Il popolo e gli dei
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Il popolo e gli dei

Così la Grande Crisi ha separato gli italiani

  1. 112 pagine
  2. Italian
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Il popolo e gli dei

Così la Grande Crisi ha separato gli italiani

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Se tutto è gestito altrove, si chiede il cittadino-suddito, che cosa mi resta se non il rifiuto? Oggi, scrivono De Rita e Galdo, élite e altre classi sociali non si parlano. In Italia 'il popolo' se ne sta da una parte: privato di potere, si rifugia nella dimensione della famiglia o della protesta populista. Lontani, in un loro altrove, stanno gli dei. Maria Latella, "Il Messaggero"

Un libro non tentato dall'anti-politica. Al contrario. Che cerca di restituire senso alla politica. Un vademecum per chi avrà l'ambizione di governare questa Italia sfilacciata. Stefano Folli, "Il Sole 24 Ore"

Un libro serrato, impietoso. La tesi di fondo è la progressiva perdita di sovranità degli Stati nazionali e quindi dei popoli, un furto di pochi dei, con la conseguente riduzione dei cittadini allo stato di sudditi. Carlo Vulpio, "Corriere della Sera"

De Rita e Galdo raccontano il fallimento collettivo in cui il Paese è precipitato. Il divorzio tra il popolo e i suoi 'dei' è radicale e distruttivo. "la Repubblica"

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858123188

1.
Il furto della sovranità

Dov’è il potere? E dove si colloca la sovranità?
Non sono domande per addetti ai lavori o per esperti di questioni istituzionali: si tratta di un aspetto centrale della vita collettiva, che incide in modo diretto sulla qualità dello “stare insieme” di una società e sulla sua chimica di sviluppo e di progresso. Capire dove sta la sovranità, e dove si esercita, significa prendere coscienza del nostro status di cittadini e avere consapevolezza di mutazioni che hanno spostato il baricentro delle decisioni pubbliche. Alla domanda su chi detiene il potere reale nel nostro Paese, gli italiani rispondono così: il 57 per cento indica il governo nazionale; il 22,5 per cento l’Unione Europea; il 22 per cento i mercati finanziari internazionali; il 20 per cento le regioni e quasi il 13 per cento gli organismi internazionali economici e finanziari. Dunque, una gran parte degli italiani ha già preso atto di come si sono consolidate nuove sedi del potere reale. Lontanissime da noi.
Lo slittamento della sovranità, fino alla sua evaporazione, non è un fenomeno esclusivamente italiano: riguarda, con diversi gradi di intensità, tutti i Paesi con economia di mercato e istituzioni tipiche della democrazia rappresentativa, oggi in forte crisi. Una globalizzazione governata poco e male, con un aumento ipertrofico delle distanze nella scala sociale, ha spento il primato della politica a favore della finanza (apolide per definizione), combinata alla tecnologia, capace di spostare sempre verso l’alto l’influenza del suo progredire. Nessun soggetto politico (Stato, parlamento, partiti) e nessun soggetto socio-economico (associazioni di impresa e di categoria, sindacati) è più padrone di una strategia d’azione, e tutti si ritrovano esautorati dal potere impersonale dei mercati finanziari.
Lo Stato-nazione, perno della sovranità e della stessa democrazia rappresentativa durante tutto il Novecento, si è andato consolidando come l’istituzione in grado di consacrare il matrimonio tra potere e politica, tra interessi parziali e interessi generali, dove i primi avevano il loro spazio vitale all’interno dei circuiti della rappresentanza e i secondi erano il frutto della sintesi che si esprimeva attraverso l’architettura istituzionale dello Stato-nazione. Poi i poteri privati hanno preso il sopravvento rispetto ai poteri pubblici, e la sovranità nel mondo globale si è trasferita in una dimensione sovranazionale, in uno spazio privo di confini territoriali e di ancoraggio con la società. Lo stesso suffragio universale, l’architrave su cui si è costruita nel Novecento la democrazia rappresentativa con le sue progressive conquiste, appare svuotato della sua capacità di costituire il ponte tra i cittadini e chi è chiamato a esprimere le loro istanze nelle diverse istituzioni. Tra il popolo e gli dei.
Anche l’Italia unita è cresciuta nella sicurezza di una sovranità esercitata dallo Stato-nazione e dalla politica che lo gestisce ai vari livelli. Fino a quando l’intera catena della sovranità, dal parlamento agli enti locali, dal governo centrale alle amministrazioni sul territorio, è stata svuotata. Lo slittamento verso il basso, che pure poteva portare a una migliore partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, si è tradotto in una somma di fragili trasferimenti di com­petenze nel nome di un astratto e opaco federalismo, più volte sventolato come una bandiera del cambiamento. Il risultato è che le regioni sono state trasformate in gigantesche Asl, con una spesa sanitaria pari a circa l’80 per cento dei bilanci regionali; le province sono in via di liquidazione e di scioglimento; i comuni hanno molta visibilità ma scarso potere, a partire dalle leve finanziarie che non controllano. Risultato: solo un italiano su cinque considera il nostro un autentico federalismo. Mentre il conto del decentramento, dal punto di vista della pressione fiscale, è stato altissimo: le tasse “federali” in venti anni sono cresciute cinque volte, a fronte di imposizioni nazionali raddoppiate nello stesso periodo. Confartigianato ha calcolato che tra il 2000 e il 2010 le tariffe dei servizi pubblici locali in Italia sono cresciute del 54,2 per cento, il doppio dell’inflazione e 24 punti in più rispetto alla media europea. Per non parlare delle tasse sui rifiuti, aumentate del 56,6 per cento rispetto al 32,2 per cento della media europea.
Lo spostamento del baricentro del potere verso l’alto è stato ancora più confuso e contraddittorio. La sovranità non si è certo trasferita a pieno titolo negli organismi sovranazionali, dal Fondo monetario al Wto, dall’Onu ai vari vertici siglati con una lettera e un numero: dal G2 al G7, fino al G20. Numeri, appunti, compreso il G-Zero, la sigla con la quale ormai diversi analisti di geopolitica internazionale scolpiscono il fallimento e l’impotenza di questo livello di governance globale. Si tratta di istituzioni e summit sospesi in un infernale meccanismo di veti incrociati, svuotati della loro base di rappresentanza degli Stati membri e spesso ridotti a semplici portavoce dei vincoli che i mercati impongono alle comunità nazionali. In conclusione, la sovranità nazionale è ormai fittizia, quella sovranazionale ancora non realizzata e ridotta a un insipido coordinamento intergovernativo.
Un discorso a parte va fatto sull’incompiutezza dell’Europa, sospesa tra la realtà di una semplice alleanza economica tra singoli Stati e l’utopia di un vero Stato federale. Da un lato lo Stato-nazione ha perso sovranità, e dunque ruolo e funzioni, dall’altro le istituzioni europee restano un ibrido, laddove l’integrazione è inchiodata alla moneta unica, al mercato comune, ma non ha una legittimazione politica condivisa. Nel limbo di un progetto incompiuto, l’Italia paga un doppio prezzo. Abbiamo perso la disponibilità delle tradizionali leve per favorire lo sviluppo economico, dalla svalutazione della moneta all’inflazione, e non abbiamo incassato i dividendi di un’adeguata integrazione fiscale che potrebbe favorire la crescita economica attraverso l’uso di strumenti quali, per esempio, le comuni garanzie sui depositi bancari e gli eurobond. La moneta è unica, sovranazionale; il debito pubblico, invece, è nazionale.
Da qui una sovranità che evapora, secondo un meccanismo che Max Weber definiva di «eterocefalia», ossia di trasferimento all’esterno del proprio potere. Un caso classico di eterocefalia è rappresentato dalla lettera, con perentorie prescrizioni, inviata dalla Banca centrale europea al governo italiano nell’agosto del 2011, durante gli ultimi mesi di vita del governo di Silvio Berlusconi: un documento che ha di fatto commissariato un governo, per poi diventare il programma del successivo, quello guidato da Mario Monti. Tutto perché «lo chiede l’Europa». Come l’introduzione in Costituzione del vincolo del pareggio di bilancio, approvata in poche settimane dallo stesso parlamento che da molti, troppi anni non riesce a realizzare una riforma della legge elettorale. Dal giorno in cui ha ricevuto la lettera con le prescrizioni della Bce, il governo italiano – ha dichiarato con la sua onestà intellettuale il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi – «in materia di consolidamento dei conti e di politica fiscale viaggia con il pilota automatico». Saldamente nelle mani dell’establishment di Bruxelles e di Francoforte.
L’Europa incompiuta non scalda né i cuori né le teste dei popoli. E li distanzia dalle classi dirigenti. Mentre lo spread, da differenziale che misura lo scarto tra il costo dei nostri titoli di Stato rispetto a quello di altri Paesi dell’Unione, si trasforma in modo surrettizio in un parametro del benessere e della solidità economica, l’opinione pubblica europea volta sempre più le spalle alle istituzioni, fino a diffidarne. Il 60 per cento degli italiani ha poca, pochissima fiducia nell’Europa (una percentuale cresciuta del 17 per cento dal 2010), e il 75 per cento è convinto che la voce dell’Italia non conti nulla all’interno dell’Unione. Solo tra i greci si registra una quota maggiore di persone che condividono quest’idea (84 per cento), mentre la media dell’Unione Europea si attesta al 61 per cento. La popolarità del progetto europeo è crollata ai minimi e secondo i rilevamenti di Eurobarometro, solo il 41 per cento degli italiani crede che la partecipazione del nostro Paese all’Unio­ne sia un bene. Il centro studi americano Pew Research ha scritto un rapporto intitolato Il nuovo malato d’Europa: l’Unione Europea, dal quale risulta che dal 2007 ad oggi gli italiani con un’opinione favorevole o molto favorevole sull’Unione sono diminuiti di 20 punti, e in generale gli ottimisti sul futuro dell’allean­za prevalgono sui pessimisti soltanto in due Paesi su quindici: il Belgio e l’Olanda.
La sovranità, insomma, si è spostata verso i gironi opachi e incontrollati della grande finanza internazionale, quella che orienta, giorno per giorno, secondo dopo secondo, il nuovo dominus: il mercato. È il mercato che ci chiede di tenere il debito pubblico sotto controllo, di riformare il welfare, di allungare l’età pensionabile, di rivedere gli incentivi alle imprese. È il mercato, con i suoi flussi finanziari, con la sua élite di attori protagonisti, quantificata dal sociologo Richard Sennett in una comunità di non più di 60.000 persone, che orienta la nostra vita collettiva. E la sovranità, vista con lo sguardo del cittadino, diventa inafferrabile, lontana, apolide: il popolo e gli dei non sono stati mai così lontani.
Lloyd Blankfein, amministratore delegato della banca d’affari Goldman Sachs, ha detto: «Sono un banchiere che fa il lavoro di Dio. Ogni mossa della nostra banca può regolare o disordinare l’andamento delle costellazioni finanziarie e politiche». A parte un non dissimulato delirio di onnipotenza, in queste parole si coglie l’essenza dello spostamento verso l’alto, verso il potere incontrollato dei mercati finanziari, della sovranità persa dai cittadini e dallo Stato-nazione. Un banchiere, gratificato da uno stipendio fino a 70 milioni di dollari l’anno, capo di una banca di investimento che da sola muove i capitali equivalenti al Pil di uno Stato sovrano, si sente investito di una funzione divina. Qualcosa che il popolo non può neanche sfiorare – il divino è per sua natura inafferrabile – dovendosi limitare a un atto di fede e di obbedienza a un potere così sovrastante, lontano, e privo di qualsiasi linea di trasmissione.
Goldman Sachs non è solo un’influente banca d’affari, uno snodo del sistema finanziario globale, con attivi superiori a quelli della Banca centrale europea: è uno stile di vita, e incarna una visione del mondo con le sue gerarchie. Al linguaggio metafisico e dogmatico di Blankfein corrisponde l’alone di sacralità che proietta la potenza occulta del mercato nel linguaggio corrente. «Arriverà il giudizio universale dei mercati, e dobbiamo temerlo»: è una frase che abbiamo ascoltato spesso, in questi anni, a sigillare il dogma di una nuova divinità con la sua ferocia, al di sopra dei nostri comportamenti e delle nostre decisioni.
Un’altra potente banca d’affari internazionale, la JP Morgan, nel maggio 2013 ha presentato un rapporto sulla crisi dell’euro e in particolare sulle difficoltà dei Paesi del Sud Europa, tra i quali l’Italia, a restare nell’eurozona. Il testo merita una lettura, perché testimonia in modo esplicito lo sconfinamento dei poteri collegati alla grande finanza internazionale nel campo proprio della politica.
Quando la crisi è iniziata era diffusa l’idea che i problemi dell’eurozona avessero una natura prevalentemente economica: debito pubblico troppo alto, difficoltà legate ai mutui e alle banche, tassi di cambio reali non convergenti e varie rigidità strutturali. Ma con il tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei Paesi del Sud Europa, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’euro.
Da qui una sorta di elenco delle “patologie europee”, tutte di natura politica: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti, governi centrali deboli verso le regioni, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo, licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche allo status quo.
Ricapitolando, la JP Morgan declina la crisi della moneta unica come il risultato di democrazie appesantite d...

Indice dei contenuti

  1. Prologo
  2. 1. Il furto della sovranità
  3. 2. La fine della rappresentanza
  4. 3. Il potere cieco dei mercati e il nuovo ciclo di sviluppo
  5. Annotazioni bibliografiche