25 aprile 1945. La Liberazione
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25 aprile 1945. La Liberazione

  1. 20 pagine
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25 aprile 1945. La Liberazione

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Milano, 24 aprile 1945, dal diario di Andrea Damiano, giornalista, già redattore capo del Corriere della Sera, nascosto in città per non collaborare con il regime di Salò: «La vita di Milano è apparentemente normale, ma laria è secca, i volti seri, dalle vie affollate e animate sale come un ronzare di api inquiete che un nonnulla può rendere furiose».Milano, 29 aprile 1945, dallo stesso diario: «Fa uno splendido sole, e laria è mossa. Dalla mia finestra si vedono nette le montagne azzurre nel sereno. Laggiù nella calca di piazzale Loreto i volti sono sudati, molte le donne, unaria di kermesse, di fiera paesana. Camion fermi brulicanti di partigiani affiorano come isole tra il ribollire della marea umana, intrisi di vessilli rossi, di luccicanti canne di mitra, di caschi dacciaio e di coccarde».Tra queste due date, quella del 25 aprile 1945. La Liberazione. Milano che insorge, memore di se stessa e della sua storia. Milano che sospinge verso il lago di Como un Mussolini fuggiasco, nellattesa di violarne il cadavere in piazzale Loreto. Milano operaia, che accoglie dalla pianura e dalle montagne i partigiani delle brigate Garibaldi. Milano violenta, che si prepara a vendicare, sangue contro sangue, i troppi morti della guerra fascista e delloccupazione nazista.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858101254
Argomento
Historia

25 aprile 1945. La Liberazione

di Sergio Luzzatto
Per raccontare questa storia pubblica, bisogna incominciare aprendo le pagine di un documento privato. È il diario di un giornalista oggi poco noto, quasi sconosciuto. Si chiamava Andrea Damiano, ed era nato con il Novecento: aveva dunque quarantacinque anni in quel fatidico mese di aprile. Da giornalista, aveva fatto la sua bella strada: poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale era stato nominato redattore capo del «Corriere della Sera». Ma dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Damiano non aveva più messo piede in via Solferino. Aveva preferito nascondersi: per non collaborare con il regime di Salò, e per sottrarsi alle ricerche della polizia, che lo riteneva un antifascista. In realtà, noi potremmo definirlo piuttosto un «attendista». Al pari di tanti altri italiani, oppressi dal peso congiunto della guerra mondiale, dell’occupazione tedesca, della guerra civile, Andrea Damiano aspettava. Sennonché – per nostra fortuna – l’uomo di penna non aspettava soltanto: scriveva. E registrava giorno per giorno, con lo scrupolo di un entomologo, lo spettacolo dell’umanità animalesca che si muoveva intorno a lui.
Damiano non apparteneva a quella minoranza di italiani che avevano scelto, dopo l’8 settembre, di combattere fino all’ultimo con l’alleato dell’inizio, la Germania hitleriana. Non apparteneva neppure a quell’altra minoranza di italiani che avevano scelto, dopo l’8 settembre, di fare resistenza armata contro il nemico nazifascista. Damiano era un uomo «né... né...»: né saloino, né partigiano. E proprio per questo, in fondo, egli promette di servirci validamente da testimone per ritrovare i «giorni di Milano» dell’aprile 1945. Perché la sua figura sfugge alla logica binaria (e semplicistica) cui ci hanno abituato decenni di retoriche contrapposte: la sua voce non è né quella di un «vincitore», né quella di un «vinto». Uomo che aspetta, Damiano ci aiuta a capire quanto le guerre civili siano una cosa complicata oltreché terribile: in ogni caso, una cosa diversa dal balletto cui troppo spesso le costringono le pressioni retrospettive della storia e della memoria, un meccanico balletto di vincitori e vinti, buoni e cattivi, rossi e neri. Non per nulla, quando decise di pubblicare – forse ritoccandolo per la stampa – il diario da lui tenuto fra 1942 e 1945, Damiano volle intitolarlo Rosso e Grigio.
Ma è venuto il momento di aprirlo, questo diario di un attendista. E di leggervi dentro alla pagina datata 24 aprile 1945. Dove il giornalista autosospeso parlava la lingua dell’entomologo dilettante: «La vita di Milano è apparentemente normale, ma l’aria è secca, i volti seri, dalle vie affollate e animate sale come un ronzare di api inquiete che un nonnulla può rendere furiose». Rileggiamo bene la data: 24 aprile. E adesso sfogliamo il diario in avanti, riaprendolo poche pagine (cioè pochi giorni) più in là, alla data del 29 aprile. Dove il racconto di Damiano oscillava nei tempi verbali, passava dal presente all’imperfetto:
Fa uno splendido sole, e l’aria è mossa. Dalla mia finestra si vedono nette le montagne azzurre nel sereno. Laggiù nella calca di piazzale Loreto i volti erano sudati, molte le donne, un’aria di kermesse, di fiera paesana. Camion fermi brulicanti di partigiani affioravano come isole tra il ribollire della marea umana, intrisi di vessilli rossi, di luccicanti canne di mitra, di caschi d’acciaio e di coccarde.
Tra queste due date del diario di Damiano, il 24 e il 29 aprile, sta la nostra data: il 25 aprile 1945. O stanno, più esattamente, le nuove Cinque Giornate di Milano, durante le quali – come vedremo – i camion brulicanti di partigiani contarono parecchio, e le api inquiete divennero veramente furiose. Giorni decisivi, che avrebbero cambiato per sempre la storia non soltanto milanese, ma italiana. Giorni di cui dobbiamo anzitutto ritrovare i fatti essenziali, prima di interrogarci riguardo al loro significato simbolico. Prima di ragionare della loro importanza nel fondare il mito della Resistenza, insieme, sopra un totem e sopra un tabù: secondo il titolo (altro titolo istruttivo!) di un «raccontino» vergato da Umberto Saba nella Roma degli stessi giorni, in cui si rendeva conto dell’accoglienza riservata dal popolo capitolino alla notizia della messa a morte di Mussolini.
Totem e tabù: al di là del raccontino di Saba – niente più che la testimonianza di un poeta impregnato di umori freudiani – le circostanze storiche e simboliche della liberazione di Milano evocano effettivamente il totem di un movimento resistenziale unitario, strutturato, compatto, dalla testa pensante della dirigenza ciellenistica alle braccia operative dei gruppi gappisti, dei «volontari della libertà», delle brigate partigiane provenienti dalla montagna e dalla collina. Nella memoria collettiva dei milanesi, l’insurrezione si sarebbe iscritta quale meravigliosa miscela di spontaneità popolare e di direzione politica; e nessuna contromemoria revisionistica può negare l’evidenza per cui la città si liberò dei tedeschi senza attendere l’arrivo degli angloamericani, organizzandosi nel giro di poche ore intorno alle istituzioni di governo espresse dalla Resistenza. Ma le circostanze sto...

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