Teoria della conoscenza
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Teoria della conoscenza

  1. 168 pagine
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Teoria della conoscenza

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L'aspirazione a conoscere è radicata nella natura umana. Capire che cos'è la conoscenza significa acquisire consapevolezza della propria identità.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858119228

1. L’idea di conoscenza

1.1. Apparenza e realtà

Conoscere è tra gli obiettivi fondamentali dell’esistenza. Un obiettivo che siamo convinti di conseguire quotidianamente, in virtù della quantità di nuove informazioni (sulla nostra mente, l’ambiente che ci circonda, gli altri, senza menzionare poi la scienza, il linguaggio, la politica, l’etica, la religione, l’arte) apprese nel corso di ogni giornata. L’accumulo di conoscenze è, in effetti, un processo incessante, che prende avvio con la nostra nascita per concludersi con la fine della nostra vita.
L’eventualità di rinunciare alla conoscenza ci incute un profondo timore, a causa del rischio che correremmo: la nostra esistenza si ridurrebbe a un mero vegetare. Provare inquietudine di fronte a una possibilità del genere è sintomo dell’alta considerazione in cui teniamo (consapevolmente o inconsapevolmente) il conoscere. Ci allarma anche l’eventualità che quanto crediamo di conoscere (sia questo la nostra data di nascita, il nostro nome, il fatto che di fronte a noi ci sia un tavolo, che 2+2=4, che Londra sia la capitale della Gran Bretagna, e così di seguito) non sia reale, bensì meramente apparente. Non ci spaventa altrettanto l’idea di perdere quelle che potremmo chiamare le nostre “conoscenze virtuali”, relative cioè alla realtà virtuale, a quei mondi immaginari, fittizi, frutto dell’immaginazione, che si concretizzano nelle mitologie, nelle leggende, nei romanzi, nelle opere d’arte, nei film, nei videogiochi, nelle simulazioni al computer. Si tratta di mondi affascinanti, a cui, però, non attribuiamo la medesima importanza che al mondo reale. Certo, al riguardo alcuni enunciati sono veri, mentre altri sono falsi: per esempio, “Sherlock Holmes è un detective” è vero; mentre “Sherlock Holmes è un mafioso” è falso. Questo significa, tra l’altro, che quando parliamo possiamo riferirci a entità fittizie. Eppure tali entità non esistono come esistiamo noi o le entità concrete: per questa ragione chiamiamo “virtuali” le realtà che le concernono.
La filosofia ragiona sui nostri timori e sui nostri problemi nel tentativo di offrirci soluzioni plausibili. Da sempre sono due le sue tematiche cardine: che cos’è la conoscenza e che cos’è la realtà. La prima tematica viene affrontata dalla teoria della conoscenza (o gnoseologia o epistemologia), la seconda dalla metafisica o dall’ontologia. È ovvio, comunque, che esse non possano essere dissociate: da un lato, per sapere cos’è la realtà dobbiamo conoscerla e, pertanto, sapere cos’è la conoscenza; d’altro lato, aspiriamo a conoscere ciò che è reale, cosicché la riflessione sulla teoria della conoscenza necessita di qualche apporto da parte della metafisica.
Consideriamo due semplici domande: cos’è un tavolo?; come lo conosciamo? La risposta alla prima domanda spetta alla metafisica, la seconda alla teoria della conoscenza. Si può ipotizzare che un tavolo venga conosciuto attraverso le sue proprietà (il suo colore, la sua forma, il suo peso, e così via) e che, di conseguenza, siano queste proprietà a caratterizzare cos’è un tavolo. Immaginiamo, però, di sottrarre al tavolo tutte le sue proprietà percepibili. L’operazione non è simile a quella del togliere la buccia a una banana e rimanere con la sua polpa, bensì a quella di togliere e gettare via tutti gli strati di una cipolla: alla fine non rimane alcuna proprietà percepibile. Si può allora essere indotti ad abbracciare la tesi che un tavolo è semplicemente una collezione di proprietà percepibili, una collezione di dati visivi, tattili eccetera, chiamati fenomeni (dal greco phàinesthai: apparire, manifestarsi). Possiamo conoscere solo fenomeni? Diversi filosofi sono di questa opinione e la loro tesi viene chiamata fenomenismo; occorre, però, distinguere tra un fenomenismo di tipo meramente epistemologico e uno anche metafisico. Per il primo, sostenuto ad esempio da Kant, esiste la realtà esterna a noi, benché di essa possiamo conoscere solo i fenomeni; per il secondo, sostenuto ad esempio da Berkeley, non disponiamo della possibilità di affermare l’esistenza di una realtà a noi esterna, se non appellandoci a Dio: senza questo appello, il soggetto cognitivo percepisce fenomeni, che sono non solo le uniche cose conoscibili, ma anche le uniche cose esistenti. Una delle concezioni fenomenistiche più accreditate e sviluppate si deve originariamente a John Stuart Mill, secondo il quale gli oggetti fisici rappresentano possibilità permanenti della percezione. In questo modo, affermare ad esempio che il tavolo è nella stanza, quando non vi è nessuno a percepirlo, significa affermare il sussistere di una possibilità durevole della percezione che si manifesterebbe se qualcuno percepisse il tavolo.
Nella vita quotidiana il nostro senso comune si oppone a conclusioni di tipo fenomenistico. Non ci accontentiamo che sussistano possibilità permanenti della percezione, ma esigiamo che esse si fondino sul mondo fisico. Crediamo di conoscere (direttamente o indirettamente) le cose così come sono nella realtà, e non i loro fenomeni né, meno che mai, le loro parvenze illusorie. Certo vi sono le illusioni (percezioni alterate delle cose da parte dei sensi) come il bastone che nell’acqua ci appare spezzato, quando in realtà non lo è, o l’asfalto che nella calura ci appare bagnato, quando in realtà è asciutto. E vi sono le allucinazioni (percezioni di cose che non esistono nel campo sensoriale) come la percezione dell’acqua nel deserto, o la percezione di topi rosa, frequenti quando siamo negli stati di delirium tremens. Tuttavia, chiamiamo questi fenomeni appunto “illusioni” e “allucinazioni” e, così facendo, implichiamo che esista qualcosa di non illusorio e di non allucinatorio.
Le illusioni e le allucinazioni rappresentano errori percettivi. Nella vita quotidiana distinguiamo la percezione corretta da quella scorretta invocando spesso un’ulteriore esperienza sensoriale. Vediamo il bastone spezzato nell’acqua. Poi lo tocchiamo e realizziamo che non è spezzato. In tal modo ci convinciamo, tra l’altro, di superare le apparenze e di afferrare la realtà, e siamo confortati in questo dal modo in cui ci esprimiamo nel linguaggio comune. Facciamo un esempio: se in una giornata dal cielo terso indossiamo occhiali con lenti rosse, non diciamo che il cielo è rosso, anche se lo percepiamo come tale, ma diciamo che il cielo è azzurro, anche se ci appare rosso. In altre parole, siamo coscienti del fatto che la condizione “occhiali rossi” non è quella ottimale ai fini percettivi. Lo stesso si può dire di altre condizioni. Si pensi alla condizione “notte”: anche se di notte le cose ci appaiono nere, non diciamo che sono nere, perché assumiamo che queste abbiano il colore “giusto” solo nella condizione di luce diurna, condizione ottimale in quanto ci consente di discriminare i vari colori nel miglior modo possibile.
Nonostante le illusioni e le allucinazioni, il nostro senso comune è convinto che la percezione sia una buona fonte conoscitiva, in grado di garantirci non solo la consapevolezza che il mondo fisico esiste, ma anche un accesso piuttosto affidabile a esso. È anche convinto che questo mondo sia popolato di oggetti fisici e di loro proprietà che esistono indipendentemente dal nostro accesso epistemico (conoscitivo), ovvero dalle nostre percezioni. Quest’ultima convinzione è stata elaborata da una nota tesi epistemologico-metafisica, il realismo. È però necessaria una precisazione. Tutti i filosofi che sposano il realismo concordano sul fatto che l’esistenza degli oggetti fisici sia indipendente dalla nostra esistenza e dalle nostre percezioni, ma non tutti sostengono lo stesso a proposito delle proprietà. Qui si assiste a una spaccatura tra la forma ingenua di realismo e quella scientifica. Per la prima, nella sua versione più estrema, gli oggetti fisici hanno nella realtà forme e dimensioni, gusti e odori, colori, anche quando non vengono percepiti: sono, ad esempio caldi o freddi, colorati, e così via; in altre parole, essi conservano tutte quelle proprietà che percepiamo. Per la seconda, gli oggetti non conservano tutte quelle proprietà che percepiamo, dato che l’esistenza di alcune di queste è vincolata al fatto di essere percepite.
Tra gli altri, a distinguere con chiarezza e capacità argomentativa queste due tesi è stato Locke. Nel Saggio sull’intelletto umano (1690), egli sostiene che vi sono qualità primarie e qualità secondarie. Le prime – quali la solidità, l’estensione, la figura, la mobilità, il numero – risultano del tutto inseparabili dagli oggetti, sono da questi conservate costantemente e i nostri sensi le percepiscono sempre. Le seconde – quali i colori, i suoni, i gusti eccetera – sono solo poteri che gli oggetti hanno di produrre in noi diverse sensazioni per mezzo delle loro qualità primarie, benché negli oggetti stessi non vi sia nulla di simile a queste sensazioni. Le qualità primarie esistono realmente negli oggetti e sono quindi qualità reali, mentre le qualità secondarie sono qualità apparenti: «la luce, il calore, la bianchezza o la freddezza non sono in essi con maggiore realtà di quanto la malattia o il dolore siano nella manna» (II, viii, 17). Limitiamoci ai colori e consideriamo i colori rosso e bianco nel porfido: secondo Locke, se neutralizziamo l’effetto della luce sul porfido, i colori di quest’ultimo scompaiono ed esso non ha più il potere di produrre in noi la percezione del rosso e del bianco; se la luce torna, esso è nuovamente in grado di produrre in noi queste apparenze. Non possiamo, quindi, pensare che la presenza o l’assenza della luce sia in grado di apportare reali alterazioni nel porfido e che le nostre percezioni di bianchezza e di rossezza siano realmente nel porfido. Riassumendo, per Locke c’è un accordo o una corrispondenza tra apparenza e realtà per quanto riguarda le qualità primarie (per esempio, qualcosa che ci appare rettangolare è rettangolare), corrispondenza che non sussiste per quanto riguarda le qualità secondarie (per esempio, se una rosa ci appare gialla, essa non è gialla in sé, ma solo “relazionalmente” gialla: il suo giallo esiste solo in relazione a noi che lo percepiamo).
Quali ragioni possiamo far valere, oltre quelle lockeane, a favore della distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie, e a favore del privilegio che si accorda alle prime, anche sulla scorta del realismo scientifico? Una ragione è la parsimonia nelle questioni metafisiche, che spinge a invocare il rasoio di Ockham: si tratta di un principio generale, di un assunto metodologico, secondo cui è bene evitare di postulare l’esistenza di entità superflue. Vi sono argomenti filosofici che si appellano alla fisica moderna per sostenere che le qualità secondarie, a differenza delle primarie, non esistono realmente e, pertanto, sono entità inutili. Le principali ragioni addotte sono sostanzialmente due. In primo luogo, dobbiamo ricorrere alle qualità primarie degli oggetti microscopici al fine di spiegare le qualità primarie degli oggetti macroscopici, ma questo non vale nel caso delle qualità secondarie. In secondo luogo, mentre, per spiegare un evento percettivo del tipo “un oggetto ci appare tondo”, dobbiamo appellarci a una connessione causale con quell’oggetto e la sua forma, per spiegare un evento percettivo del tipo “un oggetto ci appare rosso” non occorre affatto ricorrere a una connessione causale con quell’oggetto e il suo colore, poiché quest’ultimo altro non è che un modo con cui percepiamo le diverse radiazioni luminose.
Le ragioni a favore della distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie e, pertanto, a favore del realismo scientifico, risultano piuttosto persuasive e minano la nostra fiducia intuitiva nel realismo ingenuo. Occorre, però, considerare due fattori: da un lato, anche il realismo scientifico non è esente da problemi; dall’altro, il realismo ingenuo ha un indubbio fascino. Se infatti il realismo scientifico contesta l’esistenza di alcune entità ammesse dal realismo ingenuo, le sue tesi non possono essere accettate senza considerare che esso viene aspramente criticato, a sua volta, dall’antirealismo scientifico. Quest’ultimo mette in serio dubbio il fatto che le entità di cui tratta la scienza esistano effettivamente: si pensi, ad esempio, alle cosiddette entità teoriche o entità non osservabili, quali gli elettroni o i protoni, sulla cui esistenza insiste il realismo scientifico. E l’antirealismo scientifico si può spingere più in là, sostenendo, a differenza del realismo, che le teorie scientifiche non descrivono in qualche modo la realtà, ma rappresentano solo convenzioni, o mezzi utili per spiegare quelle entità di cui parla la scienza. Ci si può allora chiedere perché accogliere le tesi del realismo scientifico, quando esse risultano discutibili. Il realismo ingenuo, d’altro canto, è una posizione attraente per il vivere quotidiano. Noi sperimentiamo infatti le qualità primarie e le qualità secondarie come inscindibilmente congiunte le une alle altre, il che ci conduce ad attribuire loro il medesimo status ontologico. Anzi, la concezione scientifica ci risulta quasi inintelligibile, dal momento che ci è davvero arduo immaginare, o forse anche concepire, un mondo “popolato” solo da qualità primarie: non possiamo vedere gli oggetti di tale mondo e riuscire a discriminarli, senza percepirli (ad esempio) come colorati. Certo, Locke ci sollecita a non vedere né luce, né colori, a non percepire suoni, né sapori, né odori, perché in tal modo vedremmo scomparire le qualità secondarie. Accogliere questo suggerimento è possibile, però, solo a patto di reprimere del tutto i nostri sensi, il che comporterebbe la nostra impossibilità di percepire non solo le qualità secondarie ma anche le qualità primarie e, pertanto, la nostra impossibilità di accedere al mondo fisico al fine di conoscerlo.
D’altra parte, è vero che la scienza corregge sistematicamente gli errori del senso comune. Così, per fare un banale esempio, è la scienza a insegnarci che, contrariamente alle prime apparenze, il Sole non ruota ogni giorno intorno alla Terra. Ma, per quanto si debba prendere atto degli errori del senso comune, occorre riconoscere che sarebbe altrettanto errato rinunciare tout court a esso, senza tenere presente che non possiamo affidarci ciecamente alla scienza. Non è stata forse la stessa scienza a commettere errori credendo nel flogisto, nel calorico, nell’etere? Esistono, senza dubbio, teorie scientifiche che si sono rivelate false e da questa constatazione si può procedere nella direzione della seguente metainduzione:
La teoria scientifica1 si è rivelata falsa.
La teoria scientifica2 si è rivelata falsa.
La teoria scientifica3 si è rivelata falsa.
...
...
La teoria scientifican si è rivelata falsa.
––––––––––––––––––––––––––––––––––
Tutte le teorie scientifiche si rivelano false.
Il dibattito epistemologico tra realisti ingenui e realisti scientifici è aperto. Gli uni e gli altri, comunque, condividono la convinzione del senso comune che la percezione – se si fa eccezione per le entità non osservabili – ci garantisce l’accesso epistemico al mondo fisico e che questo mondo fisico esiste indipendentemente dalle nostre percezioni. Tale convinzione può essere alla base dei nostri intenti conoscitivi, come diventa chiaro considerando una qualsiasi proposizione p riguardante il mondo fisico. Supponiamo che p sia “la tazza è sul tavolo” e che io affermi di sapere che p. So che p? Al fine di rispondere affermativamente, una delle condizioni che deve essere soddisfatta è che p sia vera: nella realtà, o di fatto, deve essere vero che la tazza è sul tavolo. Il contenuto proposizionale p che ho in mente deve riferirsi a uno stato oggettivo del mondo esterno, stato che deve essere indipendente dal mio stato soggettivo. Non può solo trattarsi di uno stato della mia mente, di una rappresentazione senza alcun riscontro al di fuori della mente; altrimenti, tutto quanto sogniamo o immaginiamo potrebbe assurgere allo status di conoscenza, il che è indesiderabile non solo sotto il profilo epistemico, ma anche sotto il profilo linguistico e pratico. Si consideri la seguente conversazione. Voi state cercando una tazza e mi domandate: “Dov’è la tazza?”. Io: “La tazza è sul tavolo”. Voi: “Ma non c’è nessuna tazza sul tavolo!”. Io: “Ah sì, l’ho solo sognato”. Come reagireste? Con sbigottimento, perché la mia asserzione “la tazza è sul tavolo” presuppone che io sappia che la tazza è sul tavolo e che, quindi, sia reale, sia vero che la tazza è sul tavolo.
Il realismo costituisce una via per comprendere cosa si intende con “conoscenza” e, tuttavia, in quest’ultima rimane sempre qualcosa di problematico che viene catturato dalla sfida scettica. Ci sono forme parziali di scetticismo che mettono in dubbio solo la nostra conoscenza r...

Indice dei contenuti

  1. Ringraziamenti
  2. 1. L’idea di conoscenza
  3. 2. I problemi della teoria della conoscenza
  4. 3. Sviluppi recenti
  5. Epilogo
  6. Cos’altro leggere
  7. Bibliografia
  8. L’autrice