1. Repressione e desistenza
«Ricordi il mito di Teseo e del Minotauro? Noi siamo stati come Teseo». Nutrendosi di carne umana – spiega un brigatista detenuto a San Vittore intorno alla metà degli anni ’80 – la lotta armata ha finito per assomigliare al suo nemico, in un feroce gioco «a due». Sono le prime pagine di Noi terroristi dove anche Giorgio Bocca, pur senza alcun intento apologetico, definisce lo scontro tra lo Stato e l’eversione di sinistra come un «labirinto»: un percorso tutto da decifrare, seminato di violenze, eccessi, ritorsioni, che separa ma al tempo stesso avvince l’uno all’altro i due contendenti.
L’immagine risente del clima in cui il libro uscì, quando il peggio era ormai passato e l’invito a uscire dalla logica dei vincitori contro i vinti non sembrava cadere del tutto nel vuoto. Ma contiene un suggerimento di metodo ancora prezioso, che va al di là: non si può scrivere la storia del fenomeno armato – sembra dirci – se non si tiene conto anche di chi e di come l’ha combattuto. Tanto più con l’approssimarsi della vittoria sul terrorismo: nonostante si intravedesse qualche luce in fondo al labirinto, non era scontato si trovasse la via per uscire.
Se, procedendo a ritroso, cerchiamo di individuare l’avvio del dibattito sulla fine dell’emergenza – che riguardò soprattutto il terrorismo di sinistra – scopriamo con una certa meraviglia che esso coincise con il culmine dell’emergenza. Il processo di superamento dei cosiddetti anni di piombo conobbe la sua maturazione tra il 1984 e il 1985, ma furono i densi e drammatici cinque anni precedenti a crearne i presupposti, indicati in estrema sintesi nel binomio che dà il titolo a questo capitolo. Il concetto di desistenza qui richiamato si riferisce a un insieme di posizioni che si venne a delineare tra i detenuti politici a partire dal 1980, quando iniziò la guerra agli “infami” e lo scontro con lo Stato raggiunse l’acme sia dentro che fuori dal carcere. Questo passaggio poco conosciuto e lineare si colloca sullo sfondo di una crisi generale – e destinata a divenire irreversibile – della lotta armata, di cui furono causa ed effetto la collaborazione dei pentiti e la contemporanea stretta repressiva, con la svolta impressa alle indagini già nei primi mesi del nuovo decennio.
Tra repressione e desistenza, tra Stato ed eversione di sinistra, si stabilì allora un rapporto complesso che è una chiave di lettura utile a restituire la natura aperta del periodo. La sconfitta del terrorismo si sovrappose infatti alla sua fase più cruenta, secondo meccanismi tipici di un fenomeno destinato di lì a poco a collassare o, se si preferisce, di un esercito in ritirata. Pur giuridicamente e politicamente distinti, pentitismo e dissociazione – su cui mi soffermerò nei capitoli successivi – dettero prova dell’inarrestabile rottura del fronte eversivo, contribuendo senza dubbio a porre il problema dei costi dell’emergenza. La repressione non sembrò allora una risposta sufficiente: perché altrimenti – era questo il senso – il paese avrebbe pagato due volte.
La sconfitta del terrorismo e l’uscita dall’emergenza rappresentano anche un punto di intersezione tra due decenni che hanno costruito la propria identità l’uno in contrapposizione all’altro. Che li si consideri una fase decisiva della modernizzazione o l’inizio della fine della prima Repubblica, gli anni ’80 sono stati letti come il contrario – un tradimento o una rivalsa, a seconda dei punti di vista – di tutto quello che gli anni ’70 avevano rappresentato. Negli anni dell’edonismo craxiano, mentre la corruzione fu eretta a sistema, l’impegno politico e la partecipazione collettiva entrarono effettivamente in crisi, tra fine delle ideologie e riflusso nel privato; il benessere esibito e le immagini patinate della pubblicità sembrarono allora esorcizzare tutti gli spettri degli anni ’70, disperdendone però la carica ideale e mettendone in discussione anche le conquiste.
Tuttavia, a dispetto dell’ottimismo trionfante, l’Italia degli anni ’80 – con i primi governi a guida laica del repubblicano Giovanni Spadolini e poi di Bettino Craxi – si trovò a dover gestire un’eredità ingombrante. È questo un punto di vista trascurato, ma utile, per individuare la peculiarità italiana all’interno della ridefinizione degli assetti politici e culturali che si compì in tutta la società europea negli anni della riscossa neoliberale e della fine della guerra fredda. Nel nostro paese quelle trasformazioni coincisero con la sconfitta dell’eversione di sinistra (mentre le stragi neofasciste rimasero impunite) e con le battute finali di una lunga crisi del sistema dei partiti: che è però sbagliato leggere come eclissi della politica tout court, perché – come vedremo – si accompagnò al tentativo di una riformulazione della politica.
Questo tormentato processo, nel suo insieme di riflessioni e di scelte concrete, diventò il luogo di formulazione di un primo giudizio sul decennio appena concluso. In quella che fu una fase di passaggio l’intreccio di vecchio e nuovo, se così si può dire, cautelò dai rischi delle letture univoche, ben più di quanto abbia sostenuto Giovanni De Luna, secondo cui la memoria degli anni ’70 si è costruita solo sulle dichiarazioni dei pentiti, in una sorta di «sequestro giudiziario». In realtà la discussione sulla stagione di violenze in via di esaurimento conobbe una certa apertura, tanto più se paragonata a quella di oggi.
1. Vogliono la guerra? Guerra sia
La stretta repressiva apparve evidente già a partire dal sanguinoso blitz genovese di via Fracchia, del 28 marzo 1980, quando gli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa irruppero in un covo brigatista grazie alle rivelazioni del primo grande pentito, Patrizio Peci, arrestato nel febbraio precedente. Fu un duro colpo inferto al terrorismo proprio nella città dove esso pareva inespugnabile, ma il suo tragico bilancio di sangue – quattro terroristi uccisi (oltre al grave ferimento di uno dei carabinieri) – suscitò nell’opinione pubblica sentimenti ambivalenti. Il sollievo fu subito palpabile: «Mi sarebbe dispiaciuto se fosse morto il carabiniere. Per gli altri no», aveva sentito commentare nei pressi di via Fracchia il giornalista del «Corriere della Sera» Walter Tobagi, che solo due mesi dopo sarebbe stato ucciso da un gruppo – la Brigata XXVIII marzo – intitolata proprio a quell’episodio.
Ma non mancarono le polemiche e neanche riflessioni dolenti. «Non è una vittoria», titolò «Il Lavoro» alludendo al carattere vendicativo dell’azione, che le foto pubblicate a ventiquattro anni di distanza, con i corpi crivellati dai colpi e stesi faccia in giù uno dietro l’altro nel corridoio dell’appartamento, non riescono a cancellare. «È mai possibile – si chiedeva Eugenio Scalfari a caldo su “la Repubblica” – che io, giornalista democratico, uomo di sinistra, liberale, garantista, mi sorprenda a pensare “meno male” di fronte a quattro giovani fulminati?». Lo aveva anticipato sul «Messaggero» Corrado Stajano: «il panorama è insomma agghiacciante per le atrocità quotidiane del terrorismo, ma anche per le reazioni che si hanno»; perché «le soluzioni sono sempre e solo politiche, non militari, repressive, da stato d’assedio».
L’autorevolezza dei due giornalisti rompeva l’unanimismo preteso dalla linea dura, dando voce alle inquietudini del paese. «Il terrorismo è anche figlio nostro?», si chiedevano i cattolici di una città duramente provata dalla violenza politica come Padova, dopo che nell’ultimo congresso democristiano il deputato Franco Salvi aveva invitato a interrogarsi sulle proprie responsabilità, su cui di lì a poco il caso Donat Cattin avrebbe fatto riflettere. Una tendenza all’autocritica che non trovava alcun riscontro nel grande partito che con la Dc aveva condiviso il peso della fermezza a partire dal sequestro Moro. Nonostante i dubbi che il responsabile della Sezione problemi dello Stato del Pci, Ugo Pecchioli, avrebbe confessato solo molti anni dopo, sull’«Unità» Luigi Berlinguer commentava i fatti di via Fracchia intravedendo nelle preoccupazioni espresse da Scalfari il rischio di un aristocratico distacco dal «sentire della gente comune»: ed esortava a mettere da parte «l’eterno sospetto» nei confronti delle forze dell’ordine per non compromettere «l’efficienza punitiva dello Stato».
A partire da via Fracchia apparve infatti sempre più evidente che la strada imboccata dallo Stato era ormai quella della guerra, per appropriarsi di un termine divenuto di accezione comune in questo periodo. A farne dimenticare l’uso generalizzato, quasi ossessivo, ha contribuito il timore oggi prevalente di avvalorare la lettura della lotta armata come guerra civile, che era in primo luogo un obiettivo di chi l’aveva scatenata. Ma di fronte all’escalation degli attacchi il termine guerra alludeva sostanzialmente alla durezza, invocata o temuta, della risposta difensiva dello Stato; così come l’uso indiscriminato della parola terrorismo per designare tutto il composito arcipelago dell’eversione di sinistra – una realtà che spaziava dall’autonomia operaia alle Br – significava che l’emergenza lasciava poco spazio alle distinzioni. «La domanda di sicurezza che saliva verso lo Stato era fortissima», ha ricordato nel 1989 Virginio Rognoni, ministro dell’Interno dal 1978 al 1983, negando però ogni accusa di involuzione autoritaria. Per Indro Montanelli l’opinione pubblica tutta era dell’idea che «se i terroristi vogliono la guerra, guerra sia»: un sentimento da lui non condiviso perché rischiava appunto di concedere ai terroristi lo status di un esercito in guerra, ma che il Msi di Giorgio Almirante solleticava raccogliendo firme per la pena di morte.
L’anno decisivo per la sconfitta della lotta armata, l’inizio della sua fine, se così si può dire, fu senz’altro il 1980. Importanti risultati erano stati ottenuti già nell’autunno 1978, all’indomani del delitto Moro, quando Dalla Chiesa era stato richiamato alla guida del Nucleo antiterrorismo con poteri speciali. Ma i primi mesi del nuovo decennio segnarono una vera e propria svolta, perché l’arresto e il pentimento di Peci consentirono di penetrare all’interno del mondo brigatista. Segnali di cedimento si manifestarono del resto anche ai livelli più bassi di altre aree: già la primavera precedente, a Firenze, la collaborazione di alcuni militanti marginali di Prima linea aveva aperto un varco in quella organizzazione, l’unica di tutta la popolatissima galassia eversiva a poter competere con le Br per numero e gravità delle azioni.
Nel febbraio la cosiddetta legge Cossiga, anticipata dal decreto legge di dicembre, approvò un pacchetto di misure urgenti con novità rilevanti. Oltre alle aggravanti per la finalità di terrorismo e all’amplificazione del reato associativo, che battevano la consueta strada dell’inasprimento sanzionatorio e della restrizione dei diritti e delle garanzie...