A capo scoperto
Non c’è un unico sistema educativo che sia del tutto efficace, quello con la bacchetta magica, altrimenti basterebbe semplicemente adottarlo; le indagini quantitative e comparative tra sistemi di Stati differenti, del tipo Ocse-Pisa, hanno piuttosto mostrato che esistono diverse soluzioni, ciascuna con proprie motivazioni culturali o storiche, le quali perseguono in modo più o meno coerente dei chiari obiettivi prefissati. Nessun modello è giusto di per sé; o meglio, non ha senso imporre un modello globalizzato di istruzione.
L’obiettivo che ha ritualizzato il titolo di studio popolare nel nostro sistema scolastico è il successo formativo degli alunni, inteso essenzialmente come la maggiore percentuale possibile di promossi per raggiungere tre scopi: far ottenere all’istituto scolastico il maggior numero di finanziamenti pubblici, contenere quanto più possibile il numero degli abbandoni e far muovere il meno possibile i professori poco inclini al cambiamento, specialmente quelli più anziani, che nei microcosmi delle singole scuole fanno tendenza e vanno accontentati. Un sistema scolastico simile serve a pochissimo in termini di mobilità sociale e di aumento di posti di lavoro, perché consolida posizioni che non hanno bisogno della scuola per emergere, e difende piuttosto bene le rendite acquisite.
Non si pensi tuttavia che l’innalzamento della qualità della formazione debba necessariamente implicare il ritorno ad un sistema rudemente selettivo, anche perché questa scelta non avrebbe un impatto differente dall’attuale, ed ingrosserebbe solo le file dei diplomifici, quegli istituti pubblici o privati che hanno dichiaratamente come unico scopo il passaggio formale all’anno successivo – nel caso del sistema privato, dietro lauto compenso. Un sistema rudemente selettivo, in parte auspicato dai professori sentinella, andrebbe semplicemente a radicalizzare la «variabilità» e ad ampliare la forbice tra scuole e classi di serie A e di serie B, amplificando il classismo del sistema di istruzione, perché gli ambienti di serie B svolgerebbero il vecchio ed aborrito ruolo delle classi differenziali – e di un sistema formativo simile non sentiamo certo la mancanza.
Il miglioramento della qualità deve puntare, invece, a costruire un ambiente di apprendimento che innalzi l’equità a favore dell’utenza, facendo leva su chi dal sistema formativo ha bisogno di trarre strumenti di emancipazione: su chi ha fame di emergere. Smetterla di nascondere la polvere sotto al tappeto, quindi, riconoscere con oggettività gli alunni più deboli e quelli più forti, e poi agire rinforzando gli uni e coltivando gli altri. Non sto dicendo che sia un lavoro per tutti, ma credo che molti professori siano in grado di impegnarsi in questa direzione, ovviamente rivoluzionando l’uso del tempo scuola, che va dilatato, rovesciato, forse specializzato per compiti precisi.
Certo, non dobbiamo immaginare di essere alla ricerca di un modo più facile di stare in classe o di stare a scuola: abbiamo già sottolineato come esista un patto del silenzio tra tutte le componenti in gioco – studenti, professori, genitori e preside – per mantenere un profilo low quality nei casi critici; a ciò va aggiunto che nella scuola non mancano roccaforti conservatrici. Molti ragazzi sono i primi a restare abbarbicati alle loro abitudini, non particolarmente amanti di qualsiasi effetto sorpresa né di valutazioni oggettive, e molti professori non sono da meno. Si trovano a barattare lo stipendio più basso d’Europa, nel loro comparto, con un contratto a tempo indeterminato, garantista (cioè che prevede il licenziamento solo in casi estremi) e ad ampia libertà di movimento, poiché, oltre alle 18 ore settimanali di lezione e alle 80 annuali per riunioni ed attività istituzionali, bisogna adempiere compiti da svolgere senza vincoli fissi. Una classe docente per il 79% in rosa e in media quarantanovenne non è un caso, ma una tendenza molto consolidata nella storia dell’istruzione italiana, che sfrutta il tempo da gestire in autonomia che la scuola permette di avere per assolvere impegni familiari, per dedicarsi ad assistenza, cura dei figli, passioni, oltre che, per alcuni, a libera professione, ricerca e libera docenza. Insomma, un mondo che ogni studente e ogni singolo professore si è costruito nelle pieghe di questo sistema di istruzione e a cui certo non intende rinunciare facilmente.
Dentro le mura
Il primo passo da compiere per restituire qualità al titolo di studio è concepire l’insegnamento a partire da un chiaro «libretto delle istruzioni», vale a dire da una programmazione e un sistema di valutazione trasparenti e condivisi. Il professore deve sapere bene e subito cosa vuole fare, dove vuole arrivare e come intende consolidare il bagaglio dei ragazzi, tra l’altro verificando il loro percorso.
L’apprendimento, inoltre, necessita di tempo e, se non vogliamo accettare di manomettere il sistema dei voti così da nascondere le insufficienze, dobbiamo prevedere un efficace modulo di sostegno ai profili in difficoltà, che rilevi i punti critici e fornisca loro alcune chiavi per affrontarli. Sarebbe bene astenersi, in questi casi, da ogni lettura psicologica quando non si abbiano le dovute competenze: un professore non deve giustificare le difficoltà di apprendimento di uno studente richiamando la sua situazione personale – sono troppe le variabili da controllare – ma deve offrire al profilo debole una via di emancipazione entro il contesto scuola, proprio al di là del suo eventuale disagio. Abbiamo già detto che un sistema di recupero oggi esiste, ma spesso si rivela pura forma: il sostegno alle insufficienze viene svolto nel secondo periodo dell’anno scolastico, caricando ancora di più le spalle già provate dei più deboli, che devono comunque affrontare il calendario di prove normali, organizzate attraverso le famigerate interrogazioni programmate.
Il punto è che le modalità del sostegno fornito dal professore che ha decretato l’insufficienza sono piuttosto discutibili: alcune scuole istituiscono dei corsi pomeridiani, condotti però da docenti che spesso non dispongono di una programmazione comune tra classi e quindi agiscono un po’ al buio, senza avere quelle conoscenze e competenze condivise e indispensabili per stabilire che l’insufficienza sia colmata; in altri casi è il professore stesso che organizza momenti di recupero durante lo svolgimento dell’anno scolastico. E qui si apre la variabilità del sistema italico.
Alcuni professori mettono in campo pratiche di recupero molto interessanti. Ad esempio, lavorano in tandem con un’altra classe, di pari livello, ovviamente con un accordo preventivo rispetto al programma da svolgere, secondo il metodo definito delle «classi parallele». Oppure suddividono i ragazzi in due gruppi, uno di potenziamento (i più forti) e uno di recupero (i più deboli), e nelle stesse ore il primo gruppo va avanti con i nuovi temi, mentre l’altro si concentra sulle conoscenze e competenze non assimilate, entro il sistema chiamato «pausa didattica»; alla fine della «pausa» i ragazzi più forti svolgeranno un lavoro di tutoring per permettere a chi ha recuperato di apprendere più velocemente i nuovi argomenti. Altri professori, invece, formano gruppi di studio, durante l’orario scolastico oppure nel pomeriggio, mescolando alunni forti e deboli, in modo da far scattare fra di loro una sorta di «baratto dei saperi», sotto la propria guida (su questa tecnica torneremo tra poco). Alcune scuole, infine, riducono le ore canoniche da 60 a 50 minuti per «ricavare» uno spazio, a fine mattina oppure a inizio pomeriggio, da dedicare espressamente e con continuità all’azione di recupero o di approfondimento, durante tutto l’anno.
Molto spesso, però, tutto questo non accade e la fase del recupero coincide con procedure organizzate con un margine di opacità, dai contorni indistinti, anche perché – va detto – non è semplice gestire gruppi di studio differenti nella stessa classe. In molti casi la realtà diventa a senso unico: i ragazzi che devono recuperare frequentano il pomeriggio le lezioni private, a pagamento – chiaramente solo coloro che se lo possono permettere. L’Unione consumatori ha pubblicato nell’agosto 2015 i risultati di un’indagine da cui risulta che le lezioni private, o «ripetizioni», costano come minimo 625 euro a materia, per un ciclo di recupero standard; la cifra può salire anche fino a 925 euro per chi è andato male in greco, la materia che risulta la più costosa da recuperare. Su questo mi voglio soffermare, perché mi sembra un altro tassello classista su cui va fatta chiarezza.
Le ripetizioni pomeridiane muovono un fatturato complessivo di rilievo, visto anche l’aumento del 65% delle tariffe dal 2001 ad oggi, ma che continua a rimanere ignoto al fisco nella misura del 95%. In realtà, il prezzo è molto variabile, in base non solo alla materia (con appunto il greco in pole position), ma anche a chi tiene le lezioni (in ordine di prezzo: docente, laureato, studente) e a chi le riceve (universitario, superiori, medie). Il record, ovviamente, spetta ai docenti universitari o di eguale livello (pensiamo al caso della musica o della danza), mentre il prezzo più abbordabile è quello di uno studente di liceo che dà ripetizioni a un ragazzo di scuola media.
Perché 625? Il costo orario di base è pari a 25 euro e 25 sono di solito le ore di lezioni private minime necessarie per recuperare le lacune di uno studente, cioè circa tre ore a settimana per due mesi (25x25=625). In realtà si può arrivare, per chi è particolarmente indietro, anche a 40 ore complessive e, dato che per i periodi più lunghi gli incontri scendono a due settimanali per cinque mesi, si tratta di un esborso che diventa pari a 200 euro mensili a materia: 1.000 euro in tutto.
Da questa radiografia si riconosce chiaramente che esiste un mercato del sostegno alle insufficienze, che tale mercato è gestito dagli stessi docenti per arrotondare il loro stipendio ma anche per rispondere a un bisogno degli studenti, e che tale pratica certo non può riguardare tutte le famiglie, ma appunto solo quelle che ne hanno la possibilità. Le ripetizioni private funzionano? Dato che sono piuttosto gettonate, la risposta è implicita, anche se, in verità, il tempo trascorso entro appartamenti che assomigliano a studi medici sembra abbastanza lontano da qualsiasi cosa intendiamo con la parola formazione. Imboccare Pinocchio con il cucchiaio d’acciaio per fargli affrontare l’interrogazione programmata è efficace nell’immediato, sebbene lo stiamo dotando di una protesi provvisoria acquistata per necessità, spesso inefficace a lungo termine perché l’apprendimento ha bisogno di socialità, di interazione, di mondo. Quali sono le alternative?
La citata indagine dell’Unione consumatori fornisce delle vie di uscita, in un crescendo di opportunità, a partire dal semplice buon senso fino a idee più strutturate e magari più ambiziose. In alcuni casi alla ragazza o al ragazzo può bastare fare i compiti insieme a compagni più bravi per migliorare, e dunque può essere una buona idea istituire forme di tutoraggio da parte dei ragazzi più portati (peer education, «insegnamento tra pari»), la mattina in classe o il pomeriggio a scuola, con forme di premialità per lo studente tutor al fine di valorizzarne l’impegno profuso.
La seconda strada è quella del tutoraggio tandem, sull’esempio di quanto fatto da molte università straniere perché gli studenti di differente lingua madre possano rinforzarsi a vicenda le capacità linguistiche. In questo caso, il tandem si crea tra ragazzi che sono forti in alcune materie, in cui possono fare da tutor, e deboli in altre, in cui hanno bisogno di un tutor: basta organizzare un baratto tra ambiti complementari, ovviamente sotto il monitoraggio del docente. L’esperienza in rete è stata lanciata come «baratto dei saperi» dal social network Teach4Learn, che ha inventato addirittura i teach coins, cioè le unità-ore da scambiare: questa esperienza si può organizzare come servizio scolastico, se possibile con un supporto web.
La terza strada è rappresentata dal rinforzo delle conoscenze all’inizio dell’anno scolastico, oppure in un determinato periodo stabilito, e consiste nel ripasso, molto mirato, di alcune competenze specifiche – un po’ come avviene nei primissimi mesi di molti corsi universitari, quando si seleziona la platea di studenti deboli tramite un test di ingresso e le si offre un supporto ad hoc.
Infine la quarta mossa, forse la più semplice ma ad oggi quella che sembra più lontana. Consiste nello spostamento del sistema delle ripetizioni da casa a scuola, nel pomeriggio o dopo il tempo lezione, nella formula simile al rapporto intra moenia applicato al personale medico: la proposta, presentata da alcuni sindacati (lo Snals in prima fila), prevede l’affitto di un luogo pubblico al professore di scuola per la sua attività privata, comunque entro uno schema didattico trasparente e con una retribuzione calmierata e sottoposta a tassazione.
Attenzione, però: il sistema del miniciclo di 15 ore di recupero già esistente si è dimostrato un’esperienza spesso fallimentare, per le molte ragioni già indicate: non esiste un programma di recupero definito e condiviso, le lacune dei ragazzi destinatari del corso sono a volte molto diverse, i gruppi sono numerosi e la ripetizione di una modalità passiva di apprendimento non sostiene il miglioramento. Dunque il recupero, per essere efficace, al di là della formula organizzativa, dovrà presupporre il riconoscimento di precise lacune da affrontare, e il sostegno dovrà essere diretto verso gruppi piccoli, omogenei, da far esercitare in modo concreto e attivo.
A questo punto, però, merita chiedersi se non esistano strategie ordinarie per cercare di rinforzare il capitale culturale durante l’anno, invece di ricorrere al recupero.
Il tempo rovesciato
Il tempo scuola, bisogna riconoscerlo, spesso è un tempo noioso, che ha l’effetto di disincentivare chi ha meno talento e deprimere anche chi sarebbe ben disposto. Le strategie che puntano sull’operatività dell’apprendimento possono rappresentare invece uno strumento per stimolare i ragazzi ad avere un atteggiamento proattivo e soprattutto cooperativo, e un paio di condizioni le favoriscono: l’uso dell’effetto specchio e l’aiuto dei sistemi web.
L’idea alla base dell’approccio operativo è che l’apprendimento di un gruppo avvenga attraverso diversi canali, tra i quali uno dei principali consiste nell’imitazione, intesa come capacità di evoluzione biologica, il che spiega perché le classi con meno alunni spesso funzionano meno in termini di efficacia. I ragazzi sono come spugne: imparano da tutti gli stimoli a loro disposizione e non solo da un’unica fonte privilegiata, cioè il docente, e inoltre apprendono con maggiore rapidità gli uni dagli altri tramite un effetto specchio. Un caso esemplare sono le interrogazioni interattive, ossia quelle in cui non si crea una frattura tra coloro che sono sottoposti a verifica e il resto della classe, perché il gruppo partecipa alla fase di verifica orale e anzi la usa come occasione di chiarimento e approfondimento; tutto il gruppo apprende dal dialogo di verifica condiviso, che avviene tra professore e studenti ma anche tra studenti uditori, che pongono questioni ai ragazzi in fase di valutazione.
L’effetto specchio si riverbera anche nelle dinamiche di classe: i gruppi che lavorano meglio so...