Storia del costituzionalismo italiano nell'età dei Lumi
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Storia del costituzionalismo italiano nell'età dei Lumi

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Storia del costituzionalismo italiano nell'età dei Lumi

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Non esiste una storia del costituzionalismo italiano nell'età moderna. Eppure è stato il Settecento a rappresentare il laboratorio politico nel quale si verificarono le condizioni per superare l'Antico Regime. Fu allora che si gettarono le premesse per la nascita di una cultura del buon governo basata su un rapporto nuovo tra la politica e il diritto e si giunse a creare uno spazio pubblico ispirato a principi di responsabilità e partecipazione alle decisioni politiche.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115510
Argomento
Droit

III. «Fissare la costituzione»: metamorfosi del linguaggio politico

All’inizio degli anni trenta del Settecento, benché vicina geograficamente al continente, la Corsica ne era ancora lontana culturalmente e politicamente: quasi ignota all’opinione pubblica, almeno quanto la California o il Giappone, come notava il primo narratore delle sue vicende nella Historie van Corsica1. In effetti non aveva torto: citata solo raramente dai classici greci e latini, nota ai più come luogo malsano, pietroso e desolato, aveva conosciuto la lunga stagione del dominio genovese, che dal Quattrocento aveva lentamente cancellato le sue tradizioni politiche e di libertà, lasciando nostalgie per un’aristocrazia perduta e una nobiltà fortemente indebolita nel suo prestigio.
Nel 1729 qualcosa tuttavia era cambiato e i suoi abitanti si erano ribellati al dominio della repubblica; da quel momento, come scriveva l’anonimo redattore del «Journal historique de la république des lettres», l’isola era diventata «le sujet de toutes les conversations»2. Ne erano seguiti eventi clamorosi e provocatori: la nomina di due «generali» della nazione, la convocazione di un congresso formato da venti teologi e giuristi (dieci appartenenti al clero secolare e dieci a quello regolare) e la presentazione di una serie di richieste al governo di Genova. La risposta non doveva essere meno traumatica: nell’aprile 1731 la repubblica chiese un soccorso esterno attraverso l’intervento asburgico, determinando così l’inizio di una lunga resistenza, armata e civile, che nemmeno il successivo ritiro sarebbe riuscito a placare.
Un’altra vicenda aveva poi attirato l’attenzione del pubblico europeo: nella primavera del 1736 un avventuriero originario della Westfalia, Theodor (Teodoro) von Neuhoff, sbarcato su una spiaggia dell’isola con armi, denaro e molte promesse, era riuscito a farsi proclamare re di Corsica3. Perché gli abitanti avevano accettato di sottomettersi a uno sconosciuto? Perché avevano deciso di affidare le loro speranze di libertà a uno che voleva governare da re? Forse per dimostrare a Genova di voler preferire la dedizione ad uno straniero piuttosto che la soggezione ad un’aristocrazia feudale?4 Ancora una volta, nel giro di pochissimi mesi, le notizie dall’isola divennero l’argomento principe di tutte le gazzette europee, amplificate dalla stampa olandese e da quella britannica, fino a trasformare i corsi in simbolo di un popolo oppresso dalla tirannia e il re Teodoro – frattanto costretto alla fuga e all’esilio nelle Province Unite – in paladino di una libertà perduta5.

Un nuovo lessico: dalla rivolta al diritto di resistenza

Gli anni quaranta e cinquanta del Settecento offrono una serie di esempi di come le trasformazioni del lessico politico si snodino lungo un percorso rappresentato da testi, gazzette, descrizioni di viaggi ed altre opere letterarie che prefigurano la creazione di un linguaggio costituzionale moderno6. Non si trattò di mutamenti confinati entro lo spazio intellettuale degli scrittori ma della nascita di un vero e proprio laboratorio politico, grazie al quale molti avrebbero sperimentato la possibilità di realizzare nuove pratiche costituzionali. Il caso della rivoluzione corsa mostra assai bene come potessero nascere due grandi miti politici destinati a circolare nell’Europa e nell’America del secondo Settecento, entrambi tributari per larga parte della tradizione classica: quello del diritto di un popolo a sollevarsi per rivendicare la libertà e quello dell’eroe moderno, condottiero e legislatore di una nazione in lotta contro i tiranni. Ogni amico della libertà («Friend of Liberty») non poteva quindi che parteggiare per i corsi, scriveva nel 1739 l’anonimo autore di A general account and description of Corsica7, nonostante che i sostenitori dell’antico ordine cercassero ancora di ricondurre le intemperanze dei nativi alla loro natura barbara e indocile, tipica di un’isola selvaggia e feroce8. Echi di queste vicende si ritrovano in gran parte della letteratura coeva, sino all’Esprit des lois il cui decimo libro, dedicato alle Lois dans le rapport qu’elles ont avec la force offensive, conteneva nella redazione originaria una vibrante condanna dei genovesi9, poi attenuata nella versione definitiva10.
Montesquieu e altri intellettuali europei avevano compreso esattamente quale era la posta in campo: i corsi, affermando il diritto a resistere contro un governo ingiusto e violatore di un antico patto politico, stavano traducendo in pratica quanto era stato teorizzato sin da san Tommaso, dalla tarda scolastica spagnola di Suárez e poi ancora dal giusnaturalismo olandese11. Mettevano in atto la resistenza contro un tiranno, ossia contro colui che governa privo di una legittimazione divina, prima ancora che senza un consenso sociale; questo appariva ora non più solo come un diritto dei singoli, ma del popolo nel suo insieme, anzi dell’intera nazione corsa12. Non a caso Pasquale Paoli avrebbe citato frequentemente l’esempio olandese, sia per ricordare l’esilio di re Teodoro nelle Province Unite, sia per richiamare la lotta contro gli spagnoli e il mito della libertà batava. Riprendeva così argomentazioni tacitiane per individuare nel patto stipulato tra popolo e governanti la fonte di un governo giusto e legittimo, revocabile in nome del diritto a resistere dinanzi all’oppressore13. I contemporanei erano sempre più consapevoli della differenza fra la tirannia d’usurpazione, sempre illegittima, e la tirannia d’esercizio, moralmente deprecabile ma politicamente accettabile in quanto poteva essere resa necessaria, come si affermava all’epoca, dalle particolari condizioni politiche e geografiche (o persino climatiche) di un paese. Non era questo il caso della Corsica, che nella lotta contro il tiranno si faceva forte di un insieme di norme le quali, come avrebbe scritto Paoli nel 1761, costituivano l’essenza della «tradizionale costituzione» violata dai genovesi: una costituzione fondata su un patto politico, perché «il governo di Corsica era convenzionato», nel senso che il potere legislativo veniva esercitato dai corsi mentre quello «dell’esecuzione» era stato anticamente attribuito ai genovesi, e solo affinché questi garantissero «vigore» alle «risoluzioni de’ rappresentanti corsi»14.

Nella Napoli di Genovesi: il «diritto al governo» e la «virtù repubblicana»

Le origini di questo lessico vanno ricercate più addietro nel tempo. Alla fine degli anni trenta, con l’allontanamento di re Teodoro, un piccolo gruppo di suoi collaboratori aveva scelto quale volontario esilio Napoli; tra di loro v’era Giacinto Paoli, uno dei primi generali della nazione corsa, eletto sin dal 1733 fra i «pari» del regno. Aveva scelto di vivere nella città partenopea entrando al servizio dei Borbone e aveva voluto avviare il giovane figlio Pasquale, futuro eroe della rivoluzione, alla sua stessa carriera militare, facendogli frequentare a partire dal 1743 la scuola di artiglieria e affiancando poi quell’insegnamento con l’educazione umanistica, impartita privatamente15. La presenza di esuli corsi a Napoli spiega anche il gran numero di stampati in favore dell’isola16 e l’interesse per quelle vicende da parte del gruppo animato da Bartolomeo Intieri17, Celestino e Ferdinando Galiani, Alessandro Rinuccini, Antonio Niccolini e Antonio Genovesi, che proprio allora era impegnato nelle discussioni sull’Esprit des lois, la cui versione italiana stava per essere pubblicata a cura di Giuseppe Maria Mecatti18.
Molto si è discusso intorno alla formazione di Pasquale Paoli e a una sua possibile frequentazione di Genovesi. Alcune testimonianze coeve, tra cui le dichiarazioni di Ferdinando Galiani e di Raimondo Cocchi, lasciano intendere che Paoli avesse studiato privatamente con Genovesi19 ma, al di là di questo, oggi sappiamo che la cosiddetta «scuola genovesiana» fu soprattutto una sorta di apprendistato culturale, che riuniva allievi effettivi e allievi ideali. In effetti non occorre certo stabilire se il giovane corso fosse stato o meno tra i tanti allievi e uditori di Genovesi per capire come venisse impadronendosi di un linguaggio della politica che maturava in quel contesto20. L’abate salernitano era già celebre nel mondo delle lettere e ciò può spiegare perché Paoli stesso, anni più tardi, avrebbe alluso ad una sua frequentazione genovesiana, avvalorata indirettamente anche da Genovesi con i suoi ripetuti riferimenti al generale e alla Corsica su cui torneremo più avanti21.
Genovesi era stato uno dei primi a sollecitare l’attenzione sui testi di Montesquieu. Già nel Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze del 1753 si era concentrato sull’Esprit des lois (in particolare sul capo V del libro III) e sulle Considérations (sul capitolo X). Aveva posto un problema di natura squisitamente costituzionale: si era domandato, cioè, se la virtù, tanto necessaria ad un governo repubblicano, fosse veramente inutile alle monarchie come era stato scritto nell’Esprit22. La sua risposta non poteva che essere negativa: per Genovesi la virtù avrebbe dovuto comprendere saviezza delle leggi, regola di sapere, «integrità e santità di costume», sulla base dell’insegnamento agostiniano (De civitate Dei, I, II). Si sarebbe trattato, quindi, essenzialmente di una forza moderatrice dei governi, di un freno e un limite al dispotismo, secondo una linea interpretativa destinata a riemergere più volte nel corso della sua lunga ricerca sugli strumenti per tratteggiare una teoria dei diritti che si opponesse alle ragioni della forza. Il Discorso sopra il vero fine, pubblicato all’interno del Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l’agricoltura del p. abate d. Ubaldo Montelatici, sarebbe stato più tardi riprodotto in appendice al libro secondo della Diceosina, o sia filosofia del giusto e dell’onesto, un testo destinato ad una fortuna più che ventennale e ad influenzare profondamente l’Illuminismo napoletano23.
L’opera di Genovesi rappresenta un passaggio fondamentale per capire lo svolgimento del pensiero costituzionale italiano e la nascita di un percorso repubblicano, sin dagli anni cinquanta del Settecento, opposto al costituzionalismo cetuale di Montesquieu. Negli scritti dell’abate salernitano la virtù veniva ricondotta ad un principio morale che doveva formare una società giusta ed equa – espressione che derivava proprio da quelle pagine – e che perciò poteva ispirare, quale criterio di moderazione tipicamente repubblicano, equilibratore ed ugualitario, sia il governo di un monarca sia quello di una repubblica: una regola morale, prima ancora che una norma legale, utile a temperare le forme di governo e a limitare gli abusi del potere24, e particolarmente necessaria in una realtà sociale come quella dell’Italia meridionale, dove il tentativo di porre dei limiti all’assolutismo si scontrava con gli interessi dei corpi intermedi e del ceto togato.
È significativo che Genovesi sentisse la necessità di discutere Montesquieu anzitutto sul piano del linguaggio, che meglio consentiva di misurare l’utilità dell’Esprit per la cultura italiana e meridionale ancora così condizionate dal sistema feudale. In una nota posteriore al 1757 al celebre capitolo dell’Esprit des lois intitolato Du principe de la démocratie (libro III, cap. III) l’abate salernitano si soffermò specificatamente sul problema della virtù, spiegando come fosse particolarmente necessaria non tanto nella monarchia, dove il popolo veniva guidato dal principe, quanto nella «repubblica popolare», dov’era invece sovrano25. Tuttavia
questa parola virtù è molto ambigua. Ella può significare l’umiltà cristiana: p...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. I. Dietro le parole: costituzione e costituzionalismo nell’Antico Regime
  3. II. Il mito del legislatore nell’Italia moderna
  4. III. «Fissare la costituzione»: metamorfosi del linguaggio politico
  5. IV. Riforme e costituzione
  6. V. Per una nuova teologia politica: morale, diritto e felicità
  7. VI. La scienza dei diritti e dei doveri dell’uomo
  8. VII. Educazione, pubblicità e pratiche di consenso
  9. VIII. Nella rivoluzione
  10. IX. L’eredità settecentesca: il problema delle garanzie costituzionali
  11. X. Patria, nazione e costituzione