Piccoli piccoli
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Piccoli piccoli

Storie di neonati nell'Italia di oggi

  1. 184 pagine
  2. Italian
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Piccoli piccoli

Storie di neonati nell'Italia di oggi

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Informazioni sul libro

«Racconteremo ciò che accade ogni giorno nel nostro reparto di terapia intensiva, dove tante madri e tanti padri affrontano con coraggio e amore la sfida di essere genitori in situazioni difficili. Impareremo a conoscere una forza che non ci si aspetterebbe da parte di neonati così fragili; scopriremo la determinazione delle famiglie; apprezzeremo l'impegno dei medici e degli infermieri che lottano ogni giorno per salvare la vita dei piccoli pazienti.»

In un reparto di terapia intensiva neonatale si incontrano tante storie: ad esempio, quella di Giulio, Giada e Ginevra, gemellini nati da una mamma single e ostinata che non ha voluto rinunciare al proprio sogno di maternità. Oppure la storia a lieto fine di Steve, venuto al mondo dopo sole 23 settimane di gestazione con un peso di 600 grammi e una gran voglia di vivere. O ancora, la nascita di Dario, bambino paffuto e in buona salute abbandonato dalla madre perché figlio di un adulterio. Le cullette di questi bambini diventano uno straordinario osservatorio del nostro mondo e delle sue nuove sfide: Mario De Curtis e Sarah Gangi – rispettivamente già direttore della Neonatologia al policlinico Umberto I di Roma e psicologa della stessa struttura – ci raccontano di nuovi modelli di famiglia, di dilemmi etici di fronte a cui si trovano medici e genitori, di multiculturalità, di situazioni di disagio, ma anche delle straordinarie capacità del nostro sistema sanitario e della lezione di umanità che ci regalano i neonati, esseri deboli e fragili, che dipendono totalmente da chi si prende cura di loro. Le lettrici e i lettori condivideranno con i genitori dei piccoli protagonisti emozioni, paure e gioie e disporranno di utili strumenti informativi su quella delicata fase della vita di una coppia che è la nascita di un figlio.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858144169

1.
Mamma a tutti i costi

1. Storia di Giulio, Giada e Ginevra

«Sarah! Non so se ti hanno già avvertito: c’è stato un parto trigemellare qualche giorno fa, credo che la mamma abbia bisogno di te. Mi hanno detto che è sola perché il compagno l’ha lasciata, o almeno così ho capito. Non so molto. La caposala le ha dato il permesso di entrare con sua mamma, la nonna dei piccoli, perché ha bisogno di una mano per l’allattamento. Credo serva un supporto vista la situazione».
Ero stata in ferie per qualche giorno e, in effetti, la terapia intensiva neonatale ospitava alcuni piccoli che non avevo ancora conosciuto.
Affacciandomi in terapia subintensiva avevo notato che tra i nuovi nati c’erano tre piccoli gemelli. Tutto sommato, per essere tre gemelli, se la cavavano piuttosto bene. Erano stati messi in una piccola stanza adiacente alla sub TIN per agevolare la mamma: così li avrebbe avuti vicini e le sarebbe stato più facile prendersene cura. Erano nati di 35 settimane di età gestazionale, con un peso del tutto soddisfacente. Giulio 1.900 grammi, Giada 1.950 e Ginevra 1.800. Le testoline erano ricoperte da capelli biondissimi, gli occhi incorniciati da ciglia altrettanto bionde e la pelle bianchissima. Se non mi avessero detto che la madre era italiana avrei pensato a un’origine del Nord o Est Europa.
«La madre di solito viene per la poppata delle 12, sta provando a tirare il latte, ce la mette tutta, ma ancora è presto, il latte è poco e non basta a sfamare i piccoli. La nonna è piuttosto anziana...», aggiunse Lucia, con la consueta partecipazione.
Nei pochi minuti di confronto con l’infermiera stavo cercando di cogliere quante più informazioni possibili ma, poiché il parto cesareo era avvenuto pochi giorni prima, anche l’infermiera aveva avuto solo rare occasioni d’incontro con la mamma dei gemelli, e così anche lei sapeva ben poco.
Valutai se chiamare la donna per fissare un appuntamento per un primo colloquio o se aspettare invece che si presentasse in reparto per la poppata delle 12. Optai per questa seconda alternativa per evitare di allarmarla con una mia telefonata. Quando chiama la psicologa dalla terapia intensiva neonatale i genitori si spaventano sempre moltissimo; se posso, dunque, aspetto di incontrarli direttamente in reparto.
Le parole di Lucia mi risuonavano nella mente: «È sola, il compagno l’ha lasciata...». Mi interrogai sul motivo di quell’abbandono. Un parto trigemellare era forse frutto di una fecondazione assistita, anche se, chissà, poteva anche essere uno dei rarissimi casi di gravidanza trigemellare spontanea. In ogni caso un abbandono prima del parto è di per sé un’esperienza terribile, con tre figli non poteva che essere stato uno shock. Pensavo a quella donna, e la immaginavo triste, depressa forse, indubbiamente stanca e provata.
In reparto era già capitato altre volte, per fortuna poche, che la donna fosse stata lasciata nel corso della gravidanza. I compagni si erano volatilizzati per le più svariate ragioni. Alcuni terrorizzati dall’idea di diventare padri, altri perché non ritenevano la relazione che stavano vivendo sufficientemente consolidata, altri ancora perché la gravidanza era frutto di una relazione extraconiugale.
Cercavo di scacciare tutti questi ricordi di donne già conosciute, non volevo ricoprire con la mia fantasia la storia di questa mamma. Provai a smettere di pensarci e mi dedicai ad altro.
Verso le 12 mi riaffacciai nel corridoio antistante la porta di ingresso del reparto.
Ricordo bene quel primo incontro.
Tra le mamme in attesa mi colpì una donna sui 50 anni, minuta, occhi bruni ridenti, labbra piene, e una simpatica fossetta sul mento. Sorrideva serena, sembrava scherzasse con qualcuno al telefono. Le sedeva accanto un donnone anziano che indossava una gonna ampia da cui spuntavano due polpacci pieni, come altrettanto piene e forti erano le braccia e il petto.
Quando si alzarono fui attratta dall’incedere della donna anziana, il cui volto rugoso era sormontato da una impalcatura di capelli bianchi. Non camminava, ma strascicava le suole delle scarpe sul pavimento. Fui colpita anche dal sorriso della donna più giovane, che strideva con gli sguardi addolorati delle altre mamme in attesa di entrare. Perché per quanta forza si facciano, per quanto cerchino di sostenersi a vicenda, l’ingresso in reparto è sempre un momento difficile. Non sai mai cosa ti aspetta, non sai se le notizie della giornata sono buone o cattive. Le mamme in attesa sbirciano dalla porta d’ingresso, e appena vedono affacciarsi un medico o un’infermiera cercano di captare l’atmosfera che si respira: sarà un giorno buono? ci sono movimenti strani? emergenze? Il clima, quindi, è sempre un pochino teso prima di entrare.
La signora al telefono invece era particolarmente allegra, quasi entusiasta, tanto che immaginai fosse una zia in attesa della dimissione di un nipote.
Entrai in reparto e aspettai qualche minuto l’arrivo delle mamme, che nel frattempo stavano pazientemente in fila al lavaggio delle mani. Vidi con sorpresa che proprio le due donne che avevano catturato la mia attenzione stavano entrando nella stanza dell’isolamento. Aspettai qualche istante prima di entrare.
Avevo cercato di prendere le distanze dalle parole dell’infermiera, ma continuavo a essere risucchiata dalle immagini che mi erano affiorate alla mente e che avevo tentato di scacciare. Decisi di entrare e, solo quando mi presentai e mi sedetti di fianco alla mamma, piano piano quelle immagini si fermarono.
Livia aveva in braccio Giulio, la nonna teneva Giada, Ginevra invece aspettava il suo turno in incubatrice. Giulio ciucciava il biberon con forza nonostante fosse in una posizione che sembrava poco confortevole: la testolina era completamente reclinata all’indietro, mentre il braccio di Livia lo sosteneva appena; il corpo era disteso sulle gambe della mamma, la pancia all’insù e le braccine perse ai lati del corpo. Sentii di doverlo aiutare, sembrava dovesse scivolare dalle gambe di sua mamma da un momento all’altro, ero preoccupata e in ansia, ma decisi di non dire nulla e di aspettare, cercando di osservare e iniziare a capire.
«Complimenti, sono davvero tre bellissimi bambini!», dissi a Livia.
«Sì, grazie! Sono molto orgogliosa di loro!».
«Giulio sembra molto affamato».
«Sì, lui è famelico, mangia anche per la sorellina, Ginevra, che invece è la più piccola, la pigrona fra i tre».
Mi presentai cercando di muovermi nel modo più delicato possibile. Non volevo irrompere nello spazio di questa mamma e dei suoi piccoli, ma Livia si dimostrò subito loquace e socievole. Mi raccontò del parto cesareo e della fatica dei primi due giorni, dei suoi tentativi di tirare il latte e delle notti insonni a causa di una vicina di stanza chiassosa e agitata. Del compagno non fece alcun cenno, era come se non fosse mai esistito.
La nonna seduta di fronte a lei annuiva distrattamente, sembrava davvero stanca, della stanchezza di una vita trascorsa nel lavoro e nel sacrificio. Le mani erano rovinate e rugose, ma forti e solide. Il viso di Livia assomigliava incredibilmente a quello della madre, a quello che un tempo doveva essere stato il viso della madre. Avevano lo stesso naso sottile e le labbra pronunciate, ma gli occhi neri miti e preoccupati della donna anziana diventavano determinati, ridenti e quasi sfrontati nella figlia.
Trascorsi qualche momento con loro e prima di congedarmi chiesi a Livia se potevamo parlare da sole nella mia stanza: le dissi che mi avrebbe fatto piacere conoscerla meglio e che è mia consuetudine farlo sempre con le mamme di neonati prematuri.
Accettò di buon grado la mia proposta e così, concluso l’allattamento dei piccoli, ci dirigemmo nella mia stanza. Attraversammo il lungo corridoio che dalla terapia intensiva conduce al mio studio, una accanto all’altra in silenzio, ognuna persa nei propri pensieri.
Chiusa la porta Livia si accasciò sulla poltroncina e cominciò il suo lungo e appassionato racconto.
Aveva 48 anni, immediatamente mi disse che aveva desiderato avere dei bambini sin da quando era piccola e, come tante coetanee, trascorreva i suoi pomeriggi a giocare con le bambole.
Aveva accarezzato molte volte negli anni passati l’idea di una gravidanza. Con Fabrizio, il fidanzato degli anni dell’università, ma lui non si era dimostrato poi così convinto e avevano soprasseduto. Ci aveva sperato con Giovanni, il compagno con cui aveva convissuto dai 35 ai 38 anni a Firenze, ma lui era tutto proiettato sui propri successi professionali e così anche con lui l’idea era tramontata.
Mentre raccontava delle sue delusioni passate sembrava serena, forse un po’ distaccata. Cercavo di immaginare la cornice affettiva in cui quelle storie si inserivano, ma la freddezza della sua voce rendeva impossibile questo tentativo.
Rispetto ai compagni che aveva avuto prima, Fabio sembrava diverso. Si erano conosciuti tramite degli amici comuni. L’amore era scattato subito, appassionato e travolgente. Era la persona giusta, se lo sentiva. Avevano 43 anni lei e 48 lui, e Livia sapeva che era arrivato il momento giusto. Dopo sei mesi di frequentazione assidua Fabio si trasferì nella bella casa di Livia, regalo della nonna paterna, un appartamento ampio e confortevole.
Tentarono di avere un bambino, inizialmente in modo spontaneo. Livia si aspettava che la gravidanza insorgesse come per magia, immediatamente, con grande facilità.
Finalmente era riuscita a costruire un rapporto serio con un compagno che sembrava amarla molto, ora doveva solo arrivare il bimbo tanto desiderato. Sentiva che la sua forza di volontà e la sua determinazione sarebbero state sufficienti per ottenere ciò che cercava. Così si avviò alla conquista della maternità, convinta che il suo desiderio presto si sarebbe realizzato come non era riuscita a fare nelle sue precedenti storie. Ma così non avvenne.
Un mese, due mesi, sei, un anno... Il tempo passava e l’ansia aumentava. Aveva trovato la persona giusta, si diceva, doveva per forza rimanere incinta. Si ripeteva che «volere è potere», che se si vuole veramente qualcosa la si ottiene per forza.
Il tempo, però, spietato, trascorreva imperturbabile. La rabbia piano piano fece capolino, e più i tentativi sembravano vani e più montava prepotente la sua determinazione.
Ascoltavo il racconto di Livia come si ascolta scorrere un fiume ingrossato da lunghe piogge. Osservavo quel fiume pieno e veloce come se, prima o poi, ci dovessimo imbattere in una turbolenta cascata. Guardavo Livia e mentre raccontava mi chiedevo dove avesse avuto origine quel fiume, dov’era la sorgente, l’inizio, e dove sarebbe sfociata quella corsa veloce, quali sponde avrebbero contenuto la corrente, e soprattutto quale rispecchiamento avrebbe potuto offrire quell’acqua movimentata.
All’inizio erano una coppia allegra e spensierata, ma l’infertilità aveva gradualmente cambiato tutto. L’entusiasmo di Fabio sembrava spegnersi ogni giorno di più.
Passarono due anni e i tentativi di rimanere incinta non ebbero alcun esito. Ogni mese il ciclo arrivava a ricordarle che non era ancora il momento. Livia continuava ad essere convinta che avrebbe vinto lei, che sarebbe diventata madre. Tuttavia, i mesi erano macigni che le piombavano sul petto a ricordarle che non c’era tempo, che dovevano sbrigarsi e che l’età avanzava. Fabio stava cominciando a cedere, e loro dovevano diventare genitori subito altrimenti sarebbe stato troppo tardi.
Livia amava i bambini, adorava i nipoti ma anche i figli di amiche di cui ogni tanto si occupava. Con gli anni, però, si era affacciata una certa insofferenza: avere tra le braccia i figli degli altri era diventato doloroso e così aveva deciso di diradare quegli incontri, divenendo più isolata e sola.
Il nostro primo incontro si interruppe bruscamente: Livia dov...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Un mondo in un reparto
  2. 1. Mamma a tutti i costi
  3. 2. Troppo presto
  4. 3. Un figlio non voluto
  5. 4. Lieto fine
  6. 5. Nostra figlia ci guarirà
  7. 6. La mamma con il sari
  8. 7. Di fronte al limite
  9. Conclusioni. Nascere in Italia