VI. Il cinema narrativo dalla classicità al World Cinema contemporaneo
Storicamente il ruolo e la presenza delle donne nella regia cinematografica hanno avuto uno statuto diverso a seconda delle forme filmiche implicate. Questa diversità non è dovuta a motivi creativi o professionali, ovvero a fantomatiche capacità o incapacità delle donne a muoversi in determinati contesti artistici: può essere spiegata solo in termini produttivi. Nella storia del cinema ogni forma filmica si è infatti sviluppata in rapporto a specifici contesti economico-produttivi. Un’analisi anche superficiale di queste dinamiche mostra che le donne sono riuscite a diventare registe senza grandi difficoltà solo quando si sono trovate di fronte a un modo di produzione che comportasse capitali ridotti. Come abbiamo visto nel quarto e nel quinto capitolo, il periodo del muto sino a fine anni ’10 è una sorta di Golden Age della regia femminile, che finisce quando il sistema artigianale o paraindustriale cinematografico viene sostituito da un sistema di produzione capitalistico. In modo analogo, proprio il fatto che l’avanguardia ha sempre richiesto capitali esigui spiega perché le donne non abbiano mai avuto difficoltà a fare film sperimentali. Per motivi in parte simili, il coinvolgimento delle donne con la forma documentaristica è stato altrettanto significativo.
In questo contesto appare comprensibile perché le donne abbiano invece avuto un accesso difficile alla regia nel contesto del cinema narrativo «dominante», ovvero la forma «industriale» per eccellenza, inclusa Hollywood. Evidentemente solo di rado si è corso il rischio di affidare grandi capitali alle donne. Basta ricordare che in tutto il periodo della Hollywood classica (1930-1960) lavorano solo due registe, Dorothy Arzner e Ida Lupino. Ma solo la prima, come vedremo, lavora per le grandi case di produzione. Lupino gira B films prodotti dallo studio da lei stessa fondato.
È con le Nouvelles Vagues, e in generale il nuovo cinema d’autore degli anni ’60, che la regia femminile si manifesta nel cinema narrativo in modo un po’ più deciso. Accanto ai più famosi autori maschi lavorano contemporaneamente autrici di grande valore e i cui film condividono molte delle opzioni estetiche dei colleghi. Si pensi in particolare alla francese Agnès Varda, alla cecoslovacca Věra Chytilová, ma anche all’ungherese Márta Mészáros, alla svedese Mai Zetterling e a Lina Wertmüller. Se il loro cinema è stato di solito considerato in relazione ai rispettivi movimenti nazionali, possiamo guardare a queste esperienze anche in un contesto transnazionale: vi è infatti una relazione stretta tra nuove forme della sessualità femminile e procedure stilistiche innovative.
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, uno degli effetti del movimento delle donne è stato lo sviluppo del cinema d’avanguardia femminista. Per tutti gli anni ’70 e la prima metà degli anni ’80, salvo alcune eccezioni, il miglior women’s cinema si è cimentato con la narrazione sperimentale. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 emerge, per poi svilupparsi in modo esponenziale, una nuova forma di women’s cinema che ha i tratti di ciò che da tempo chiamiamo cinema indipendente. È la linea femminile di quel cinema che si è sviluppato negli Stati Uniti attorno al Sundance Film Festival, ma che poi si è diffuso un po’ dappertutto. Si tratta di un cinema narrativo e al tempo stesso autoriale, che spesso predilige storie di marginalità o di sofferenza, a volte minimali, con protagoniste giovani, e in cui stile e immaginario si nutrono spesso di forme edulcorate della modernità europea degli anni ’60 (tempi morti, pianisequenza, montaggio discontinuo, personaggi inattivi). Da circa vent’anni il women’s cinema ha assunto questi tratti praticamente ovunque, anche se la produzione americana è ovviamente più ampia e più visibile. Il tratto transnazionale già rilevabile in parte nelle registe della Nouvelle Vague è divenuto più marcato soprattutto nel caso della produzione cinematografica dei paesi non occidentali, ovvero nel World Cinema.
1. La regia femminile nel cinema classico americano: Dorothy Arzner e Ida Lupino
La difficoltà, o l’impossibilità quasi, per le donne di accedere alla regia quando il cinema consolida la sua struttura industriale si può cogliere a partire dalla situazione americana. Nell’industria cinematografica più importante del pianeta, capace di produrre negli anni ’30 circa 600 film l’anno, riescono a lavorare solo due registe, Arzner e Lupino. Nella maggior parte dei paesi si registra invece una totale assenza. Tra i pochi esempi va ricordato il film tedesco di Leontine Sagan Mädchen in Uniform (Ragazze in uniforme, 1931), che racconta l’infatuazione di una giovane ragazza per la sua insegnante in un collegio per sole donne. Uscito poco prima dell’avvento di Hitler, il film ebbe inizialmente un grande successo e ottenne l’apprezzamento di importanti studiosi come Siegfried Kracauer e Lotte Eisner per le sue qualità sonore e fotografiche, e più in generale per il suo stile espressivo sofisticato. Per molto tempo la sua reputazione è dipesa dal suo messaggio antiautoritario e antifascista, mentre la questione del desiderio tra donne è rimasta ai margini. Com’è accaduto per le pioniere del cinema, dopo decenni di oblio il film è stato riscoperto a inizio anni ’70 dalle studiose femministe ed è tornato a circolare. In questo nuovo scenario critico, Ragazze in uniforme è stato reinterpretato come primo film lesbico. Se all’inizio gli «storici del cinema tendevano a tralasciare, minimizzare o trivializzare l’interesse centrale del film per l’amore tra donne», ora appare evidente che esso «non è solo un film antifascista, ma anche antipatriarcale» (Ruby Rich 1998: 180-181). Attraverso lo scontro tra la preside autoritaria e l’insegnante affettiva e materna, che si oppone ai metodi prussiani della scuola, il film sostiene la libertà emotiva delle donne e, in definitiva, anche il desiderio omoerotico. Il film si nutre inoltre dello spirito dell’epoca quando a Berlino l’omosessualità era vissuta in modo libero e aperto.
Desiderio, sessualità e dinamiche dell’identità non tradizionali sono sempre il fulcro del women’s cinema, non solo nelle sue espressioni avanguardistiche, come abbiamo visto nell’ultimo capitolo, ma anche nelle sue forme narrative più «tradizionali».
Quando Leontine Sagan realizza Ragazze in uniforme, a Hollywood Dorothy Arzner ha già diretto numerosi film, avendo iniziato la sua carriera di regista, alla Paramount, nel 1927. Dal 1927 al 1943 Arzner dirige 17 film, prima di lasciare Hollywood. Ma la regista non abbandona il cinema e continua a essere attiva anche in altri ambiti dello spettacolo. Gira cortometraggi, scrive un programma radiofonico, insegna cinema alla UCLA, lavora per il teatro e gira una cinquantina di spot pubblicitari per la Pepsi-Cola su richiesta di Joan Crawford (Mayne 1994: 80-86). Come regista cinematografica Arzner cade presto nel dimenticatoio, ma verrà anch’essa riscoperta a inizio anni ’70 da alcune studiose femministe, sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna (Mayne 1994: 86-90; Johnston 1988).
Così come per le registe dimenticate del muto, il cinema di Arzner va interpretato in relazione alla più ampia produzione hollywoodiana. L’opera di Arzner, infatti, si concentra sistematicamente su figure femminili, anche in periodi in cui la donna perde la centralità che ha tra fine anni ’20 e inizio anni ’30. Il modo di rappresentazione di Arzner non sembra seguire i cambiamenti storici che il cinema hollywoodiano mostra. Nella seconda metà degli anni ’30 domina la forma classica, ovvero una forma dove convergono uno stile trasparente e un immaginario dominato da rapporti di gender tradizionali, in cui la donna non può più ambire alla libertà sessuale ed economica degli anni precedenti. In sintonia con l’ideologia rooseveltiana, in questo periodo le dinamiche dominanti del desiderio tendono a valorizzare famiglia e matrimonio, decretando dunque per la donna un palese arretramento rispetto alle conquiste degli anni precedenti (Pravadelli 2007).
Arzner però appare riluttante verso questo cambiamento. Il suo cinema, infatti, non segue la nuova onda e continua a narrare figure di donna poco inclini al compromesso con i valori patriarcali. E anche la messa in scena non si appoggia a strategie invisibili, ma attira l’attenzione della spettatrice attraverso scelte espressive. Claire Johnston, tra le prime a riscoprire e studiare Arzner negli anni ’70, ha sostenuto che una pratica filmica femminista comporta la rottura delle regole del cinema dominante. Ponendosi sulla scia delle tesi espresse sin da fine anni ’60 nei «Cahiers du Cinéma» sul rapporto tra cinema e ideologia, Johnston avvalora il concetto di progressive text per spiegare la possibilità di una posizione testuale critica nei confronti dell’ideologia dominante. Posto che il cinema e il film sono «un prodotto ideologico, il prodotto di una ideologia borghese» (Johnston 1978: 63), non è vero, come affermano Jean-Louis Comolli e Jean Narboni nell’intervento che ha dato avvio al dibattito, che ogni film è «imbevuto dall’inizio alla fine dall’ideologia dominante [...] in forma pura e non adulterata». Soltanto il classic realist text «accetta il sistema stabilito di rappresentare la realtà»; al contrario, il progressive text «sembra a prima vista appartenere fermamente all’ideologia ed esserne dominato», ma invece risulta legato ad essa in modo ambiguo. Guardando la struttura del film si possono cogliere due momenti: uno in cui il testo sembra restare entro certi limiti, un altro in cui li trasgredisce. Se si legge «il film obliquamente, cercando sintomi, e se si guarda oltre l’apparente coerenza formale, si vedrà che il film è cosparso di crepe: è diviso da una tensione interna che non si riscontra in un film ideologicamente innocuo» (Comolli e Narboni 1969: 13-14).
Il gesto critico-teorico di Johnston consiste nell’appropriarsi di questa suggestione e di riformularla in chiave femminista: esistono, cioè, all’interno del cinema hollywoodiano, progressive films in relazione alla differenza sessuale, all’articolazione del rapporto maschile/femminile? Come si rintracciano sul testo queste operazioni? È dunque possibile un controcinema all’interno del sistema? Nei film di Arzner vi è una frattura tra ideologia e testo: attraverso espedienti formali, nel film si produce una dicotomia tra ideologia sessista e costruzione testuale. In Dance, Girl, Dance (1940), per esempio, nel finale Judy restituisce lo sguardo alla platea gridando il suo disprezzo per quel pubblico. Lo sguardo di Judy rompe la costruzione testuale dominante secondo cui la performer è solo oggetto di sguardo, e così facendo produce una critica all’immagine della donna come spettacolo. Judy sovverte espressamente la dinamica di sguardo teorizzata da Laura Mulvey. Il personaggio femminile si appropria di una prerogativa maschile e il suo sguardo si configura come un’aggressione diretta al pubblico diegetico ed extradiegetico (del film).
Nel cinema di Arzner è iscritto uno specifico discorso femminile e la donna afferma la propria identità attraverso il desiderio e la trasgressione. Il discorso femminile non solo dà coerenza al testo, ma si pone in conflitto con quello maschile, rendendo quest’ultimo incoerente e frammentato: «Le protagoniste femminili reagiscono e trasgrediscono il discorso maschile che le accerchia. La forma della trasgressione dipende dalla natura del discorso in cui sono prese. Queste donne non spazzano via l’ordine esistente fondando un nuovo regime simbolico femminile. Piuttosto, affermano il loro discorso in faccia a quello maschile rompendolo, sovvertendolo e, in un certo senso, riscrivendolo» (Johnston 1988: 39). Il film viene così percorso da una serie di contraddizioni tra la specifica gerarchia di discorsi interrelati presenti in esso e il discorso dell’ideologia dominante (in questo caso quella del patriarcato). Per esempio, in Craig’s Wife (La moglie di Craig, 1936), il discorso maschile, e la sua idea di casa come focolare domestico, rifugio dal mondo esterno, viene dislocato dal discorso femminile, dall’ossessione di Harriet Craig per l’ordine e la pulizia. Così la casa viene sottoposta a un processo di straniamento nel senso sklovskiano del termine: «i segni di un baule trascinato per il pavimento o di qualcuno che si è seduto sul letto acquistano un significato sinistro all’interno del film» (Johnston 1988: 41). E i finali spesso tragici rappresentano un ulteriore esempio del rifiuto della regista della convenzionale risoluzione hollywoodiana e un bisogno di spingere il discorso femminile sino al limite estremo.
Nel cinema di Arzner il problema del desiderio femminile è dunque centrale. La donna è presa nel sistema di rappresentazione patriarcale e cerca in qualche modo di contrastare le richieste del simbolico. I modi particolari della messa in scena rendono evidente queste dinamiche alla spettatrice, in quanto tramite strategie retoriche il film «rompe l’identificazione con i personaggi e sposta la nostra attenzione sulla posizione problematica che essi occupano nel mondo [...]. Il posto dell’audience nel film e di quella del film è disturbata, creando una rottura tra audience e ideologia della donna come spettacolo». All’identificazione si sostituisce la comprensione: così nel finale di Dance, Girl, Dance l’identificazione con la protagonista viene sostituita da «una comprensione del processo irto di contraddizioni che regola il nostro rapporto con l’ideologia». In particolare, lo spettatore non può che riconoscere «le difficoltà che il desiderio femminile incontra nel sistema patriarcale» per trovare espressione (Cook 1988: 48). Dislocare il processo di identificazione appare dunque fondamentale per attivare un processo di analisi conscia. In Merrily We Go to Hell (1932), per esempio, questa strategia viene messa in pratica attraverso i seguenti dispositivi: la struttura episodica, l’interruzione narrativa tramite gag o «momenti pregnanti», i rovesciamenti narrativi che disturbano la linearità, il lavoro sugli stereotipi. Questi procedimenti mostrano il testo come un «processo dialettico tra immagine e racconto e, implicandoci come spettatori, mette in questione le forme della rappresentazione cinematografica attraverso cui l’ideologia tenta di darci un posto fisso» (Cook 1988: 56). In definitiva, le strategie di rovesciamento servono a costruire una spettatrice attiva capace di intervenire nell’attività critica o in quella registica per mutare il corso degli eventi.
Se Arzner lavora nel periodo classico dello studio system, quando a fine anni ’40 Ida Lupino comincia a cimentarsi nella regia il contesto produttivo hollywoodiano sta cambiando. Lupino, nata e cresciuta in Gran Bretagna, inizia una carriera di attrice nel paese di origine, prima di trasferirsi a Hollywood ingaggiata da Paramount. Per questa casa di produzione lavora dal 1933 al 1937, poi nel 1940 firma un contratto con Warner Brothers che la legherà allo studio sino al 1947. Pare che Lupino stessa amasse definirsi «la Bette Davis dei poveri», evocando la somiglianza dei ruoli interpretati, ma il suo minore glamour, rispetto alla diva dello studio (Kuhn 1995: 2). Nel 1948 fonda la casa di produzione indipendente Emerald Productions, rinominata un paio d’anni dopo The Filmakers.
Nel 1948 la famosa sentenza della Corte Suprema sul caso Paramount decreta l’incostituzionalità del monopolio dei grandi studios (Big Five), ordinando agli stessi di vendere le sale cinematografiche di proprietà. Il successo economico dei Big Five era infatti dovuto al sistema produttivo di «integrazione verticale», ovvero il possesso dei mezzi di produzione, di distribuzione e delle sale cinematografiche. Grazie al controllo di tutta la catena industriale – dalla produzione alla proiezione dei film – esisteva un oligopolio-monopolio che rendeva praticamente impossibile l’accesso al mercato di nuovi soggetti. La sentenza Paramount non provoca ovviamente la fine immediata dello studio system, che si consumerà lentamente durante tutto il decennio successivo.
In questo scenario si comprende perché dalla fine degli anni ’40 abbiano potuto proliferare le case di produzione indipendenti, che si dedicano, come quella di Ida Lupino, alla produzione di B movies. Tra il 1949 e il 1954 Emerald Productions e The Filmakers producono almeno 12 film, dei quali 6 diretti da Lupino. Dopo la seconda metà degli anni ’50 la carriera della regista proseguirà in televisione dove dirigerà episodi di serie famose come Alfred Hitchcock Presents (Alfred Hitchcock presenta, 1955-62), The Fugitive (Il fuggiasco, 1963-67) e altre (Kearney e Moran 1995). Lupino dirigerà un ultimo film nel 1966: The Trouble with Angels (Guai con gli angeli).
Nel fondare Emerald Productions Lupino ha l’obiettivo di fare film «di alta qualità, ma a basso costo su soggetti eterodossi e provocatori» (Kuhn 1995: 2). I film da lei diretti fondono l’immaginario e il linguaggio visivo del noir, del melodramma, del woman’s film e del social problem film. Potremmo anche definirli social problem melodramas, in quanto trattano i soggetti scelti non in modo sensazionalistico, ma «come problemi sociali e non disordini della personalità» (Waldman 1995: 14). I soggetti di Lupino sono spesso più audaci ed estremi di quelli degli A films dell’epoca: affrontano lo stupro, la maternità al di fuori del matrimonio, la bigamia, ma anche l’handicap. Si tratta di tematiche che hanno ovviamente attirato l’attenzione delle femministe anche se, a differenza di Arzner, la ricezione nei confronti di Lupino è stata più tiepida o ambigua. Quando negli anni ’70 il suo cinema viene riscoperto, qualcuno afferma che i suoi film affrontano questioni femministe da un punto di vista non femminista. A nostro avviso la questione non va posta in questi termini, perché riduce la supposta prospettiva femminista a qualcosa di semplificato e univoco. Il cinema di Lupino, come quello di Arzner, ha come tema centrale l’ambiguità e le contraddizioni del desiderio femminile e può dunque essere interpretato alla luce del progressive text. Ciò che contraddistingue Lupino rispetto a Arzner, e ne marca anche il diverso momento storico, è l’interesse al tempo stesso per le dinamiche e il desiderio maschili. Come in molti noir e melodrammi del periodo – si pensi in particolare al famoso film di William Wyler The Best Years of Our Lives (I migliori anni della nostra vita, 1946) – la figura del veterano, del soldato della seconda guerra mondiale, tornato vivo, ma menomato fisicamente e/o turbato psichicamente, incarna una mascolinità debole, oppure eccessiva, e che può sfociare, come in Outrage (La preda della belva, 1950), nella violenza sessuale. Ma una mascolinità debole, impotente equivale a una femminilizzazione dell’uomo: l’interesse di Lupino per questa immagine di uomo non può non considerarsi in sintonia con il discorso femminista. Evi...