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Le ragioni della riforma costituzionale

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Le ragioni della riforma costituzionale

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Perché… fa quello che i partiti promettono da trent'anni senza esserci fin qui riusciti ? trasforma un doppione della Camera in un Senato che rappresenta le autonomie ? semplifica il procedimento legislativo? impedisce l'abuso dei decreti-legge e limita il ricorso alla fiducia ? razionalizza il riparto delle competenze fra Stato e Regioni ? ridisegna la repubblica delle autonomie ? rende più efficienti le istituzioni eliminando gli sprechi ? potenzia gli strumenti di partecipazione popolare ? amplia le garanzie democratiche ? delinea istituzioni più stabili e rende la nostra voce più forte in Europa ? non tocca i principi della prima parte della Costituzione, ma anzi li valorizza ? non aumenta i poteri del governo, ma anzi li razionalizza ? non riguarda la legge elettorale, ma anzi la sottopone a controlli più stringenti ? semplifica la vita dei cittadini e delle imprese ? migliora la qualità della democrazia.

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1.
Perché... fa quello che i partiti promettono da trent’anni senza esserci fin qui riusciti
di Carlo Fusaro

Diciamo trent’anni perché è cifra tonda: ma gli anni trascorsi da quando si è cominciato a parlare di riformare la Costituzione, in Parlamento, sono di più. E non parliamo di questioni importanti ma limitate, aperte sin dalla prima legislatura: se è vero com’è vero che il presidente del Senato Enrico De Nicola istituì già allora un Comitato di studio sulla modifica della composizione del Senato. Non parliamo delle iniziative invano intraprese da alcuni presidenti della Repubblica: il messaggio del presidente Antonio Segni che proponeva la non rieleggibilità del capo dello Stato e l’abolizione del semestre bianco (nel 1963); e quello del presidente Giovanni Leone, di più ampia portata, ma parimenti ignorato (nel 1975). Né parliamo delle prime iniziative a livello governativo, come il rapporto del ministro per la Funzione pubblica Massimo Severo Giannini Sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato (fine 1979), che andava ben al di là di questioni amministrative.
L’impegno dei partiti, e dunque delle Camere, risale almeno al 1982 (trentaquattro anni fa) quando, sull’onda del c.d. Decalogo Spadolini (presentato nell’agosto di quell’anno dall’allora presidente del Consiglio all’atto della formazione del suo secondo governo), ciascuna delle due Camere, separatamente, istituì un Comitato di studio, uno presieduto dal deputato della Südtiroler Volkspartei Roland Riz, l’altro dal senatore democristiano Francesco Paolo Bonifacio. Quei due Comitati avevano uno scopo limitato: raccogliere, senza alcuna ambizione di elaborazione, le proposte di tutti i gruppi. Essi segnano l’ingresso della questione istituzionale nell’agenda non di questo o quel partito, di questo o quel leader (si pensi alle iniziative di Bettino Craxi dal 1979), ma del Parlamento, cioè del sistema partitico nel suo insieme.
Un censimento è presto fatto. Nella loro aridità, i dati danno la misura e la continuità di uno sforzo che è difficile – anzi, impossibile – derubricare a una sorta di ultradecennale abbaglio collettivo. Ma vediamo.
Dopo i comitati Riz-Bonifacio, si registrano:
(A) tre Commissioni parlamentari bicamerali, due delle quali accompagnate da leggi costituzionali istitutive di un procedimento speciale (volto a rendere lo sbocco riformatore più probabile: attenzione, entrambe varate con maggioranza superqualificata dei due terzi, a testimonianza dell’ampiezza del consenso sull’opportunità e necessità di una riforma di respiro ampio): Commissione parlamentare per le riforme istituzionali (IX legislatura, 1983-1985, presidente Aldo Bozzi, liberale); Commissione parlamentare per le riforme istituzionali (XI legislatura, 1992-1994, presidenti Ciriaco De Mita e Nilde Iotti, democristiano il primo, democratica di sinistra la seconda); Commissione parlamentare per le riforme costituzionali (notare il passaggio da «istituzionali» a «costituzionali»; XIII legislatura, 1997-1998, presidente Massimo D’Alema, ds);
(B) una sequela di dibattiti in entrambe le Camere, talora negli stessi giorni. Senza considerare le due leggi costituzionali ad hoc e a parte le risoluzioni istitutive delle tre Bicamerali, dibattiti solenni avvengono nella X (1988), XII (1995) e XVI (2009) legislatura. Infine, nel 2013, un terzo tentativo, abbandonato, di legge costituzionale sul procedimento;
(C) una serie di tentativi di riforma non giunti in porto ma sfociati nell’approvazione di almeno un ramo del Parlamento: progetto Elia-Labriola della X legislatura (1989-1991); progetto governo Berlusconi, bocciato al referendum, a fine XIV legislatura (2005-2006); progetto varato dal Senato nel corso della XVI legislatura (2012). È opportuno aggiungervi almeno il c.d. progetto Violante della Prima Commissione della Camera nella XV legislatura (2007): anche se fu approvato solo in commissione, costituisce un precedente importante;
(D) vari comitati governativi volti a promuovere iniziative: Comitato Speroni (1994); Comitato Maccanico (1996-1998); Comitato Bossi-Brigandì (2002-2004); Comitato Letta-Quagliariello (2013). Non basta:
(E) dalla X legislatura in avanti (cioè dal 1987 ad oggi), su diciannove governi, quindici hanno avuto un ministro per le Riforme (istituzionali e/o elettorali, e/o costituzionali, e/o per la devoluzione e il federalismo: diverse le formule impiegate). La stessa organizzazione interna della presidenza del Consiglio dei ministri ha visto l’istituzione, dal 1994, di un apposito Dipartimento per le riforme istituzionali;
(F) si aggiungano le insistite, talora accorate sollecitazioni giunte da quasi tutti i presidenti della Repubblica da Leone in poi (un elenco sarebbe troppo lungo). Si ricordi almeno l’appassionato e controverso messaggio del presidente Francesco Cossiga del giugno 1991 e – 22 anni dopo – le iniziative del presidente Giorgio Napolitano (quando all’avvio della XVII legislatura istituì un apposito Gruppo di lavoro e – soprattutto – il 22 aprile dello stesso anno, all’atto del suo secondo giuramento a Camere riunite, sferzò i gruppi parlamentari chiamandoli a riforme finalmente conclusive).
Insomma, occorre una bella improntitudine per dire che tutte le forze politiche presenti in Parlamento, appartenenti a due sistemi partitici diversi (prima e dopo il 1993), tutti i presidenti e una quindicina di governi, si siano tutti sbagliati, siano stati tutti preda di strane fantasticherie, abbiano tutti fatto finta di credere a un mito privo di fondamento, e l’abbiano fatto, come se non bastasse, per tutto questo tempo!
Vediamo ora i maggiori tentativi di riforma del trentennio (1985-2016), limitandoci a quelli approvati, in tutto o in parte, in sede parlamentare.
Progetto della Commissione Bozzi (1983-1985). Avrebbe modificato 40 articoli della Costituzione e ne avrebbe aggiunti cinque. Si distingue dai successivi per due aspetti: primo, all’epoca nessuno pensava che la prima parte della Costituzione fosse – di fatto – intoccabile; si riteneva anzi che fosse bene aggiornare anche quella, e infatti il progetto incideva su ben 11 degli articoli dal 9 al 54, aggiungendone tre (su informazione e tutela dei disabili). In secondo luogo (aspetto assai significativo), alla vigilia dell’ondata “federalista” non toccava il titolo V della Costituzione. Il bicameralismo restava paritario; si cercava però una differenziazione funzionale fra Camera e Senato con prevalenza in materia legislativa della prima e prevalenza in materia di controllo sull’esecutivo del secondo. A leggerlo, l’art. 70 sembra il diretto progenitore dell’art. 70 del progetto Renzi-Boschi: con un elenco di leggi bicamerali (più ampio dell’attuale), mentre tutte le altre diventavano di competenza della Camera salvo richiamo da parte del Senato (che doveva proporre modifiche entro trenta giorni, lasciando l’ultima parola alla Camera). Veniva disciplinato restrittivamente il referendum e rafforzato il presidente del Consiglio: la fiducia andava a lui solo, così poteva revocare i ministri, e questa fiducia gli era conferita e tolta a Camere riunite (elemento di stabilizzazione, salvo dimissioni volontarie). All’epoca le espressioni “premierato assoluto” e “uomo solo al comando”, che spesso vengono evocate nel recente dibattito, non erano ancora state inventate.
Progetto della Commissione De Mita-Iotti (1992-1994). Questa Commissione operò nel pieno della grande crisi del sistema politico e istituzionale che fece parlare di tramonto della Prima Repubblica. Gran parte del tempo fu in realtà dedicato a tentare di prevenire il referendum elettorale sul Senato. Il progetto modificava 22 articoli della Costituzione e ne proponeva cinque aggiuntivi. A differenza della Bozzi, non toccava la prima parte della Costituzione (anzi ciò era espressamente escluso) e neppure (per mancanza di intesa) il bicameralismo. La Lega aveva ottenuto i primi successi (1992) e così veniva proposta un’ampia revisione del titolo V secondo linee che sarebbero state riprese nel decennio successivo (inversione del criterio di riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni; facoltà di ciascuna regione di scegliere una forma di governo diversa da quella stabilita in Costituzione). In tema di forma di governo veniva mutuato il modello tedesco della sfiducia costruttiva: con elezione parlamentare del solo primo ministro, suo potere di nomina e revoca dei ministri, sfiducia possibile solo con elezione a maggioranza assoluta di un nuovo primo ministro sempre a Camere riunite (anche in questa fase la necessità di un rafforzamento del capo del governo era data per pacifica: eravamo in epoca pre-Berlusconi).
Progetto della Commissione D’Alema (1997-1998). Resta, di gran lunga, il tentativo più ambizioso: avrebbe dovuto rifondare l’ordinamento sulla base di un’intesa fra centrosinistra dell’Ulivo e centrodestra berlusconiano. Fallì sia per la mancata intesa in materia di riforma del titolo IV sulla magistratura sia per la strenua ostilità di frange influenti della sinistra (contrarie a qualsiasi collaborazione con Berlusconi e a ogni rafforzamento dell’esecutivo). Alcune sue parti sarebbero state riprese nel 1999-2001 (il nuovo titolo V). Anch’essa, comunque, riguardava la sola parte seconda, che però veniva riscritta di sana pianta. È l’unico progetto non in forma di emendamenti al testo attuale, ma di sua integrale riscrittura (a partire dall’ordine dei titoli: il Parlamento retrocedeva dal primo al quarto posto). Gli articoli incisi sarebbero stati 85. Il capo dello Stato sarebbe stato eletto direttamente dal corpo elettorale secondo un confuso modello semi-presidenziale che prevedeva anche, per la prima volta, la fiducia al governo da parte della sola Camera dei deputati. In materia legislativa il procedimento era simile a quello della Commissione Bozzi: leggi bicamerali e altre leggi; per queste ultime erano previsti approvazione della Camera ed eventuale intervento emendativo del Senato sul quale la Camera si pronunciava in via definitiva. Il numero dei parlamentari sarebbe stato ridotto a circa 700 (ma con integrazione di rappresentanti degli enti substatali per alcuni procedimenti). Sarebbe cambiata anche la Corte costituzionale: restavano i cinque giudici di nomina presidenziale e i cinque di elezione da parte delle supreme magistrature, ma quelli eletti dal Parlamento in seduta comune venivano tutti attribuiti all’elezione da parte del Senato; altri cinque (il totale diventava 20) sarebbero stati eletti dai rappresentanti di Comuni, Province e Regioni. Il progetto si accompagnava a un’intesa su una legge elettorale mista proporzionale-uninominale maggioritaria a doppio turno.
Progetto approvato dal Parlamento nel 2005 (governo Berlusconi). Avrebbe toccato 46 articoli con tre nuovi. Fu bocciato a larga maggioranza nel referendum costituzionale del 25-26 giugno 2006. Interveniva sull’assetto del Parlamento, sulla forma di governo, sui rapporti Stato-Regioni. Quanto al bicameralismo, si sarebbe avuta una riduzione del numero dei parlamentari elettivi (da 945 a 770); una differenziazione fra le due Camere (solo la Camera avrebbe instaurato il rapporto fiduciario); in materia legislativa si sarebbero avute leggi bicamerali e leggi a prevalenza Camera o a prevalenza Senato a seconda che riguardassero il comma 2 (competenza legislativa esclusiva dello Stato) o il comma 3 (principi fondamentali in materia di competenza concorrente) dell’art. 117 (vigeva ormai la riforma del 2001). Il rapporto fiduciario (solo della Camera) sarebbe stato col primo ministro, nominato dal capo dello Stato, ma in stretto esito alle elezioni della Camera, da tenersi con apposita legge elettorale (c’era la Calderoli). Il primo ministro avrebbe nominato e revocato i ministri e avrebbe potuto essere sfiduciato e anche sostituito per via parlamentare, a condizione però che ciò avvenisse nell’ambito delle forze politiche vincitrici delle elezioni. Avrebbe inoltre avuto voce nello scioglimento. Veniva previsto il c.d. voto a data certa su richiesta del governo su propri progetti, ma (a differenza della riforma del 2016) vi si sarebbe aggiunto il voto sul testo scelto dal governo. Quanto ai giudici costituzionali, la Camera ne avrebbe eletti tre e il Senato quattro.
Progetto Prima Commissione XV legislatura (2007). Senza l’ambizione di affrontare tutta la materia oggetto dei precedenti (e dei successivi) tentativi, avrebbe inciso su 25 articoli della seconda parte della Costituzione. Avrebbe determinato una differenziazione del bicameralismo facendo nascere (secondo le proposte del centrosinistra degli anni Novanta, a partire dalla famosa tesi 4 del programma dell’Ulivo del 1996) il Senato di rappresentanza territoriale (con 186 componenti eletti dai consigli regionali al proprio interno o dai consigli delle autonomie locali); il rapporto fiduciario sarebbe stato fra la sola Camera (di 512 componenti) e il presidente del Consiglio con suo potere di nomina e revoca dei ministri; la sfiducia avrebbe inoltre richiesto la maggioranza assoluta (non quella semplice, come avviene attualmente). Il procedimento legislativo prevedeva una serie di leggi bicamerali enumerate, leggi a prima lettura da parte del Senato (quelle in materia di principi fondamentali sulle materie di competenza concorrente) e leggi a prevalenza Camera (le altre): in tutti i casi, però, la Camera avrebbe avuto l’ultima parola (nel caso delle leggi a prima lettura da parte del Senato era necessaria la maggioranza assoluta).
Se si mette a raffronto il testo della riforma 2016 con questi precedenti, è agevole individuare le prevalenti linee di continuità, le innovazioni più significative come anche – checché se ne dica – la prudenza nel rinunciare a intervenire su alcune materie.
Ma prima di tornare ai progetti di cui si è appena dato conto, è importante evidenziare la forte continuità dei contenuti del testo con quelli della relazione finale presentata dal Comitato Letta-Quagliariello nel 2013, che contiene le linee di intervento ritenute necessarie – per consenso quasi unanime – dagli esperti riuniti: pur trattandosi del lavoro di un comitato governativo, la relazione può infatti essere considerata, a tutti gli effetti, come la base di partenza del disegno di legge Renzi-Boschi.
Grande continuità c’è, dunque, nel fatto che in questi più di trent’anni nessun progetto ha mai battuto la strada del monocameralismo. Tutti hanno battuto la strada della differenziazione fra le due Camere e, dal 1997, di una riduzione del numero dei parlamentari. Una relativa novità è nell’attribuire al Senato funzioni di rappresentanza territoriale (unico diretto precedente è il progetto Violante: come in quello si prevede l’elezione di secondo grado). Continuità si registra nel perseguire la differenziazione in materia di competenza legislativa fra le due Camere, così come nel riservare alla Camera il rapporto fiduciario. Per il primo aspetto, lo sforzo di individuare leggi che restano bicamerali a fronte di leggi a prevalenza della Camera è costante e percorre, in una forma o nell’altra, con soluzioni più o meno felici, quasi tutti i progetti. Dalla Commissione D’Alema in poi (cioè da quasi vent’anni), è poi pacifico che il rapporto fiduciario debba essere con la sola Camera dei deputati. Continuità c’è anche per l’istituto del voto a data certa unito a limiti più rigorosi alla decretazione d’urgenza (presente già nei progetti D’Alema, Berlusconi e Violante). Continuità, infine, anche nella ripartizione fra le due Camere dell’elezione dei giudici della Corte costituzionale spettanti al Parlamento.
Per quanto riguarda le innovazioni, il progetto del 2016 si segnala perché è quello che riduce di più il numero dei parlamentari; che introduce il doppio mandato locale/regionale e senatoriale; che abolisc...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione di Maria Elena Boschi
  2. Introduzione. Il percorso della riforma di Massimo Rubechi
  3. 1. Perché... fa quello che i partiti promettono da trent’anni senza esserci fin qui riusciti di Carlo Fusaro
  4. 2. Perché... trasforma un doppione della Camera in un Senato che rappresenta le autonomie di Cesare Pinelli
  5. 3. Perché... semplifica il procedimento legislativo di Roberto Bin
  6. 4. Perché... impedisce l’abuso dei decreti-legge e limita il ricorso alla fiducia di Vincenzo Lippolis
  7. 5. Perché... razionalizza il riparto delle competenze fra Stato e Regioni di Giulio M. Salerno
  8. 6. Perché... ridisegna la repubblica delle autonomie di Andrea Morrone
  9. 7. Perché... rende più efficienti le istituzioni eliminando gli sprechi di Francesco Clementi
  10. 8. Perché... potenzia gli strumenti di partecipazione popolare di Tommaso Edoardo Frosini
  11. 9. Perché... amplia le garanzie democratiche di Tania Groppi
  12. 10. Perché... delinea istituzioni più stabili e rende la nostra voce più forte in Europa di Lorenza Violini
  13. 11. Perché... non tocca i principi della prima parte della Costituzione, ma anzi li valorizza di Marilisa D’Amico
  14. 12. Perché... non aumenta i poteri del governo, ma anzi li razionalizza di Stefano Ceccanti
  15. 13. Perché... non riguarda la legge elettorale, ma anzi la sottopone a controlli più stringenti di Peppino Calderisi
  16. 14. Perché... semplifica la vita dei cittadini e delle imprese di Beniamino Caravita
  17. 15. Perché... migliora la qualità della democrazia di Salvatore Vassallo
  18. Gli autori