Economisti che sbagliano
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Economisti che sbagliano

Le radici culturali della crisi

  1. 128 pagine
  2. Italian
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Economisti che sbagliano

Le radici culturali della crisi

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«Gli errori della cultura economica dominante hanno portato a ballare con gli occhi bendati sull'orlo del baratro della crisi, per poi cadervi dentro. Il mito di una onnipotente mano invisibile del mercato, la fiducia cieca in meccanismi riequilibratori automatici e l'ostilità verso la fissazione di regole del gioco vincolanti per tutti, la sistematica sottovalutazione dell'incertezza sono stati errori gravi. Una discussione aperta su questi temi è ora necessaria, per evitare il rischio che la tragedia si ripeta: non come una farsa, ma come una tragedia al quadrato».

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858102268
Argomento
Economia

1. Cronologia e gestione della crisi1

Stabilire la data d’inizio di una crisi finanziaria è un esercizio sostanzialmente inutile. La scelta è arbitraria, dipende da cosa intendiamo per inizio della crisi. Possiamo partire dal giugno 2007, quando la Borsa di Wall Street subisce i primi scossoni di una lunga serie; o dal 7 settembre 2007, quando la situazione di crisi è per così dire ufficializzata dalla sostanziale nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac, i due colossi finanziari che garantiscono metà dei mutui sulle case degli statunitensi. Soros (2008a, p. xiii) inizia il suo racconto con il fallimento della American Home Mortgage il 6 agosto 2007; Morris (2008, p. 3) anticipa di un paio di mesi, richiamando la crisi di due hedge funds della Bear Stearns. Ma già in precedenza, nell’aprile 2007, la Bank of England parla nel suo Financial Stability Report della crisi dei mutui sub-prime e dei possibili effetti di contagio fuori dagli Stati Uniti.
Se vogliamo andare alle origini, però, possiamo risalire ancora più indietro, al 12 novembre 1999, quando il presidente Clinton (non Bush, si noti!) ratifica il Gramm-Leach-Bliley Act, che alleggerisce drasticamente i controlli e i vincoli sul sistema finanziario statunitense. Queste misure accelerano l’abnorme e sregolato sviluppo dei mercati finanziari, in particolare quelli dei derivati, che tanta parte giocano nell’attuale crisi. L’intesa è trasversale: il presidente democratico Clinton ratifica una legge proposta, tra gli altri, dal senatore repubblicano Phil Gramm, che nella campagna presidenziale statunitense del 2008 è stato il principale consigliere economico di McCain; a quanto si dice, era anche candidato a ministro del Tesoro nel caso di vittoria repubblicana2. In realtà, la fase della deregolamentazione e del liberismo oltranzista inizia già a cavallo del 1980, con la presidenza di Reagan negli Stati Uniti e il governo della signora Thatcher in Gran Bretagna: prende avvio da allora l’onda lunga della «superbolla» (come la chiama Soros, 2008a e 2008b) della finanziarizzazione, la cui esplosione è innescata dalla crisi dei mutui immobiliari3.
In ogni caso, appare errato partire dal fallimento della Lehman Brothers, il 15 settembre 2008, che può essere semmai considerato il momento in cui la crisi raggiunge il suo apice. Si perderebbero di vista, in questo modo, i principali nessi di causa ed effetto che spiegano lo scoppio della crisi.
Quel che conta, comunque, è l’intrecciarsi degli eventi. La Borsa cala, anzi crolla, perdendo oltre il 50%, negli Stati Uniti come in Europa, tra il settembre 2007 e il febbraio 2009. La discesa delle quotazioni avviene in modo irregolare, come sempre succede in questi casi, con tonfi come quello del 6 ottobre 2008, il lunedì nero, seguito nella stessa settimana da un quasi altrettanto fosco venerdì 10. Segue un declino più graduale e perfino qualche rimbalzo notevole o, più spesso, qualche accenno di timida ripresa, fino a quelli che da più parti vengono letti – con maggiore ottimismo nei trimestri centrali del 2009 – come segni di un’inversione di tendenza. Sotto la superficie, però, difficoltà e rischi restano intatti; i cenni di ripresa delle quotazioni di Borsa non si accompagnano infatti a una netta ripresa dell’economia reale, dove la discesa dell’occupazione continua.
La discesa delle quotazioni azionarie è diversa da settore a settore e da società a società: cosa molto importante per chi investe in Borsa, ma anche perché determina una drastica redistribuzione del potere economico. Ad esempio, possiamo confrontare le General Motors con le Toyota all’interno del settore automobilistico, o imprese appartenenti a settori diversi come quello bancario e quello elettrico, Unicredit con enel. Alcuni paesi sperimentano difficoltà maggiori di altri, con un mix diverso tra crisi economica e crisi finanziaria. Anche se è troppo presto per individuare tendenze chiare e consolidate, si tratta di aspetti fondamentali, destinati a produrre modifiche significative agli assetti geo-politici mondiali. Tuttavia la caduta è generale: le perdite complessive dei detentori di azioni raggiungono cifre da capogiro, il rallentamento della produzione e la crescita della disoccupazione e del malessere sociale sono sentiti ovunque.
Nelle prime fasi della crisi si susseguono i tentativi di intervento a sostegno della Borsa. Innanzitutto, registriamo dosi massicce di dichiarazioni ottimistiche delle autorità monetarie e dei leader politici, in alcuni casi tanto esagerate da risultare ridicole e controproducenti. Seguono interventi concreti delle autorità monetarie e di Borsa. Queste ultime adottano modifiche relativamente modeste ma significative alle regole del gioco, come la sospensione della possibilità di vendere azioni allo scoperto (magari limitata a taluni titoli o gruppi di titoli, con tanti saluti alle tradizionali dichiarazioni di principio sull’uniformità delle regole del gioco – il favoleggiato level playing field – che è condizione essenziale per una concorrenza effettiva). Le autorità monetarie, dal canto loro, intervengono con massicce iniezioni di liquidità nel sistema, di dimensioni mai sperimentate prima. Intanto, dietro le quinte, cercano di favorire soluzioni interne al settore privato per salvare le aziende del settore finanziario in maggiori difficoltà.
Gli interventi, tuttavia, sortiscono effetti di brevissima durata, o addirittura contrari alle intenzioni. Nell’ottobre 2008 la situazione sembra precipitare. Almeno fino a quando, nel momento in cui il sistema finanziario appare prossimo al collasso in tutto il mondo, i governi e le banche centrali dei principali paesi non decidono di intervenire con tutto il peso dei mezzi a loro disposizione: assicurano i depositi di conto corrente, predispongono amplissime linee di finanziamento per le banche, si dichiarano pronte a intervenire nel capitale degli istituti di credito che risultassero in difficoltà altrimenti insormontabili, intervengono attivamente a coprire le perdite nei casi più difficili, modificano aspetti importanti della normativa. I mezzi impegnati sono paragonabili, per dimensioni potenziali, a quelli messi in campo in occasione della prima guerra mondiale4; se appaiono in via immediata di minore entità, ciò dipende solo dal fatto che in gran parte si tratta di impegni sul futuro, come accade quando si forniscono garanzie che implicheranno veri e propri esborsi solo nel caso in cui vi siano fallimenti bancari di notevole entità.
La caduta della Borsa ha origine nella diffusa opinione che varie imprese presenti nel listino siano in difficoltà. All’inizio si è trattato soprattutto di banche, assicurazioni e società finanziarie di vario tipo. In molti casi, le difficoltà erano reali (più avanti vedremo come si è creata questa situazione); inoltre, poiché il mondo finanziario si nutre di fiducia, le opinioni hanno generato automaticamente la propria conferma, indipendentemente dal fatto che fossero o no fondate. Il peggioramento di quello che viene chiamato «clima economico» ha ben presto fatto sì che nella crisi venissero coinvolte anche le società non finanziarie, dando luogo a un calo generalizzato della Borsa.
Così, quello che ad alcuni commentatori troppo ottimisti era sembrato un problema delimitato – la crisi dei mutui sub-prime, sulla quale torneremo più avanti – si è esteso molto rapidamente a macchia d’olio: da alcune aziende di credito a tutto il comparto, poi a tutta la Borsa, poi dalla finanza all’economia nel suo complesso. La crisi è stata segnata da un elenco, ormai lungo, di salvataggi di grandi società finanziarie in crisi e fallimenti. In alcuni casi, soprattutto all’inizio, gli interventi di salvataggio sono stati realizzati da altre società private; ma comunque sono stati orchestrati dalle autorità pubbliche, in particolare delle banche centrali, che spesso hanno anche fornito sostegni concreti. Tuttavia, non è stato possibile evitare alcuni fallimenti clamorosi. Una volta si diceva «Too big to fail» (questa società è troppo grossa per fallire; in Italia si dice: «Se fallisce la fiat fallisce tutto il paese»); ora invece si paventa «Too big to be rescued» (questa società è troppo grossa per essere salvata).
Naturalmente molto dipende anche dalla forza economica dei potenziali salvatori. Gli Stati Uniti, grazie alle loro dimensioni economiche e al ruolo del dollaro nel sistema monetario internazionale, possono permettersi interventi che sono fuori della portata di altri paesi, come quello che hanno compiuto il 23 novembre 2008 per il salvataggio di Citigroup. Lo si è visto, a contrario, nel caso dell’Islanda: quando le autorità di politica economica hanno deciso di salvare le loro principali banche, è stato l’intero paese ad andare in crisi; quando l’8 ottobre la banca centrale islandese ha dovuto abbandonare l’ancoraggio del krónur all’euro, la valuta è crollata, perdendo oltre il 60% in poche ore. Nei mesi successivi, grazie a vari interventi la situazione si è stabilizzata; tuttavia, dato che l’Islanda importa quasi tutto, anche una svalutazione pari solo al 10% comporta una perdita di potere d’acquisto per gli islandesi di quasi il 10%.
La crisi, come si è accennato, ha origine negli Stati Uniti. Da lì il contagio si è diffuso molto rapidamente nel resto del mondo: sia per quel che riguarda l’andamento delle Borse, sia per quel che riguarda le difficoltà di società finanziarie piccole e grandi. La crisi ha travolto non solo l’Inghilterra, il cui sistema finanziario è simile a quello statunitense5, ma pure i paesi dell’euro e il resto del mondo; anche la Borsa russa è crollata, e in alcuni giorni è stata costretta a bloccare le contrattazioni per eccesso di ribasso.
Anche l’Italia è stata colpita, pur se ha consuetudini e usi operativi ben più cauti degli Stati Uniti. Ad esempio, per quel che riguarda i mutui sulle case la norma, da noi, è che l’acquisto venga finanziato al 50%, al massimo al 70%, per cui un calo pur ragguardevole del prezzo degli immobili non fa venire meno la garanzia sul prestito costituita dall’ipoteca6. Negli Stati Uniti, grazie alla deregolamentazione, spesso e volentieri il finanziamento arrivava al 90 se non al 100% del prezzo di acquisto dell’immobile; di conseguenza, se il valore della casa diminuisce, nel caso di mancata restituzione del prestito la garanzia dell’ipoteca risulta insufficiente a coprire la perdita della società finanziaria che ha emesso il mutuo. Nel complesso, considerando anche la diffusione del credito al consumo, le famiglie statunitensi hanno in media debiti pari al 120% circa del proprio reddito.
I problemi non riguardano solo i mutui immobiliari e le istituzioni finanziarie che li hanno in carico. La discesa dei corsi di Borsa aggrava la situazione finanziaria di alcune banche d’affari, che spesso detengono pacchetti azionari acquistati indebitandosi. In Italia, questo è il caso della Franco Tassara, di proprietà del finanziere Zaleski, che è stata un importante crocevia di intersezioni di interessi finanziari e oggetto di una delicata operazione di salvataggio. Così altre difficoltà si aggiungono a quelle dei mutui sub-prime.
Dato che le istituzioni finanziarie operano in genere con un elevato leverage (rapporto tra attività complessive e capitale proprio), è sufficiente una perdita relativamente modesta in percentuale sul valore degli attivi (di poco più del 7%, ad esempio, se i mezzi propri sono pari al 7% dell’attivo) per rendere insolvente l’istituzione stessa. Con cali di Borsa che toccano il 50% rispetto ai precedenti massimi, con perdite sui mutui, con perdite sui derivati (di cui parleremo più avanti), chi vive e opera nel settore e sperimenta sulla propria pelle la gravità della crisi è indotto a considerare tutti gli altri come potenzialmente prossimi al fallimento: il credito interbancario si blocca, e sulla sua scia si bloccano tutti i flussi di prestiti. In questa situazione, anche chi ha un attivo solido ma è carico di debiti a breve o brevissimo termine può incappare in una crisi di liquidità, non riuscendo a rifinanziare i debiti in scadenza. (In teoria, la distinzione tra difficoltà nel conto economico e patrimoniale e problemi di liquidità è netta; tuttavia, in pratica la distinzione può divenire meno netta quando la valutazione delle attività finanziarie dipende dalla necessità di liquidarle con urgenza.) Solo interventi particolarmente decisi delle banche centrali, che hanno inondato di liquidità i mercati, sono riuscite a evitare un collasso totale del sistema finanziario.
A marzo 2008 Bear Stearns viene salvata da JP Morgan, dopo trattative condotte dalla Federal Reserve di New York e con un intervento ad hoc di circa 30 miliardi di dollari. Sembrano (e sono, per un osservatore italiano) cifre enormi; ma il salvataggio di Citigroup, deciso otto mesi dopo, rischia di costare dieci volte tanto se non di più, e ancor più rischiano di costare i salvataggi di Fannie Mae e Freddie Mac, già ricordati sopra, e quello di aig, che richiameremo più avanti.
In una situazione di crisi sempre più diffusa, i tentativi di soccorrere le banche in maggiori difficoltà si susseguono. Tuttavia, non è facile agire su un fronte così ampio e mettere in campo i fondi necessari. All’inizio, in una situazione che non è ancora di panico, si fa sentire anche l’adesione retorica ai principi dell’economia di mercato per cui chi sbaglia deve pagare: ne sono un esempio i commenti di Francesco Giavazzi, ben presto controbilanciati da osservazioni di segno opposto (ovviamente senza alcun cenno di autocritica)7, ma anche la posizione iniziale di Mervyn King, governatore della Bank of England. Proprio mentre si avvicinano le elezioni presidenziali statunitensi del novembre 2008, questa retorica liberista rende difficile una politica di salvataggi generalizzati. Fin quando è possibile favorire l’intervento di altre istituzioni private, anche con aiuti concreti da parte pubblica (che evidentemente costituiscono una violazione delle regole di un mercato concorrenziale), si va avanti tranquillamente; ma quan...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Cronologia e gestione della crisi1
  3. 2. Le cause della crisi finanziaria
  4. 3. Effetti della crisi
  5. 4. Quelli che avevano previsto la crisi
  6. 5. Rischio e incertezza
  7. 6. La crisi della cultura economica: i Candide neoclassici e i Voltaire keynesiani
  8. 7. Una nuova Bretton Woods?
  9. 8. Il futuro del capitalismo
  10. Bibliografia*