Questo è il punto
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Questo è il punto

Istruzioni per l'uso della punteggiatura

  1. 160 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Istruzioni per l'uso della punteggiatura

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Il rischio della noia è quanto di più lontano ci sia da questo volumetto di Francesca Serafini, che non fa mai la maestrina, pur vantando una solida institutio. Forse anche perché il suo mestiere di sceneggiatrice ed editor freelance per diverse case editrici ha affinato le sue naturali doti di scrittura: una scrittura guizzante, ironica e autoironica, nutrita di letture varie e talora imprevedibili. Dalla Prefazione di Luca SerianniAvrete notato che non è più di moda dire, nelle polemiche, 'questo non è il punto'. Adesso si dice 'questo non è il tema'. Per la linguista Francesca Serafini le due cose coincidono, nel senso che ha scritto un libro il cui tema è il punto. Stefano Bartezzaghi, "la Repubblica"Serafini incoraggia a intrattenere con ogni segno un rapporto al contempo consapevole e affettivo (se non affettuoso): a diventare, cioè, autori delle proprie scelte di punteggiatura. Tutt'altro che essere una malattia esantematica, un malizioso morbillo della pagina, la punteggiatura è l'orchestra di segni che abbiamo a nostra disposizione per dare forma alla scrittura. Giorgio Vasta, "la Repubblica"Per imparare, questo manuale di Francesca Serafini, sceneggiatrice con un passato da linguista, è perfetto e divertente, sciogliendosi tra una divulgazione e l'altra, come una lezione che ti prende o come un bel film. Pierangelo Sapegno, "Tuttolibri"

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858111284

1. Capirsi senza pause

Se siete arrivati a questa pagina senza passare per l’introduzione, non potete avere idea di quanto possa essere sfacciatamente ambizioso questo libro. Allora è bene ripartire dalla questione posta da Cesare Pavese: «Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri». Il proposito di questo manualetto è infatti quello di cercare di affrontarla imparando a conoscere la punteggiatura, che nella scrittura è, per l’appunto, «un additivo ad usum lectoris, essenziale alla chiarezza comunicativa» (Maraschio, 1981).
Se avete aggrottato la fronte, leggendo queste righe, vuol dire soprattutto due cose: che la pretenziosità di cui sopra ora vi è chiara; e che tuttavia, proprio in virtù di quell’espressione di perplessità, la missione potrebbe non essere impossibile, perché allora la comunicazione in qualche modo c’è stata e ha provocato una reazione. Usare le parole giuste, combinarle correttamente tra loro, magari non ci fa sentire meno soli, ma almeno mette in contatto le nostre solitudini, che è il massimo di comunicazione che ci possiamo aspettare a qualunque livello di consapevolezza linguistica. Poi sono le idee e i significati a permettere un ulteriore salto di qualità nella nostra reciproca comprensione; anche se spesso i problemi, compresi quelli linguistici, possono nascere proprio da lì. A volte, infatti, sembra la nostra lingua a essere confusa, e invece in qualche caso può essere che quella fatica non sia altro che il risultato di un pensiero zoppicante. I due aspetti procedono insomma appaiati. Lo gridava già Nanni Moretti in Palombella rossa (1989) – «Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!» – e il concetto vale tanto più per chi scrive. Anche perché spesso non si dà ascolto a quello che consigliava di fare Francis Scott Fitzgerald e cioè di scrivere solo quando «si ha qualcosa da dire» e non tanto «per dire qualcosa». Naturalmente Fitzgerald si riferiva alla scrittura letteraria, ma la sua distinzione dovrebbe valere per ogni tipo di testo, compreso perfino un post di uno qualunque dei social network su cui invece tutti quanti scriviamo continuamente; spesso, appunto, senza avere niente da dire.
Questa divagazione serve a farci coraggio, perché provare a spiegare come comunicare correttamente le proprie idee, per contrasto, appare di colpo infinitamente più semplice che provare a spiegare come avercele, le idee (ammesso che ci sia qualcuno intenzionato a realizzare quest’impresa). D’altra parte, sono con Hans Blumenberg quando sostiene che «Possiamo esistere solo perché facciamo digressioni. Se tutti andassero per la via più breve, arriverebbe uno soltanto». E forse una delle idee fondanti della sua filosofia – l’importanza della metafora – può indicarci la direzione per tornare sul tracciato della nostra ricerca.
Proviamo allora a pensare all’apprendimento della lingua come a un videogioco a più livelli. Uno di quelli, narrativamente complessi, che grazie a Steven Johnson – il gigante di Tutto quello che fa male ti fa bene – cominciano a godere di un certo rispetto anche negli ambienti della cultura “alta”. Bene, pensiamo per esempio a Urban chaos (1999), la storia di D’Arci Stern, recluta del dipartimento di polizia dell’immaginaria Union City, alle prese con una banda di criminali, dietro la quale, si scoprirà all’ultimo livello, ci sono forze ben più grandi e oscure. Per arrivare lì – e ottenere la «gratificazione ritardata» di cui parla Johnson in proposito – ci sono ventitré prove da superare, con un crescente coefficiente di difficoltà. Al primo stadio, c’è l’addestramento minimo (preparazione fisica, guida, uso delle armi, ecc.); all’ultimo, il confronto diretto con la forza a quel punto non più oscura.
Ecco, per arrivare a una consapevolezza piena della propria lingua, si procede allo stesso modo. Al primo livello c’è il lessico: la scoperta delle parole (da quelle d’uso quotidiano fino alla capacità di scalare tutti i registri; o di attingere ai serbatoi settoriali). Al secondo, si apprende che quelle parole devono essere declinate (i sostantivi per numero, gli aggettivi anche per genere) o coniugate (i verbi, in base al modo, al tempo, alla persona e al numero). Poi, al livello più alto, c’è la sintassi, che combina le singole unità della frase in un insieme che acquisisce senso; e poi ancora le frasi tra di loro. Se stiamo al gioco, dunque, nella scrittura il mostro più difficile da abbattere – ma anche l’aspetto più gratificante della sfida – si incontra lì. La sintassi è la parte della lingua che si lega al pensiero: è il pensiero che si dispiega in lingua. Per averne un completo dominio servono – oltre, appunto, alla solidità dell’idea che deve essere espressa – competenze linguistiche che vanno oltre l’apprendimento mnemonico di regolette (come può essere invece per la fonologia e per la morfologia). Serve un’esperienza della lingua a cui si arriva soltanto con l’esercizio continuo nella lettura e nella scrittura. Quando si arriva a quel livello, nessuna parola in sé – fatta eccezione per quelle che hanno un valore affettivo e appartengono al lessico famigliare di ognuno di noi – esercita lo stesso fascino di un bell’ordito sintattico. Usare le parole è come prendere un aereo per arrivare da una destinazione all’altra. La sintassi però è la cabina di comando. È la macchina (l’aereo), più l’estro e la tecnica dell’uomo. Cambi di marcia, rapide accelerazioni, rallentamenti: tutte manovre legate ai movimenti della cloche – la barra di comando – che, nella scrittura, è rappresentata proprio dalla punteggiatura.
Si capisce allora perché, per tornare al videogioco, la sua conoscenza si collochi al livello più alto di difficoltà, e perché, di conseguenza, nella scuola dell’obbligo si sia radicata quella tolleranza nei confronti dell’errore interpuntivo a cui abbiamo fatto cenno nell’introduzione. Non a caso, la sintassi nel suo complesso è studiata più avanti nel percorso scolastico, a un diverso livello di maturità; e, anche nelle grammatiche, i capitoli relativi alla sintassi della proposizione e a quella del periodo sono tra gli ultimi.
Prendere coscienza del fatto che la punteggiatura si colloca in quella zona è un primo passo verso la consapevolezza di cui parlava il giovinetto di Čechov. Se il riferimento vi sfugge ma vi mette curiosità, fate lo sforzo, una volta per tutte, di leggere l’introduzione: d’altra parte, ci sarà una ragione se tradizionalmente è collocata all’inizio, no? Così come ce n’è uno per cui David Foster Wallace nel suo romanzo postumo, Il re pallido (2011), ha posizionato la sua nel capitolo 9: ma qui siamo su un altro pianeta, uno di quelli che non smetterà di brillare anche se – ahimè – non potrà stupirci più.
Tornando sulla terra: considerare i segni interpuntivi uno strumento sintattico sembra scontato, un dato ormai definitivamente acquisito, visto che già nel 1803 il filosofo Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy scriveva: «Ho dovuto menzionare la punteggiatura per completare l’enumerazione di tutti i nostri mezzi della sintassi». E in Italia, nel 1881, nel suo studio Sintassi italiana dell’uso moderno, Raffaello Fornaciari riteneva giusto dedicare un capitolo ai segni di interpunzione.
Eppure, nel 1924, il filologo Pio Rajna – definito da Eugenio Montale «un esemplare di ciò che fu l’homo sapiens prima che la sapienza fosse peccato» – sosteneva che le interpunzioni «non sono altra cosa che indicazioni di pause: pause di durata diversissima». Una concezione della punteggiatura talmente diffusa e metabolizzata che in uno dei racconti di Dino Buzzati – “Sciopero dei telefoni” – si dice di una certa signora Franchina «che parlava velocissima senza interpunzioni»; come se, insomma, interpunzione fosse a tutti gli effetti un sinonimo di pausa. Anche solo, magari, una pausa di riflessione – l’anticamera di ogni separazione – come è nel testo del cantautore Dente “Puntino sulla i” (contenuto nell’album Io tra di noi del 2011):
Punto, punto e virgola
pausa di riflessione,
puntini di sospensione
Punto esclamativo
trattino, lineetta
virgola, virgoletta
come mai
non mi scrivi più?
E questa convinzione radicata – l’associazione fuorviante tra punteggiatura e pausa, in senso più stretto, nella respirazione – è il nostro magnete: ciò che continua a disturbare l’ago della bussola normativa. E va contrastata con la consapevolezza che le uniche pause che segnalano i segni interpuntivi sono quelle logico-sintattiche.
E allora – non ce ne vogliano Rajna e Buzzati – ripartiamo da qui, e concentriamoci sul fatto che le interpunzioni sono istruzioni che lo scrivente fornisce al lettore perché «possa compiere una serie di ben determinate operazioni mentali il risultato delle quali sia la comprensione da parte del lettore del brano o della frase che ha letto» (Parisi - Conte).
D’accordo, ma quali sono allora i segni interpuntivi? Perché in effetti il numero varia a seconda degli studiosi. Per esempio, riprendendo le classificazioni da Storia, regole, eccezioni, alcuni linguisti – come Serianni nella sua Grammatica – includono nell’insieme della punteggiatura, oltre ai segni interpuntivi tradizionali (punto fermo, punto e virgola, due punti, virgola, punti interrogativo ed esclamativo), alcune convenzioni grafiche come l’apostrofo, l’accento, le parentesi, le virgolette, il tratto d’unione, l’asterisco, i puntini di sospensione. Vincenzo Scherma ritiene invece non pertinenti all’àmbito della punteggiatura alcuni tipi di segni tradizionalmente accolti nell’insieme: «segni d’interesse tipografico (spazio bianco, caratteri speciali, segno di paragrafo, ecc.), segni appartenenti più propriamente al dominio ortografico (maiuscola, accento, apostrofo, tratto d’unione, ecc.) e segni poco stabilizzati in quanto ad uso (per esempio le parentesi graffe) o appartenenti ad ambiti strettamente specialistici (per esempio, le sbarre verticali)».
Arrigo Castellani ha risolto il problema coniando la nozione più ampia di «segni paragrafematici» in cui sono raggruppati sia i segni interpuntivi classici sia altre convenzioni grafiche come l’apostrofo. Si tratta di tutti quei segni, cioè, accomunati dal fatto di non essere pronunciati durante la lettura, pur condizionandone lo svolgimento. Di un punto esclamativo, per intenderci, si tiene conto nell’intonazione di una frase ma non si legge “punto esclamativo”. E lo stesso vale per l’apostrofo. I segni paragrafematici sono dunque strumenti propri dello scritto, pur avendo un rapporto inevitabilmente col parlato. Per Walter J. Ong, del resto, «scrivere è sempre un’imitazione del parlare»: un’imitazione ottenuta attraverso una tecnologia differente rispetto al parlato e cioè la scrittura.
Ma come fa la scrittura a “tecnologizzare” la parola? Di quali strumenti si avvale? Uno di questi, senza dubbio, è proprio la punteggiatura, che – e da qui in poi lo daremo come un dato definitivamente acquisito – riguarda lo scritto, pur avendo per forza di cose originariamente relazioni col parlato. E un riscontro significativo in questo senso ci è dato dal fatto che, nel LIP (Lessico di frequenza dell’italiano parlato), gli autori omettono volutamente tutti i segni interpuntivi «salvo il caso del punto interrogativo come espressione dell’intonazione interrogativa», proprio perché non considerati pertinenti al parlato. La punteggiatura è infatti un «sistema, specifico dello scritto, essenzialmente orientativo, guida indispensabile per il lettore nella comprensione delle scritture» (Maraschio, 1981).
E per questo fanno bene Domenico Parisi e Rosaria Conte a contestare l’idea troppo a lungo tramandata che la virgola rifletta una pausa breve, il punto una pausa lunga, e il punto e virgola una pausa di lunghezza intermedia. Scrivono in proposito i due studiosi: «Questa affermazione ci sembra semplicemente non vera. Se si registra un discorso orale e si individuano le pause e la loro lunghezza, si scopre che non vi è alcuna correlazione di qualche interesse tra pause e presenza della punteggiatura, e tanto meno una correlazione tra lunghezza delle pause e tipo di punteggiatura usata».
Allo stesso modo, si dovrebbe contestare il carattere aggiuntivo attribuito al sistema interpuntivo: «non tanto cioè legato al momento primario, ideativo di un testo, quanto ad una fase posteriore di preparazione di quel testo in vista della sua presentazione e degli scopi comunicativi che l’autore si prefigge per esso» (Solarino). Separare le due fasi – ideazione del testo e inserimento della punteggiatura – sarebbe come parlare in una lingua diversa da quella in cui si pensa; e tutti sanno che i veri poliglotti sono quelli che pensano – addirittura sognano – nella lingua in cui hanno bisogno di esprimersi.
Può valere, a riprova, quello che scrive Raymond Carver a proposito di Evan Connell: «si rendeva conto di aver finito un racconto quando, rileggendolo, si sorprendeva a togliere delle virgole e poi lo rileggeva da capo e rimetteva le virgole al loro posto». Cioè quando, in sostanza, la punteggiatura gli restituiva pienamente il senso originario di ciò che intendeva trasmettere.
Anche se, è giusto ricordarlo, Alberto Moravia a proposito degli Indifferenti ha raccontato esattamente il contrario:
fu notato che l...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione di Luca Serianni
  2. Introduzione
  3. 1. Capirsi senza pause
  4. 2. Punteggiatura e sintassi: quando l’etimologia inganna
  5. 3. Il punto della situazione: una guida in forma di glossario
  6. 4. Appunti di stile
  7. 5. Arrivati a questi punti
  8. Riferimenti e consigli bibliografici