in diversi Paesi europei, fu una delle espressioni più inquietanti. Su Gladio ci battemmo con energia e organizzammo una grande mobilitazione. La posizione del capo dello Stato ci apparve decisamente contraddittoria. L’aver formalizzato, alla fine del ’91, la richiesta di impeachment è stata probabilmente una forzatura, ma il conflitto politico aveva la sua ragion d’essere.
D. Il Pds si schierò, dunque, dalla parte di Andreotti contro Cossiga?
R. Così pensava Cossiga... Una mattina, alle sette o forse prima, squilla il telefono di casa mia. È il centralino del Quirinale, che mi passa il presidente. Parla Cossiga: «Segnalo a voi del grande partito della sinistra che il vostro eroe, l’onorevole Andreotti, è il capo della mafia». Sono colto di sorpresa, un po’ assonnato, e provo a cavarmela con una risposta spiritosa: «Benché sia illegittimo controllare il telefono di un deputato, lei sa che sono intercettato». La replica di Cossiga è immediata e straordinaria: «Sì, ma il maresciallo che ci ascolta sa benissimo cosa dico, non è mica un coglione come voi». Insomma, Cossiga non si rassegnava al conflitto con noi. Ci chiamava «i ragazzi della via Pál», ma, pur in modo confuso, cercava di strattonarci per riportarci su un terreno di confronto. Personalmente, con Cossiga ho sempre avuto un buon rapporto, anche perché è stato amico di mio padre. Col tempo gli ho voluto bene e sono convinto che lui ne volesse a me. Tuttavia, in quegli anni non mi risparmiò nulla.
D. Che cosa non ti risparmiò?
R. C’è un’altra vicenda, per me inquietante. Si svolse tra la primavera e l’autunno del ’91, a cavallo del golpe di Mosca. Un commercialista romano avvicinò un funzionario importante del Pds per dirgli che alcuni suoi clienti a Mosca erano intenzionati a esportare capitali fuori dalla Russia e si sarebbero volentieri serviti di vecchie linee di credito su conti esteri, da anni ormai inutilizzate, per i finanziamenti del Pcus al Pci. Se avessimo acconsentito, avremmo avuto un compenso del 10% che, ci fu detto, corrispondeva allora a 400 miliardi di lire. Ero il coordinatore della segreteria e il funzionario mi riferì immediatamente dell’incontro. Gli dissi non solo che l’offerta era assolutamente da respingere, ma che bisognava avvertire subito Gorbaciov. Chi poteva conoscere quelle linee di credito se non ristrettissimi apparati, probabilmente dei Servizi segreti? Cosa stava accadendo in Russia se qualcuno meditava di trasferire di nascosto all’estero somme così ingenti? Il funzionario andò a Mosca a parlare con il capo della segreteria di Gorbaciov. E dopo poche settimane, ad agosto, ci fu il tentativo di golpe. Ma l’aspetto inquietante di questa storia fu che, un paio di mesi dopo, Cossiga mi convocò al Quirinale e mi chiese, a brutto muso, perché avessi partecipato a un’operazione per esportare fondi neri provenienti da Mosca. Era a conoscenza dell’incontro del nostro funzionario con la segreteria di Gorbaciov. Gli risposi che, dal momento che eravamo spiati, avrebbe dovuto sapere che noi all’operazione non a...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. L’addio al Pci e alla Prima Repubblica
  3. 2. Vince Berlusconi e si prepara Prodi
  4. 3. Le cose buone di un governo che non dovevo fare
  5. 4. Pd, amalgama malriuscito?
  6. 5. La destra, la sinistra e Beppe Grillo
  7. 6. Monti e oltre
  8. Gli Autori