L'autunno della Repubblica
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L'autunno della Repubblica

  1. 272 pagine
  2. Italian
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L'autunno della Repubblica

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Informazioni sul libro

Amore per il bene comune e governo della legge sono i pilastri dello spirito repubblicano. In Italia invece imperversano corruzione, vanità, arroganza, ostentazione della ricchezza e animo servile. Come ci siamo arrivati? E ora che fare?

A settant'anni dalla nascita, la nostra Repubblica sembra vivere il tempo malinconico dell'autunno. Maurizio Viroli legge le tappe fondamentali della storia d'Italia, dalla discesa in campo di Berlusconi fino alle riforme renziane, individuando un filo conduttore rappresentato dal progressivo sfaldamento delle istituzioni repubblicane. Cosa può fare chi non vuole arrendersi? Attraverso un itinerario di storia e memoria, l'autore ci invita a riprendere la via dell'impegno e a ritrovare il vero spirito repubblicano.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858126646
Argomento
Economics

In medias res

Nel mondo oggi più di ieri domina l’ingiustizia,
ma di eroici cavalieri non abbiamo più notizia;
proprio per questo, Sancho, c’è bisogno soprattutto
d’uno slancio generoso, fosse anche un sogno matto [...].
Salta in piedi, Sancho, è tardi, non vorrai dormire ancora,
solo i cinici e i codardi non si svegliano all’aurora:
per i primi è indifferenza e disprezzo dei valori
e per gli altri è riluttanza nei confronti dei doveri!
L’ingiustizia non è il solo male che divora il mondo,
anche l’anima dell’uomo ha toccato spesso il fondo,
ma dobbiamo fare presto perché più che il tempo passa
il nemico si fa d’ombra e s’ingarbuglia la matassa...
Francesco Guccini, Don Chisciotte
L’autunno è splendore struggente e trionfo dei colori e dei profumi dell’estate che finisce, ma anche il tempo malinconico e uggioso che annuncia il gelo dell’inverno. In questo senso è simile a ciò che cerco di descrivere in questo libro: l’agonia della nostra Repubblica, che sta morendo di corruzione per la stoltezza intellettuale e morale e la malignità dei suoi governanti, per la superficialità, l’indifferenza, l’ottusità di spirito e l’animo servo di troppi suoi cittadini.
Tre grandi opere che mi sono care mi hanno suggerito il titolo: Autunno del Medioevo di Johan Huizinga, del 1919, Autunno del Rinascimento. «Idea del Tempio dell’arte» nell’ultimo Cinquecento, di Carlo Ossola, e Autunno del Risorgimento. Miti e contraddizioni dell’Unità, di Giovanni Spadolini, entrambi del 19711.
Mi auguro che il lettore ben disposto possa cogliere il declino della Repubblica da alcuni dei miei scritti di argomento civile pubblicati sulla «Stampa» e sul «Fatto Quotidiano» negli ultimi vent’anni, che qui propongo perché ancora attuali e utili ad una riflessione sul nostro tempo. Articoli di giornale e scritti nati nelle più diverse circostanze non fanno un libro. Ho dunque selezionato alcuni di quelli ispirati dall’ideale repubblicano di una comunità di cittadini che vivono insieme sotto il governo della legge per il bene comune, amano la loro patria, detestano ogni forma di dominio, odiano il vivere servo e non sopportano la corruzione.

Dai libri all’impegno per gli ideali repubblicani

Ho cominciato a leggere le opere del pensiero politico repubblicano agli inizi degli anni Ottanta. Ero studente di dottorato all’Istituto Universitario Europeo di Firenze, ed ebbi la grande fortuna di incontrare Quentin Skinner, venuto da Cambridge per tenere una lezione su Thomas More. Fu lui ad incoraggiarmi a studiare il pensiero politico di Jean-Jacques Rousseau nel contesto del repubblicanesimo moderno: non un precursore di John Rawls, come poco saggiamente mi proponevo, ma un continuatore, per importanti aspetti, di Niccolò Machiavelli. Da allora ho continuato a lavorare sul pensiero politico repubblicano e credo proprio che resterà il mio argomento prediletto di ricerca.
Non sono soltanto uno studioso del repubblicanesimo, mi sento repubblicano. Amo i princìpi fondamentali di questa tradizione e cerco di applicarli nella vita e nell’analisi dei fatti politici e sociali. Più volte mi sono chiesto perché, fra le diverse idee politiche che ho studiato, soltanto quelle repubblicane mi hanno affascinato a tal segno da diventare la mia filosofia di vita. Credo che la ragione sia che si adattano bene all’indole ribelle e irrequieta che ho manifestato fin da piccolo. Ricordo a questo proposito un episodio che risale a quando ero bambino e abitavo a Forlì con i miei genitori, in via Archimede Mellini, in un appartamento angusto e freddissimo, riscaldato soltanto da una stufa a gas tenuta, per la nostra povertà, sempre con la fiammella azzurrognola al minimo.
Un parente mi regalò un pallone bianco di plastica, quelli di cuoio erano un sogno irraggiungibile. Era l’unico pallone che avessi mai posseduto e lo portai trionfante alla partita pomeridiana che si disputava, per strada, fino al calare della sera. All’improvviso vidi tutti i compagni fuggire come lepri. Restai solo con il mio pallone in mano. Mi voltai e capii: era arrivato il vigile urbano, un omone gigantesco che mi strappò il pallone dalle mani e mi annunciò che l’avrebbe sequestrato perché era proibito giocare a calcio per strada. Impazzito di rabbia, mi avvinghiai alle enormi gambe del vigile e cominciai a mordere, calciare, graffiare come una furia scatenata, fino a quando il malcapitato mi staccò a forza e stramazzai piangente sull’asfalto. Sono passati più di cinquant’anni da quell’episodio e soltanto un po’ più di senno e il timore delle conseguenze mi trattengono dal reagire con la medesima violenza alle prepotenze che subisco o vedo altri subire. Nelle pagine di molti scrittori politici repubblicani avverto il medesimo sdegno contro i soprusi, la medesima volontà di reagire e abbattere i prepotenti e gli oppressori. Per questa ragione non mi stanco di leggere i loro testi, mentre mi vengono subito a noia gli scritti dei filosofi politici, dai quali non traspare alcun moto di sdegno contro le ingiustizie.
Se il rancore che covavo dentro non è degenerato in ribellione contro tutto e tutti lo devo al ’68. Per la prima volta qualcuno, oltre ai miei genitori che non c’erano quasi mai, mi accoglieva. La povertà che avevo sempre sentito addosso come una vergogna non contava più nulla; erano, anzi, la ricchezza e la fatuità ad essere meritevoli di disprezzo. Anche i leader, quelli che sapevano cosa dire, parlavano con me e raccontavano di mondi lontani, grandi lotte, popoli eroici: il maggio francese, il Vietnam, la protesta degli studenti americani in quei loro campus che a me parevano l’anticamera del paradiso. Durante le riunioni leggevano e commentavano giornali e riviste di cui non sospettavo neppure l’esistenza, citavano libri: Marx, Lenin, Ho Chi Min, Che Guevara, Marcuse, don Milani e altri ancora. Frequentando il movimento studentesco conobbi addirittura dei professori che parlavano a noi studenti come se fossero dalla nostra parte. Ci chiamavamo ‘compagni’.
Fu con loro e grazie a loro che cominciai a studiare la politica, la società, la storia. Nacquero allora in me la passione per i libri e la voglia di conoscere che mai avevo avuto prima e che da allora non mi hanno più lasciato. Se non fosse stato per il sostegno del movimento non avrei neppure terminato gli studi. Nel gennaio del 1968, se ricordo bene, fui infatti minacciato dal preside del liceo scientifico «Fulcieri Paulucci di Calboli» di espulsione da tutte le scuole d’Italia ai sensi del codice di disciplina scolastica, voce «offesa alla morale». Avevo apostrofato sua figlia, studentessa anche lei, con parole assai volgari rispondendo ad un suo sprezzante commento contro noi ‘contestatori’. Convocarono mio padre, che mai aveva messo piede nel liceo. In presidenza gli notificarono con sussiego e alterigia la decisione che intendevano prendere. Per mia fortuna il caso fu denunciato dai compagni come esempio di autoritarismo e repressione. Fu indetto uno sciopero di solidarietà che, per la prima volta nella storia del liceo, fu unanime. La mobilitazione culminò in un’affollatissima assemblea presso la Saletta della Provincia, un piccolo vecchio teatro, e strappò al consiglio dei professori l’impegno a tramutare la minacciata espulsione in sospensione di quindici giorni. Tralascio gli episodi da melodramma, come l’abbraccio di perdono che la figlia del preside mi concesse sul palcoscenico fra gli applausi di tutti e la commozione delle professoresse più anziane, felici di assistere ad una scena che avevano visto solo nei film.
Un altro aspetto del pensiero repubblicano che lo rende particolarmente consono alla mia storia personale è il disprezzo per la corruzione, la vanità, l’ostentazione della ricchezza e l’animo servile. Anche in questo caso le esperienze della vita aiutano a capire le mie passioni intellettuali. Per potermi mantenere agli studi, a quattordici anni lavoravo come garzone di bottega presso una segheria e a sedici trovai posto come cameriere negli alberghi della riviera romagnola. Cominciavo la stagione il 1° giugno, prima che l’anno scolastico terminasse, e la chiudevo il 30 settembre, un giorno prima di tornare sui banchi di scuola. Fu lì che vidi da vicino il mondo dei ricchi. Tranne pochissime eccezioni, erano ignoranti, prepotenti, volgari. Nonostante questo, se volevo avere le loro ‘mance’, che a me erano necessarie, dovevo obbedire ai loro cenni, essere servizievole, e dissimulare il disprezzo che provavo nei loro confronti. Da quegli anni mi rimase nell’animo un sordo rancore che capii soltanto quando lessi nelle Confessioni l’episodio della cena nel palazzo del conte di Govone, dove Rousseau serviva come domestico.
Quel giorno – racconta Rousseau – si offriva un grande pranzo al quale per la prima volta con mio grande stupore vidi il maggiordomo che serviva con la spada al fianco e il cappello sulla testa. Per caso parlarono del motto della casa di Solaro che insieme alle armi era sulla tappezzeria, Tel fiert, qui ne tue pas, e poiché in genere i piemontesi non sono esperti nel francese, qualcuno trovò in questo motto un errore di ortografia e disse che alla parola fiert non si doveva mettere la t. Il vecchio conte di Govone stava per rispondere, ma mi guardò e visto che sorridevo senza osar dire niente mi ordinò di parlare. Allora dissi che non credevo che la t fosse in più; che fiert era una vecchia parola francese che non veniva dalla parola ferus, fiero, minaccioso, ma dal verbo ferit, colpisce, ferisce, e così non mi sembrava che il motto volesse dire tel menace, ma tel frappe, qui ne tue pas. Tutti mi guardavano e si guardavano senza dire niente: non si vide mai un tale stupore. Ma quello che mi lusingò ancora di più fu il vedere sul viso della signorina di Breil una manifesta aria di soddisfazione; questa giovane così sdegnosa si degnò di lanciarmi un secondo sguardo che valeva almeno il primo, poi volgendo gli occhi verso suo nonno sembrava che aspettasse quasi con impazienza la lode che mi doveva e che infatti mi fece, così piena e intera, e con un’aria così contenta che tutti si premurarono di fargli coro. Questo momento fu breve, ma delizioso sotto tutti gli aspetti; fu uno di quei momenti troppo rari che rimettono le cose nel loro ordine naturale e vendicano il merito, avvilito dagli oltraggi della fortuna2.
Grazie a Rousseau, il mio rancore assunse il significato di una giusta reazione contro il mondo del privilegio senza merito.
Dopo Rousseau venne Machiavelli, con il suo monito che la povertà non deve impedire a chi merita di accedere ai più alti onori e con le sue invettive contro la corruzione:
veramente nelle città di Italia tutto quello che può essere corrotto e che può corrompere altri si raccozza: i giovani sono oziosi, i vecchi lascivi, e ogni sesso e ogni età è piena di brutti costumi; a che le leggi buone, per essere da le cattive usanze guaste, non rimediano. Di qui nasce quella avarizia che si vede ne’ cittadini, e quello appetito, non di vera gloria, ma di vituperosi onori, dal quale dependono gli odi, le nimicizie, i dispareri, le sette; dalle quali nasce morti, esili, afflizioni de’ buoni, esaltazioni de’ tristi3.
Ce n’era d’avanzo perché Rousseau e Machiavelli, e con gli anni più il secondo che il primo, diventassero e siano ancora oggi i miei compagni e maestri.
Fu soltanto dopo il 1996 che cominciai a pensare di diffondere idee repubblicane nell’opinione pubblica italiana e nella parte migliore della sua élite politica. Gli articoli sui giornali mi sembravano il mezzo più idoneo. Erano gli anni immediatamente successivi alla stagione, ahimè troppo breve, di «Mani pulite». Credevo che il pensiero politico repubblicano, con la sua tradizione secolare di lotta contro la corruzione politica e morale in nome della virtù civile, fosse la sola medicina per curare i mali della nostra Repubblica. Vent’anni dopo, devo riconoscere che la fatica di ricostruire un ethos repubblicano è stata vana. Di spirito repubblicano ce n’è ancora meno di allora e l’Italia è ancora più corrotta, più avvilita, più plebea.
Ma allora ritenevo che valesse la pena di provare. A mettermi sulla strada dell’impegno repubblicano fu l’occasione delle celebrazioni del cinquantesimo anniversario della nascita della nostra Repubblica. Il Comune di Forlì, per iniziativa del presidente del consiglio comunale Gabriele Zelli – un galantuomo –, mi invitò a tenere l’orazione ufficiale nel Salone comunale parato per le grandi occasioni. Con mia sorpresa, l’ampia sala era stracolma di autorità, notabili e cittadini. Sostenni che, a differenza di altre repubbliche, la nostra non era nata da una rivoluzione, ma grazie al voto libero e pacifico degli italiani nel referendum al quale si era giunti dopo vent’anni di regime fascista, dopo la tragedia della guerra, dopo le sofferenze e i sacrifici della Resistenza. Grazie a quel libero voto si realizzò il più profondo cambiamento della storia istituzionale d’Italia: nasceva la prima repubblica democratica estesa a tutto il territorio...

Indice dei contenuti

  1. In medias res
  2. Repubblicanesimo
  3. Virtù civile
  4. Per amore della patria
  5. Antifascismo
  6. Costituzione
  7. Repubblica corrotta
  8. Educazione del cittadino
  9. Maestri dimenticati
  10. Passato e presente