La macchina del cinema
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La macchina del cinema

  1. 196 pagine
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La macchina del cinema

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«Il cinema non è una finestra sul mondo, non è un'arte realistica, ma una macchina complessa che produce immagini, senso, emozioni e rapporti. È macchina e illusione, ma anche tecnica e immaginario.» Paolo Bertetto accompagna il lettore-spettatore in un percorso che restituisce tutta la ricchezza dello schermo, la sua forza e capacità di produrre figure e fantasmi insieme a concetti e idee sul mondo contemporaneo.

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Capitolo 1.
Lo spettatore/la spettatrice

Vado al cinema1. Entro nel locale. Compro il biglietto e do il mio contributo all’industria cinematografica. Penetro nella sala buia. Trovo il mio posto: centrale, se possibile, e non troppo lontano dallo schermo. Voglio immergermi nelle immagini. Voglio divertirmi, emozionarmi, seguire un racconto, conoscere un mondo. Voglio guardare. Voglio capire. Mi siedo. Sono disposto ad abbandonarmi alle immagini e al suono. Aspetto solo di essere affascinato dalle ombre in movimento sullo schermo. Mi abbandono al tempo che scorre. Mi abbandono all’illusione del cinema. Entro in una situazione particolare. Divento uno spettatore cinematografico. O una spettatrice (per comodità useremo il termine al maschile: ma dobbiamo sempre considerare che le differenti identità sessuali producono processi psichici diversi, come vedremo alla fine del capitolo).

Lo spettatore è un voyeur

Qual è la mia condizione di spettatore? Innanzitutto lo spettatore è un voyeur, cioè un uomo o una donna che quando va al cinema realizza con le immagini viste sullo schermo un rapporto simile a quello del voyeur. Posto in una condizione di sottomotricità e di sovrapercezione, seduto, immobile, inattivo, lo spettatore concentra tutta la sua attenzione sul vedere (Metz, 1980, p. 55). È soprattutto sguardo, uno sguardo che produce piacere. Il suo piacere è strettamente legato al vedere. Come il voyeur, lo spettatore non può toccare quello che vede, non può mescolarsi all’oggetto, né interagire con esso. Il piacere del voyeur implica l’assenza di contatto con quanto viene visto. Se si crea un contatto, il tipo di piacere cambia, e non è più legato a un rapporto di tipo voyeuristico.
Lo spettatore cinematografico – il voyeur – guarda un insieme di oggetti in movimento e prova piacere. Non può toccare quello che vede, e anche se lo toccasse non troverebbe niente. Solo il tessuto dello schermo. La sua condizione è caratterizzata da una doppia assenza. Non implica soltanto l’assenza del contatto con l’oggetto della visione. Implica anche l’assenza dell’oggetto, che non è, magari, nascosto oltre la siepe, ma è veramente assente.
Il cinema ha spesso giocato con questo tema mostrando nell’immagine sullo schermo la condizione di assenza dell’oggetto o addirittura la figurazione del voyeur in azione. In I carabinieri di Godard, il personaggio principale cerca vanamente dietro uno schermo elementare la donna nella vasca da bagno, che ha visto nell’immagine. La donna è assente, è un’ombra che non può essere raggiunta. Il personaggio/spettatore dovrà accettare la logica di un piacere voyeuristico, o rinunciare al cinema. In altri film il voyeurismo è intenzionalmente mostrato come una determinazione che allude da un lato al cinema e dall’altro all’eros: in Ombre ammonitrici di Robison il marito guarda da dietro una porta a vetri con una tenda e crede di vedere le mani degli invitati che toccano il corpo della moglie. In Psyco Norman Bates/Anthony Perkins guarda da un buco nel muro Marion Crane/Janet Leigh, la donna che si spoglia in camera e si prepara per fare la doccia, e conce­pisce un desiderio che verrà colpito e punito dal soggetto distruttivo inscritto nella sua psiche schizoide. In Bella di giorno, la maîtresse della casa di appuntamenti invita la neofita Séverine/Catherine Deneuve a guar­dare ancora da un buco nel muro la seduta sadomasochistica di un attempato cliente con una dominatrice. In Kies´lowski, Decalogo n. 6 (e nel film Non desiderare la donna d’altri), lungamente il giovane protagonista guarda con un’ossessività particolare la vita e la sessualità di una donna e non è in grado di effettuare un cambiamento del rapporto, passando dalla fase voyeuristica all’incontro concreto tra le persone e i corpi. In Improvvisamente un uomo nella notte di Winner – liberamente tratto da Henry James – sono due bambini a guardare una scena perversa e a formarsi un immaginario erotico del tutto particolare.
In questi ultimi film il voyeurismo è connesso esplicitamente all’osservazione dell’eros e sottolinea il proprio carattere di piacere perverso. Ma in La finestra sul cortile – film esemplare dedicato all’osservazione voyeuristica dei comportamenti dei vicini di casa da parte del protagonista Jeffries/James Stewart – il testo diventa apertamente oggettivazione della macchina cinema, nelle sue molteplici componenti, tecnico-linguistiche, enunciative e spettatoriali, e sottolinea la centralità strutturale del voyeurismo nell’esperienza dello spettatore.
Abbiamo rilevato la presenza nel cinema di scene di voyeurismo legate esplicitamente all’eros: sono scene, dunque, in cui il fenomeno psichico appare nella sua forma più tradizionale. Tuttavia, quello che lo spettatore vede al cinema è prevalentemente una serie di scene in cui gli attori/personaggi sono impiegati in vari tipi di comportamento, in cui non necessariamente l’eros è dominante.
Allora, perché lo spettatore prova egualmente piacere? Qual è la ragione del suo piacere?
Una prima risposta, piuttosto ovvia, ha a che fare con le possibilità del cinema di mostrare altri paesi e altri mondi, di produrre visioni spettacolari nuove, nonché di creare situazioni sempre diverse rispondendo alla curiosità e agli interessi degli spettatori. Tuttavia queste considerazioni restano in superficie. Sono osservazioni che non spiegano in profondità l’affermazione del cinema, né il meccanismo che regola lo speciale rapporto con lo spettatore. Non sono semplicemente la visione di immagini non conosciute e neppure lo sviluppo di un’esperienza percettiva di tipo nuovo a spiegare la complessità della condizione dello spettatore e il piacere che egli prova di fronte allo schermo.
La riflessione sui modi della percezione del film è stata affrontata dapprima – e come vedremo – da un’importante corrente di studi che si sviluppa soprattutto in Francia a partire dal secondo dopoguerra, la filmologia, e più tardi da altri studiosi che usano la psicoanalisi per interpretare l’attività psichica dello spettatore cinematografico.
Il piacere dello spettatore è innanzitutto – lo abbiamo detto – un piacere voyeuristico, ma insieme è un piacere legato a un doppio meccanismo: proiettivo e identificativo. Il meccanismo del vedere al cinema produce dunque allo stesso tempo l’identificazione e la proiezione.

L’identificazione

L’identificazione rafforza l’interesse e il piacere dello spettatore, lo radica nel mondo e nella storia narrata, è la chiave della sua partecipazione alle immagini che scorrono sullo schermo.
Ma come si realizza l’identificazione e con chi o con che cosa?
L’identificazione fonda la partecipazione emozionale dello spettatore, agendo in due direzioni: radica lo spettatore nell’immaginario filmico e il film nell’immaginario dello spettatore. L’identificazione più palese investe, naturalmente, i personaggi del film. Lo spettatore si proietta (si confronta, si confonde) nei protagonisti, vede se stesso duplicato in uno o più personaggi, partecipa alle loro vicissitudini, riconoscendo spesso in loro un’immagine di sé.
Il meccanismo che si attiva è un processo doppio: innanzitutto lo spettatore si proietta sui personaggi che vede ed effettua un riconoscimento di se stesso nei personaggi stessi a partire dai modi specifici di organizzazione del narrato. Il meccanismo di identificazione si forma tuttavia anche in relazione alle caratteristiche particolari degli spettatori: genere, cultura, razza, preferenze personali, temperamento, tutto incide sulle modalità dell’identificazione.
I prodotti dello spettacolo forense, gli spettacoli dei fratelli Lumière, le esibizioni delle tecniche di riproduzione dell’immagine, le lanterne magiche o i derivati dei cabinets optiques e dei cabinets des merveilles non hanno avuto neanche lontanamente il successo e la diffusione sociale del cinema, proprio perché si trattava di manifestazioni che attivavano processi di fruizione legati solo alla curiosità e al divertimento, e non all’identificazione e all’autoriconoscimento.
L’immagine sullo schermo invece si presenta come un’immagine allo specchio e rievoca l’esperienza di riconoscimento del sé e della costituzione del soggetto e dell’immaginario descritte e indagate dalla psicoanalisi, e in particolare da Jacques Lacan (Lacan, 1974). Secondo lo psicoanalista francese, il bambino comincia a costituire la propria soggettività riconoscendo allo specchio l’immagine di un altro (la madre, generalmente) accanto a quella che intuisce essere la propria. Questa esperienza è assolutamente rilevante nel processo di costituzione dell’io, e secondo un altro studioso francese (di cinema questa volta), Christian Metz, lo stesso meccanismo si ripropone nel cinema (Metz, 1980, p. 57). Sullo schermo, in altre parole, noi operiamo un riconoscimento di noi stessi attraverso l’immagine speculare di un altro.
Naturalmente i meccanismi di riconoscimento del sé da parte dello spettatore si presentano in una forma diversa rispetto alla fase dello specchio. Il bambino allo specchio vede se stesso. Lo spettatore invece non si vede sullo schermo e quindi instaura una relazione non con la propria immagine, ma con le immagini di altri, con cui tende a identificarsi. L’immagine sullo schermo attiva e coinvolge quindi i fantasmi dello spettatore in un meccanismo di riproduzioni e di rifrazioni possibili, di duplicazioni e di sostituzioni, creando un orizzonte in cui l’io e l’altro attivano una partita senza fine.
La straordinaria capacità di attrazione e di suggestione del cinema va quindi ricondotta in primo luogo ai meccanismi infinitamente variati e riprodotti dell’identificazione e dell’autoriconoscimento del soggetto spettatore, ed è legata innanzitutto a due caratteri rilevanti dei film: l’articolarsi in scene strutturate in un percorso narrativo e l’avere al centro del racconto personaggi umani in cui è possibile immedesimarsi.
L’intrecciarsi di proiezioni e opposizioni, l’emergere del carattere narcisistico e regressivo dell’identificazione permettono relazioni diverse con l’immaginario del film e varie modalità di autoriconoscimento. D’altronde l’economia del racconto propone spesso una tensione strutturale tra un soggetto desiderante e un oggetto del desiderio, variamente ricercato, raggiunto, perduto e ritrovato. La connessione radicale tra la configurazione delle dinamiche e delle frustrazioni del desiderio nel film e l’esperienza soggettiva dello spettatore è un passaggio fondamentale nel processo identificativo prodotto dalla narrazione filmica. La potenziale specularità delle avventure del desiderio o del conflitto tra desiderio e legge nella soggettività dello spettatore e nelle soggettività immaginarie del film spiega l’intensità emotiva del rapporto spettatore-cinema.
Naturalmente lo spettatore può identificarsi attraverso meccanismi diversificati, ma schematizzando si può dire che la sua identificazione possibile riflette in genere uno dei due possibili movimenti. Da un lato può riconoscersi nel personaggio, cioè può ritrovare nel personaggio tratti che considera legati alla propria personalità. Dall’altro, e all’opposto, può individuare nel personaggio tratti che non riconosce in sé, ma che in ogni modo lo attraggono, gli sembrano significativi o addirittura gli paiono legati al suo ideale dell’io.
L’immaginario del film infatti può attivare:
1) i modi dell’autoriconoscimento dello spettatore come sé: lo spettatore si riconosce e si identifica con un personaggio;
2) i modi dell’autoriconoscimento del sé come altro: lo spettatore è portato a partecipare alle avventure e ai desideri del personaggio con cui da un lato tende a identificarsi, ma dall’altro si riconosce diverso;
3) i modi del riconoscimento di altri: lo spettatore può riconoscere nei personaggi altri che tuttavia considera legati a lui; questi altri possono essere o altre persone dell’orizzonte della vita, o altri fantasmi che assillano la sua mente e con cui tuttavia il soggetto non intende e non può identificarsi.
Tra gli aspetti che descrivono l’esperienza dello spettatore, l’identificazione con i personaggi è dunque forse la componente che appare più evidente. Essa tuttavia si produce a partire da un altro meccanismo, un meccanismo per così dire di base. L’identificazione con i personaggi è infatti considerata come un’identificazione secondaria, laddove l’identificazione primaria è quella con l’immagine percepita e quindi con l’immagine proiettata. L’identificazione primaria si realizza quindi con l’obiettivo del proiettore che attiva l’occhio della macchina da presa, coordinato dal lavoro del montaggio.
Lo spettatore è innanzitutto sguardo, soggetto percettivo che si identifica con lo sguardo della macchina da presa, con l’immagine proiettata e percepibile. Lo spettatore guarda e prova un piacere che è legato al guardare. La sua – per usare un concetto psicoanalitico – è una pulsione scopica, cioè un desiderio di guardare.
Inoltre lo spettatore cinematografico attiva un meccanismo di formazione di un mondo immaginario sotto forma narrativa, che ripete la grande esperienza di formazione del mondo che caratterizza l’attività psichica del bambino. In fondo, al cinema, ogni volta si risperimenta il percorso mentale di costruzione del mondo. In questa prospettiva il cinema propone allo spettatore affetti vitali che riprendono in forme diverse ma non opposte gli affetti vitali che la psichiatria e la psicoanalisi considerano essenziali nella formazione del soggetto. E questi affetti sono emozioni vitali che non possono non accompagnare il processo di formazione del mondo nel bambino. È un altro percorso che sottolinea la straordinaria convergenza della percezione del cinema come mondo con la costruzione del mondo del soggetto in relazione a quanto viene percepito. Di fronte al mondo il bambino appare in fondo come uno spettatore. Ed è forse per questo che la percezione dello spettacolo filmico è capace di mettere in moto meccanismi così pro­fondi e duraturi.
Certo, lo spettatore vede e tra il suo sguardo e l’immagine proiettata si realizza un’unità, che tuttavia resta un’unità parziale, in quanto lo spettatore sa bene di non essere il motore della visione. Lo spettatore si identifica con la macchina della visione, ma non la guida, non la determina. Anzi, la subisce. Lo spettatore non controlla le immagini, ma, anzi, è condizionato da esse, quasi prodotto dalle immagini. Per questo, la condizione dello spettatore è passiva e può avere una componen­te masochistica, come hanno sottolineato alcune studiose della Feminist Film Theory, su cui torneremo in seguito.

Prima dell’interpretazione psicanalitica, la filmologia

Il ricorso alla psicoanalisi e ai suoi sviluppi ha dunque permesso di interpretare in profondità la macchina del cinema e il rapporto spettatoriale. Ma prima dell’applicazione della psicoanalisi al cinema, un’altra stagione significativa aveva sviluppato una ricerca importante sulla percezione del film e sulla psicologia dello spettatore: la filmologia. Questa linea di ricerca ha studiato, dal secondo dopoguerra, la percezione del film, avvalendosi da un lato di strumenti delle scienze umane (la psicologia, la sociologia, l’antropologia ecc.) e dall’altro di esperimenti di laboratorio, effettuati con grande precisione. In realtà la filmologia ha finito per verificare sperimentalmente quello che il grande cinema americano classico aveva già scoperto e codificato con una messa in scena di grande forza compositiva. Queste ricerche hanno in ogni modo permesso di individuare alcuni importanti caratteri della percezione cinematografica. Innanzitutto la percezione cinematografica non è unicamente un fatto fisiologico, ma è qualcosa che investe il sistema nervoso centrale. La vecchia idea della percezione del movimento come conseguenza della cosiddetta persistenza retinica delle immagini è stata ampiamente superata dalle ricerche della psicologia della Gestalt e dall’individua­zione del cosiddetto «effetto phi», che implica la presenza di una componente intell...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Capitolo 1. Lo spettatore/la spettatrice
  3. Capitolo 2. La tecnica e il linguaggio
  4. Capitolo 3. I modelli di messa in scena e il lavoro del set
  5. Capitolo 4. L’immagine filmica
  6. Capitolo 5. I fantasmi, l’immaginario, il racconto
  7. Capitolo 6. Il punto di vista e le forme dello sguardo
  8. Capitolo 7. Movimento, tempo, divenire
  9. Bibliografia