Lo Stato non ha vinto
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Lo Stato non ha vinto

La camorra oltre i casalesi

  1. 240 pagine
  2. Italian
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Lo Stato non ha vinto

La camorra oltre i casalesi

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Tutto si compie nel carcere dell'Aquila dove Antonio Iovine è stato condotto per essere interrogato. Ha chiesto di parlare, è deciso. Lo conoscevo, Iovine. Anni e anni di lavoro per catturarlo. Un'ossessione. Per me e per la polizia giudiziaria. Fu lui a chiamare me. Ed io a farlo condurre a L'Aquila. Eccoci. Il reparto è piccolo e riservato, destinato ai detenuti al 41 bis. Controlli rigorosissimi e massima segretezza. Iovine è stato registrato con un nome in codice. Mi sistemo, chiedo che entri.«Buongiorno, dottore, da quanto tempo?». «Prego Iovine, si accomodi».Fine del clan dei casalesi.Il clan dei casalesi non esiste più. È stato sconfitto con l'arresto dei suoi capi e dei latitanti storici Antonio Iovine e Michele Zagaria. Lo Stato non ha vinto è il racconto in presa diretta di come questo è avvenuto e delle indagini condotte dal Pubblico Ministero della Direzione distrettuale antimafia di Napoli Antonello Ardituro che per anni ha indagato sugli affari illeciti del clan. È lui che ha coordinato le ricerche che hanno portato alla cattura dei boss latitanti Mario Caterino, Giuseppe Setola e del capo Antonio Iovine, collaboratore di giustizia dal maggio 2014. Leggendo il suo racconto, scritto con Dario Del Porto, scopriremo come si èsgretolata la rete di comando della più potente famiglia di camorra, la trama complessa del suo sistema, i delitti, i protagonisti.Scopriremo chei casalesi hanno perso ma che lo Stato non ha vinto. Perché è stato troppe volte complice, troppe volte connivente, altre volte distratto. I boss sono in carcere, ma il groviglio delle relazioni, dei rapporti, delle trame indicibili, è ancora lì, forte. Per sconfiggere la camorra che va oltre i casalesi e continua a fare affari, non basta arrestare boss e affiliati. E neppure portargli via i beni. Il trono è vuoto ma lo Stato non ha vinto. Non ancora.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858119846
Argomento
Economia

1. Casalesi, ultimo atto

Il 13 maggio 2014 il clan dei casalesi è stato sconfitto dallo Stato. Antonio Iovine, lo storico capo dell’organizzazione insieme a Michele Zagaria, dopo quasi quattro anni di carcere duro e quindici anni di latitanza da boss irriducibile, decide di collaborare con la giustizia e certifica la resa del clan più potente della camorra. Si chiude una storia iniziata il 26 maggio 1988 con la scomparsa di Antonio Bardellino, ammazzato da coloro che si chiameranno da allora «i casalesi». Un caso raro, quello del clan dei casalesi. Un’organizzazione camorristica di cui è possibile datare con precisione l’inizio e la fine. Prima fu «Bardellino», poi i casalesi, dopo... chissà. Sempre camorra, ma altro.
Tutto si compie nel carcere dell’Aquila dove Antonio Iovine è stato condotto per essere interrogato. Ha chiesto di parlare, è deciso, dopo un lungo periodo di riflessione, di incertezze e di titubanze. Emergeva chiara la sua volontà, già da tempo, molto tempo, ma non arrivava mai il momento giusto. Avevo perso la speranza che potesse accadere. Soprattutto dopo l’arresto del figlio Oreste. Il boss si era chiuso a riccio, schiumava rabbia. Così i suoi familiari. Aveva reagito male, malissimo. E lo diceva chiaramente, per farsi ascoltare. Ce l’aveva con me. Pensava ad una trappola. Un arresto per fatti gravi costruito a tavolino per indurlo a collaborare e salvare il figlio. Una reazione violenta, la sua. La chiusura di ogni possibilità, le minacce. Il mio nome accostato al sangue che scorre. Voleva farsi sentire. Per affermare la sua natura di boss che non cede a queste pressioni. Per intimidire. Forse per avere un contatto col magistrato senza doverlo chiedere. Non andai. Sarebbe stata una debolezza. Non mia, ma dello Stato. Si sarebbe calmato, col tempo. Lo conoscevo, Iovine. Anni e anni di lavoro per catturarlo. Un’ossessione. Per me e per la polizia giudiziaria. Avevamo imparato a conoscerlo. Persona razionale, fredda, riflessiva. Infatti. Iniziò a ragionare, a riflettere, ad elaborare. A convincere la moglie e i figli.
E fu lui a chiamare me. Ed io a farlo condurre a L’Aquila.
Eccoci. Il reparto è piccolo e riservato, destinato ai detenuti al 41 bis, con tre celle distanti l’una dall’altra. In mezzo, una saletta utile per gli interrogatori. Controlli rigorosissimi del Gom e massima segretezza del Nic, uomini fidati e altamente qualificati dei reparti specializzati della polizia penitenziaria. Iovine è stato registrato con un nome in codice, un alias. Me ne accorgo quando mi viene sottoposto il registro per le comunicazioni all’ufficio matricola. Mi sistemo, chiedo che entri. «Buongiorno, dottore, da quanto tempo?». «Prego Iovine, si accomodi».
Fine del clan dei casalesi.
Avevo già incontrato due volte Antonio Iovine. La prima, in Questura, a Napoli, dopo l’arresto. Un veloce scambio di battute prima che fosse portato in carcere e trasferito, il giorno dopo, a Badu ’e Carros, nel carcere di Nuoro. Un provvedimento di massima sicurezza immediato in un carcere duro e specializzato nella detenzione di terroristi. Una sezione crea-
ta ad hoc per il pericolosissimo casalese. Era frastornato, in Questura, Iovine, e continuava a sfoggiare quel ghigno che fotografi e operatori immortaleranno all’uscita dal palazzo. «Non sono quello di cui si parla nei libri ed in televisione», disse, «io ho sempre lavorato per mettere pace».
Queste le sue parole, dopo aver salutato i figli e la moglie, conscio di essere destinato al carcere a vita. Poche parole, ma indicative, di un boss che voleva mostrarsi diverso, socievole con gli investigatori, dai modi educati e gentili. Se ne stava seduto con le gambe accavallate, con le mani impastate l’una all’altra, sottile nel busto e quasi avvinto alla sedia come un traliccio di vite attorcigliato al bastone del filare. Occupava una porzione di spazio piccolissima, quasi a non voler essere ingombrante, in quella stanza grande con il televisore in alto fisso sulla pagina di televideo che dava la notizia della sua cattura. Quello era il capo dei casalesi, autore di numerosi omicidi, un uomo che comandava su migliaia di persone, controllava gli appalti, gestiva i rapporti con la politica. Quello era il boss latitante, ricercato per anni da tutte le forze di polizia. ’O ninno appariva in tutta la sua fragilità di uomo davanti ad altri uomini. Per la prima volta vedeva di fronte a sé lo Stato, quello che aveva imparato a conoscere come incerto e titubante, quando non connivente o colluso, e ora gli appariva freddo e determinato, convinto dei propri passi, soddisfatto ma razionale. Occorreva redigere gli atti, convalidare l’arresto dell’uomo che lo ospitava, Marco Borrata, predisporre la documentazione per il Ministero per il decreto del 41 bis, preparare la conferenza stampa per il procuratore della Repubblica.
«Pensi a tutto il male che ha fatto, e ne tragga le conseguenze. Arrivederci Iovine».
Ci siamo rivisti il 3 agosto 2011, dopo quasi nove mesi. Iovine aveva ricevuto un avviso di conclusione di indagine in un processo per usura e aveva chiesto di essere interrogato. Una scelta originale, per un boss detenuto al carcere duro con un ergastolo definitivo. Ancora una mossa a sorpresa. Continuava a volersi dimostrare diverso dagli altri, ’o ninno. Diverso durante la latitanza, spesso trascorsa da ospite in comode abitazioni anziché in soffocanti e claustrofobici bunker; diverso al momento dell’arresto, con quel suo atteggiamento da timido studente dinanzi alla commissione dell’esame di laurea; diverso nel ricercare un contatto con il magistrato che ne aveva decretato la fine di uomo libero. Astuto, furbissimo, il padrino. Forse alla ricerca di un diversivo alla monotonia della detenzione in isolamento di quei mesi. Cosa di meglio che guardare negli occhi colui che riteneva la causa del distacco dai suoi amatissimi figli? Ci andai, non potevo fare diversamente, per regola processuale. Sarei andato comunque, per dovere investigativo e per curiosità personale; per provare a capire perché un uomo, tanti uomini, possono fare così male alla propria terra e alla propria gente, pur restando convinti di esserne i salvatori.
Gli atti erano stati depositati. Era il processo giusto. Quello in cui Iovine appariva per come mi ero convinto che fosse. Anzi, che fosse diventato. Prima, da giovane, violento, impulsivo, capace di togliere la vita per nulla. Poi più razionale, calcolatore, con il carisma giusto per comandare un clan molto potente e per reggere la diarchia con Michele Zagaria. Convinto che la camorra è forte quando non spara, quando risolve i problemi con l’autorevolezza e con la capacità di dialogare con tutti, altri clan, innanzitutto, ma anche politica e istituzioni; fortissima quando è in grado di porsi come soggetto regolatore dei conflitti sul territorio, quelli sociali fra datore di lavoro e lavoratore, quelli economici fra creditore e debitore, persino quelli personali fra marito e moglie, padre e figlio, condomino e vicino di casa, colono e cacciatore.
Era intervenuto, Iovine, in una questione di usura. Domenico Picone aveva contratto debiti per quasi 100mila euro con un dentista di Casal di Principe presso cui lavorava, Vincenzo Corvino – che era stato anche sindaco del piccolo Comune aversano –, e con un suo collega odontotecnico, tale Antonio De Fatico. Aveva conosciuto Antonio Iovine quando, da latitante, si presentava nello studio di Corvino per curarsi i denti. Giungeva nascosto in una macchina, si infilava nel garage sottostante e saliva direttamente allo studio di mattina, durante l’orario di chiusura al pubblico. Salutava il medico con il classico doppio bacio sulla guancia e si sedeva per le cure del caso. Ad accoglierlo, anche una collaboratrice del dentista, amica e vicina di casa della famiglia Iovine, che faceva da tramite per gli appuntamenti. Era il 1996. Ci teneva ai suoi denti, il boss. Un’abitudine che doveva coltivare periodicamente, visto che il giorno dell’arresto, in un bigliettino che aveva con sé, si faceva riferimento proprio ad Angela, quell’amica di famiglia, e al dentista, in un appuntamento fissato per il giorno dopo: «appuntamento angela dentista giovedì 18 nov.- x milly [la figlia Filomena]».
La casa di Marco Borrata – dove sarà arrestato – era il posto giusto dove trascorrere un paio di giorni prima della visita, considerato che si trovava nei pressi dello studio di Corvino. No, era il posto sbagliato, visto come sono andate le cose. In un colloquio in carcere il boss se ne lamenterà con la figlia:
Filomena: Che dovevi andare là.
Detenuto: Sono circostanze Milly a papà! Impazzii che mi dovevo togliere il molare! Se mi facevo i cazzi miei, no, non ci andavo! Hai capito? Però voglio dire e...
Filomena: È successo.
Non ce la faceva più a pagare Domenico Picone, sottoposto ad interessi usurari del 7% mensile. E si ricordò di Antonio Iovine, della sua conoscenza con Angela e con il dottor Corvino. Chiese un incontro e lo ottenne. Si presentò da paciere ’o ninno, con quel suo modo gentile e allusivo, che lascia intendere di essere uomo di mondo che non ha bisogno di alzare la voce per farsi ascoltare. Il povero Picone gli spiegò la situazione, speranzoso, e fu rassicurato. Tornerà altre volte al cospetto del boss, nel giro di pochi mesi. Con le solite modalità: niente telefonini al seguito, un tratto di strada con la sua macchina a seguirne un’altra; una breve sosta per lasciare l’auto e salire su quella che lo precedeva; un giro per le campagne e l’ingresso in un’abitazione; poco dopo, ecco sopraggiungere Iovine. Lo aveva affidato per questi appuntamenti e per i contatti di dettaglio ad un tale Mario, che si scoprirà essere Biagio Diana, cognato di Marco Borrata. Quattro incontri per rendersi conto che il boss stava dalla parte dei suoi aguzzini. Il conto doveva essere saldato pagando 80mila euro, firmando cambiali per altri 150mila, e vendendo sottocosto un terreno del padre allo stesso Iovine. Non c’era altra soluzione. Il boss aveva decretato che avevano ragione Corvino e De Fatico. E così doveva essere. Anzi, visto che comunque lui si era messo a disposizione, Picone doveva ricambiare, prestandogli il suo documento d’identità che poteva tornare utile, con le opportune modifiche, durante la latitanza, per uno dei suoi soliti viaggi d’affari o di piacere.
La vittima si era adeguata, consapevole di essere caduta dalla padella nella brace; aveva raccolto un po’ di soldi, firmate tutte le cambiali, consegnato il documento; era riuscito ad evitare, per il momento, la vendita del terreno del padre, quello no, quello sarebbe stato davvero troppo. Era disperato, Picone. Aveva tirato un sospiro di sollievo al momento dell’arresto di Iovine; il terreno di papà era salvo, almeno quello. Ma le cambiali giungevano man mano a scadenza e lui non pagava. L’arresto di Iovine non aveva fermato gli affari del clan, e di quella questione si continuava ad occupare proprio Biagio Diana, che le intercettazioni avevano rivelato essere fidatissimo uomo di Iovine. Lo zio di Maria e Benedetta, due giovanissime cugine che saranno coinvolte nelle indagini sulla cattura della latitante, si occupava a tempo pieno del clan; racconterà alla figlia che non aveva più tempo per fare il carrozziere, perché lo mandavano in giro per «servizi». E alla donna con cui si vedeva di nascosto, quando ancora Iovine era libero, spiegherà che qualche appuntamento poteva saltare all’improvviso se fosse arrivata una chiamata.
Francesca: papà ma tu non lavori più ad aggiustare le macchine?
Biagio: [incomprensibile]
Francesca: eh! Ma tu lavoravi, ma non ci lavori più ora lavori solo a fare i servizi
Biagio: eh! ora papà sta facendo altre cose
Francesca: ti fanno fare tutto a te?
Biagio: eh! [omissis]
B [Biagio Diana]: domani dormiamo insieme
R [Raffaella Villa]: eh!
B: te lo dissi
R: sei contento amore
B: te lo dissi che succedeva
R: eh! Eh!
B: te lo dissi o no!
R: sì! Come!
B: tu non mi credi vedi
R: eh!
B: devi sapere attendere hai capito!
R: eh! [incomprensibile]
B: però sono imprevedibile hai capito qual è il problema, io per questo non prometto, non prometto mai niente perché non sono liberissimo hai capito! Ma non per la famiglia, per altre cose. È capace che a volte mentre sto venendo devo ritornare indietro [incomprensibile] gli impegni no! Ora, speriamo che domani non succede niente.
L’impegno dello zio di Maria e Benedetta, dopo l’arresto del boss, era inevitabilmente aumentato. Maggiori responsabilità. Se n’era accorto anche Picone, al quale a muso duro Diana aveva ribadito di non pensare che con...

Indice dei contenuti

  1. Prologo. Il tornado
  2. 1. Casalesi, ultimo atto
  3. 2. La donna che ha sfidato il clan
  4. 3. Una stagione di sangue. Attacco al cuore dello Stato
  5. 4. Quell’albero di noci
  6. 5. La terra dei rifiuti
  7. 6. Un napoletano a Casal di Principe
  8. 7. Nella scia di «Sandokan»
  9. 8. Il boss borghese
  10. 9. La mossa del cavallo
  11. 10. Il groviglio
  12. Epilogo. Il trono vuoto