"Senza proprietà non c'è libertà" Falso!
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"Senza proprietà non c'è libertà" Falso!

  1. 112 pagine
  2. Italian
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"Senza proprietà non c'è libertà" Falso!

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La proprietà privata, celebrata come base della libertà della persona, fonda il nostro intero sistema giuridico, economico e culturale. Ma è un nodo ideologico: mettiamolo in discussione e ci porremo domande essenziali. Perché la libertà è concepita come accumulo senza limite? Perché l'ineguaglianza è pensata come una condizione naturale e non come un'ingiustizia sociale? Perché nella proprietàprivata non abbiamo riconosciuto un potere che sottrae a tutti natura e beni comuni? Sciogliere il legame fra proprietà e libertà obbliga ad avvicinare un vaso di Pandora di contraddizioni della modernità che troppi, anche i più insospettabili, non si sentono di scoperchiare.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858113998
Argomento
Economia

1. proprietà e libertà: il ritorno di un’ideologia

Si potrebbero sciorinare centinaia di citazioni dotte per suffragare l’esistenza del luogo comune che dà il titolo a questo scritto: icone del pensiero moderno come Hobbes, Locke, Kant e Hegel ci hanno lasciato passaggi – tanto memorabili quanto enfatici – che fondano la proprietà privata nella più intima libertà personale. E con loro, una moltitudine di giuristi, economisti, sociologi e filosofi. Altrettante se ne potrebbero elencare che hanno invece confutato il nesso proprietà/libertà, dato che icone di analoga grandezza – Rousseau e Marx in primis – ne hanno evidenziato il carattere irrimediabilmente ideologico. Perché allora scrivere questo libretto? Per due condizioni, verificatesi di recente. In primo luogo, la potente regressione culturale e antropologica, che dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso ha prodotto un vero ritorno all’Ottocento e di cui ho discusso in Contro riforme. In secondo luogo, l’impatto che questa regressione ha avuto sul comune sentire, in forza soprattutto del suo trasformarsi in diritto, ossia nello strumento primario attraverso il quale una società umana prende (o non prende) le proprie decisioni.
Voglio subito rassicurare il lettore che non intendo schierarmi in contrapposizioni schematiche e spesso artificiali come quella che da sempre contrappone un Platone protocomunista ad un Aristotele protoliberale, conscio come sono dei miei limiti culturali, ma anche dell’infondatezza di una lettura che arruola Platone in astratto come critico della proprietà privata quando egli proponeva la comunione dei beni solo per i governanti, proprio per evitarne la corruzione che inesorabilmente preclude la libertà di pensiero a chi abbia interessi e beni personali da difendere.
Né voglio far rivivere qui la polemica sulla proprietà e sulla ricchezza, da sempre parte della disputa politica fra gli abbienti e i non abbienti, di cui scrisse in modo così penetrante (e, forse, inconsciamente cinico) Madison nel Federalista, dove pure fra i critici radicali della proprietà privata si potrebbero mobilitare personaggi leggendari, da Pitagora a San Francesco.
In questo scritto, che non ha pretese scientifiche, voglio restare ancorato all’attuale fase del tardo capitalismo dove, per svolgere il mio tentativo di una rinnovata critica del nesso libertà/proprietà, ho il lusso di trovare materiali giuridici in ogni ambito culturale, visto che gli ultimi trent’anni hanno prodotto il medesimo impatto istituzionale in qualsiasi angolo del pianeta. Ciò che è variato è stata soltanto la forza che la resistenza è riuscita a mettere in campo.
Comincerò col condividere con il lettore qualche “prova”, ancorché aneddotica, dell’impatto del luogo comune che stiamo qui discutendo sullo studente di giurisprudenza, un tipo sociologico destinato ad avere un ruolo significativo nella nostra organizzazione sociale. Gli studenti di legge, infatti, sono gli avvocati e i giudici di domani e il loro pensiero professionale determinerà in gran parte l’interpretazione ufficiale del nostro diritto positivo, inclusa la miriade di leggi, regolamenti e sentenze che tracciano i confini pratici dei poteri e dei doveri dei privati proprietari.
Poiché da oltre vent’anni insegno il diritto e ogni anno tengo almeno un corso in Italia e uno negli Stati Uniti, mi trovo nella condizione privilegiata di poter cogliere le trasformazioni nel modo di pensare dei futuri interpreti delle norme. I miei studenti sono per me la cartina di tornasole e i testimoni oculari dei cambiamenti culturali nei due sistemi. Il progressivo avvicinarsi del modo di sentire di questi futuri giuristi, appartenenti a due ambiti così lontani culturalmente, è davvero impressionante. Sempre più la semiperiferia italiana converge verso il modello dominante.
I miei studenti sono vicini alla laurea e hanno già svolto la maggior parte del proprio percorso. Cerco di insegnare loro in modo critico, non dando nulla per acquisito, ed è quindi per me particolarmente interessante porre le domande di base, quelle che di solito non si affrontano nell’ambito dei percorsi professionalizzanti, dove ai discenti si inculcano linguaggi iniziatici e vengono insinuate precomprensioni forti. Gli studi giuridici mirano a costruire e naturalizzare una sensibilità professionale fortemente radicata nel positivismo metodologico, tale per cui l’avvocato e il giudice finiscono per considerare la diseguaglianza e l’ingiustizia sociale come una sorta di condizione naturale, di cui certo non possono essere loro a farsi carico. Sarebbe uno stravolgimento inaudito se in Corte, durante un processo civile, il giudice indagasse sulla situazione economica dei litiganti al fine di dar ragione al più povero rimediando così, almeno parzialmente, all’ingiustizia sociale. “La legge è uguale per tutti” e l’eguaglianza va intesa in senso strettamente formale. La dea giustizia è bendata e la legge deve essere “generale e astratta”.
Esistono delle ragioni per questo atteggiamento. In Italia, per esempio, abbiamo imparato a diffidare della legge ad personam, nozione resa negli Stati Uniti con la locuzione private statute, forma diffusa per conferire onorificenze o privilegi (etimologicamente: leggi private). Più in generale, il privilegio personale o quello diffuso in un determinato ceto prima o poi scatena rivoluzioni nella storia, come ci ricorda l’esenzione fiscale della nobiltà francese contestata dai giuristi ugonotti e da quelli del Terzo Stato già a partire dai cahiers de doléance nella seconda metà del XVI secolo. Poiché i giuristi sono riusciti ad imporsi come ceto professionale in virtù del loro ruolo nel mantenimento dell’ordine che è concetto giuridico e non certo soltanto politico, la loro proclamata (ma quasi sempre ipocrita) neutralità professionale rispetto alla distribuzione della ricchezza non può sorprendere.
Oggi, tuttavia, nella società dominata dalla fede nel mercato e dal dominio del capitale, è l’economista il vero sacerdote dell’organizzazione sociale. Affacciatosi sulla scena come esito della grande trasformazione capitalistica (tradizionalmente la scienza “classica” del capitalismo nasce con William Petty alla metà del XVII secolo e giunge a maturità con Adam Smith e David Ricardo a cavallo fra il XVIII e il XIX secolo), il cultore dell’economia politica smette ufficialmente di interrogarsi sulle radici della distribuzione delle risorse con la cosiddetta “rivoluzione marginalista”. A partire dal tardo Ottocento, infatti, egli sostituisce la teoria del valore fondata sul lavoro con quella fondata sull’utilità: in altre parole, smette di interrogarsi sull’origine profonda del valore delle cose e riduce quest’ultimo al prezzo delle cose. Da Marshall a Menger, da Walras a Pareto, da Barone a Pantaleoni in Italia, la scienza economica si libera della locuzione “politica” e diviene, come oggi, semplicemente “economia” (economics e non più political economy), rivendicando neutralità, oggettività e status scientifico in un legame strettissimo col positivismo metodologico. Si assume l’esistenza di un mondo dei fatti che può tradursi in modelli che gli economisti, indipendentemente dalle proprie preferenze politiche, descrivono professionalmente. Ogni divergenza politica si colloca sul piano, ontologicamente diverso, dei valori. Come molto tempo prima era avvenuto per i giuristi, anche per gli economisti la distribuzione attuale delle risorse è il solo dato di fatto passibile di analisi scientifica. La giustizia distributiva sta nel mondo del dover essere ossia in quello dei valori, su cui ci si può dividere politicamente, ma sul quale non è lecito dire nulla di scientifico.
L’economista neoclassico, ultradominante oggi, marginalizza Marx, Sraffa e perfino Keynes, naturalizzando lo status quo e insegnando che occorre occuparsi di allocazione (efficiente) e non di distribuzione (giusta) di risorse scarse. Allo stesso modo, il suo collega positivista della facoltà di giurisprudenza insiste sul fatto che una proposizione giuridica può essere analizzata scientificamente soltanto de iure condito (ossia sul piano della legalità costituita) e non de iure condendum (ossia su quello della legalità immaginata e in fieri), essendo semmai quest’ultimo il luogo del dibattito politico sulla giustizia distributiva.
In questo scenario culturale dominante, chi si proponga di insegnare il diritto in modo critico deve porre il genere di domande che spingano lo studente a dire: “Il re è nudo!”, a percepire, cioè, la dimensione ideologica del paradigma scientifico in cui ci troviamo. La cosa è tanto più difficile, quanto più la cultura professionale dominante (che, ovviamente, è una forma di costruzione ideo­logica) è forte ed è meno vivo il senso critico nell’uditorio.
A tal fine, una buona domanda per stimolare gli aspiranti giuristi è: “perché esiste la proprietà privata?”, o anche: “a che cosa serve la proprietà privata?”. Il progressivo aumento di argomenti fondati sul binomio libertà/proprietà, da sempre pressoché monopolistici nelle aule di una facoltà giuridica statunitense, rispetto a quelli incentrati sul binomio proprietà/potere, un tempo forti in Italia (probabilmente grazie al lavoro di tanti professori liceali di filosofia, ultimi eroi della battaglia per salvare il pensiero critico dalla definitiva estinzione), è stato negli anni davvero impressionante, rendendo la discussione sull’ideologia proprietaria sempre più difficile. Si riscontrano affermazioni, vieppiù diffuse, come: “la proprietà privata esiste per garantire le condizioni minime per la libertà di ciascuno” e “la proprietà privata serve a garantire un ordine sociale in cui ciascuno può esser libero di autodeterminarsi”. Giustificazioni ritenute più che sufficienti per seguitare a immagazzinare e memorizzare regole e princìpi del diritto positivo che operano, in qualunque sistema giuridico fondato sulla libertà di accumulo, proprio come le ferree leggi di Ricardo, ovvero sempre a favore del proprietario e della rendita. Sebbene, infatti, le Corti di Giustizia – come abbiamo visto – si considerino bendate e neutrali rispetto alla distribuzione della ricchezza, il ricco vince perché può permettersi di pagare uno stuolo di avvocati, mentre il povero, impotente e senza mezzi, disilluso, molto spesso neppure litiga. Il risultato è che la forbice sociale si amplia fino al punto di diventare insostenibile, che è il punto che oggi abbiamo raggiunto.
D’altra parte, l’accettazione e la rimozione delle questioni distributive di fondo possono ben comprendersi e sempre più spesso, purtroppo, hanno radici concrete. Gli studenti di una Law School, ad esempio, che escono gravati da un debito “d’onore” medio di circa 180.000 dollari, non possono certo permettersi atteggiamenti eccessivamente radicali, che potrebbero rendere difficile l’accesso a un mercato del lavoro dominato da grandi studi al servizio dell’interesse di quei proprietari (oggi per lo più finanziari), che meglio hanno saputo sfruttare sul mercato la propria libertà. Alla fine del dibattito, sempre più spesso l’inconsapevolezza cede il posto al cinismo, che il giovane discente ormai sa abilmente trasformare in “realismo”, delegittimando come “utopista” quel suo collega che nel corso della discussione ha p...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. proprietà e libertà: il ritorno di un’ideologia
  3. 2. alle origini della proprietà privante
  4. 3. la proprietà privante e l’incubo della piccola proprietà
  5. 4. per una “proprietà generativa”
  6. Bibliografia essenziale