La Congiura
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La Congiura

Potere e vendetta nella Firenze dei Medici

  1. 312 pagine
  2. Italian
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La Congiura

Potere e vendetta nella Firenze dei Medici

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Il complotto dei Pazzi contro i Medici sancì il ruolo di Lorenzo il Magnifico come protagonista della vita italiana. Franco Cardini e Barbara Frale raccontano la congiura con una scrittura narrativa potente. Amedeo Feniello, "la Lettura - Corriere della Sera"

La storia dei Medici, famiglia-icona del Rinascimento italiano, è la storia di una successione quasi ininterrotta di congiure e complotti. Esiste però un momento cruciale, la 'congiura per eccellenza': quella che nel 1478 doveva mettere fine al dominio della famiglia su Firenze e sopprimerne la guida, Lorenzo il Magnifico. Lorenzo è all'apogeo della sua fortuna ma alcuni errori minacciano la sua stabilità: l'ostilità del nuovo papa Sisto IV; l'odio di Volterra, tiranneggiata per impadronirsi delle sue risorse naturali; la vendetta della famiglia Pazzi, cresciuta in potenza e ormai temibile concorrente. L'invidia verso un uomo che sembra costantemente baciato dalla fortuna cementa il legame dei nemici e li determina all'azione.

Aprile 1478: Lorenzo il Magnifico è al culmine della sua fortuna. Signore di Firenze, grande mecenate, stratega della pax italica. Contro di lui tramano uomini mossi da gelosia, invidia e ambizione. L'esito è un bagno di sangue.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858134559

VII.
La vendetta e l’alibi

Le conseguenze immediate della congiura

Già lo sapevano gli storici dell’antichità greca e latina, che ce l’hanno spiegato molto bene: gli attentati, i colpi di mano, i colpi di stato, hanno la caratteristica che, se falliscono, rafforzano il potere contro il quale sono diretti. Per questo la storia è piena di falsi attentati, di colpi di mano taroccati, di colpi di stato fasulli.
Poiché, come diceva un grande statista italiano – l’ultimo forse, in ordine di tempo, del secolo scorso – a pensar male si fa peccato ma spesso ci s’indovina, non è mancato neppure qualcuno che ha sospettato (forse sollecitando troppo le fonti, forse abusando del “paradigma indiziario” di ginzburghiana memoria) che anche dietro il pugnale dei Pazzi e la volontà eversiva di papa Sisto si celasse in qualche misura un disegno laurenziano volto a rafforzare il potere mediceo cittadino e regionale.
Ipotesi azzardata. D’altronde, non è che le cose andassero poi così bene per il Magnifico, in quel momento. Sul piano della politica interna, gli avversari erano tanti e il malcontento tra i suoi stessi sostenitori appartenenti ai ceti subalterni cresceva col crescere del costo della vita e della pressione fiscale nella dominante, mentre nelle grandi e piccole comunità a vario titolo soggette dello stato fiorentino i segni di malumore si andavano moltiplicando1. Quanto alla politica estera, dopo l’assassinio del pur crudele Galeazzo Maria Sforza, la casa dell’Ammazzagiganti mugellano era rimasta priva di un supporto diplomatico sicuro, mentre la Curia pontificia era palesemente ostile, il re di Napoli ormai l’assecondava e la repubblica di San Marco rappresentava un alleato recente, infido e per giunta troppo preoccupato dalla pressione ottomana per potersi sul serio occupare delle cose della terraferma italica. Sul piano economico e finanziario, il banco mediceo disponeva di una sede romana in palese sofferenza nonostante, per sostenerla, si fossero compromesse le situazioni di altre filiali. Insomma l’insorgere di un qualche pericolo, il profilarsi di una situazione che avesse di nuovo convogliato su casa Medici gli affetti e le simpatie di sostenitori e alleati, magari qualche macchia di sangue, qualche leggera ferita – un colpo di mano sventato all’ultimo istante, ad esempio –, avrebbero potuto muover le acque stagnanti di una situazione in stallo, e perfino costituire il pretesto per un salutare giro di vite politico: vale a dire, offrire il pretesto per qualche legge eccezionale di quelle che tolgono di mezzo avversari molesti, giustificano qualche spedizione militare e portano danaro alle casse pubbliche. V’è persino qualcuno disposto a insinuare che Giuliano, dopo lo scintillante debutto sulla scena pubblica fiorentina, con tutta quella cascata di perle e i versi che Poliziano stava scrivendo per lui, cominciasse a dare fastidiosamente ombra al fratello.
Sono almeno in teoria ragionevoli dubbi; affascinanti ipotesi, a sostenere le quali si potrebbe anche cercare un qualche indizio. Gli indizi però sono utili a costruire solo delle ipotesi, che per diventare tesi hanno bisogno di solide prove. E noi di prove in tal senso siamo privi; non resta dunque che procedere con i fatti.
Le violenze dei giorni successivi alla congiura erano state una vera e propria, lunga Kristallnacht. Poco in tutta quella sequela di fattacci può esser considerato, in realtà, “spontaneo”; e meno ancora “incontrollabile”. D’altro canto, può forse stupire noi moderni il fatto che, quanto meno per ragioni di Realpolitik, il Magnifico e la sua famiglia non si facessero subito promotori di una politica fondata sì sulla ferma richiesta di giustizia, ma anche aperta alle prospettive di pacificazione. Qualche apertura vi fu in effetti, per quanto non poi così generosa come si sarebbe potuto auspicare (e tanto meno, forse, leale e sincera): ma non si deve dimenticare comunque che nel XV secolo l’istituto e la pratica della “faida” erano sempre fiorenti, e l’esercizio della vendetta ritenuto doveroso e onorevole2.
Lorenzo era stato ferito al collo in modo abbastanza grave: si temeva che i cospiratori avessero anche avvelenato la lama, e nei giorni successivi all’attentato egli dovette continuamente affacciarsi alle finestre di via Larga per mostrare – anzi, per dimostrare – ai suoi partigiani di essere ancora vivo. Se già da prima non si moveva per le vie e per le piazze cittadine senza una buona scorta armata, suscitando per questo le critiche di quanti lo accusavano di atteggiamenti e di comportamenti “da tiranno”, quando tornò a farsi vedere fuori dei pesanti e borchiati portoni di casa sua, dove per almeno una decina di giorni era vissuto in quarantena, la scorta era aumentata. Frattanto egli aveva scritto prontamente a colei ch’egli stimava la sua migliore alleata, la duchessa Bona di Savoia reggente del ducato di Milano, per denunziare il costante pericolo e chiedere aiuto in termini accorati3.
La situazione era in effetti difficile. I Medici godevano in città di un notevole consenso, ma molti erano anche i loro avversari; come spesso accade in questi casi, la maggioranza dei circa 45.000 fiorentini del tempo era fatta di partigiani piuttosto tiepidi o indecisi dell’una o dell’altra parte, di persone indifferenti o quasi, o comunque di gente abituata a guardare ai fatti politici, come si dice, “stando alla finestra”. Quei giorni, che la propaganda del Magnifico si affrettò a presentare come caratterizzati da un’incontenibile, e sia pur riprovevole, ira popolare volta contro i congiurati, furono in realtà segnati da un freddo progetto intimidatorio mirato a spaventare tutti gli oppositori presenti o futuri di quello che sempre più si andava configurando come un regime. La società cittadina si ritrovò stretta nella tenaglia della repressione e della sorveglianza legali dall’alto, delle minacce squadristiche dei “palleschi” dal basso. Si collaudò in tal modo una misura politica e propagandistica non certo estranea al nostro medioevo, che però avrebbe fatto fortuna nelle età moderna e soprattutto contemporanea: il “terrore”.
Nei giorni stessi nei quali s’impiccava, si linciava, si scatenava la caccia all’uomo per le strade, gli organi cittadini di governo lavorarono alacremente per colpire l’intera famiglia dei Pazzi con la damnatio memoriae spettante ai rei del crimen maiestatis, ai colpevoli di alto tradimento nei confronti di un principe: e ciò a dispetto del fatto che Lorenzo e la casa Medici fossero, formalmente, dei semplici cittadini. Si arrivò a intaccare persino l’antichissima cerimonia dello “scoppio del carro”, molto popolare nella Firenze di oggi come di allora: secondo la leggenda, infatti, il fuoco benedetto trasportato in processione sul carro cerimoniale il giorno di Pasqua era acceso sfregando tre schegge di pietra provenienti dall’edicola del Santo Sepolcro che Pazzino de’ Pazzi, mitico antenato della famiglia, aveva ricevuto in dono da Goffredo di Buglione per i suoi meriti militari durante la prima crociata4.
Tutto quel che poteva ricordare i Pazzi fu distrutto o confiscato e venduto tra il maggio e il giugno, ancora prima della sentenza formale che fu emanata solo il 4 agosto successivo. La notizia fu resa di pubblico dominio in Italia, e piuttosto rapidamente, se già il 27 maggio Ercole d’Este scriveva a Lorenzo perché desiderava ricomprare un bel palazzo che suo fratello Borso aveva venduto a Piero de’ Pazzi su richiesta di Cosimo; visto che i beni della famiglia su cui si abbatteva la mannaia della damnatio erano stati confiscati, il duca di Ferrara non si faceva scrupolo di confessare che sperava di riscattarlo “per puoco pretio, et cum qualche dillatione de tempo”5.
Intanto, il 23 maggio, era stata promulgata una legge secondo la quale tutti i membri sopravvissuti della famiglia Pazzi erano obbligati a mutare cognome e arme araldica, pena l’essere considerati “ribelli” e trattati di conseguenza (l’impunità era difatti garantita a chiunque uccidesse un “ribelle”); chi accettasse di legarsi con vincoli matrimoniali a un membro della famiglia condannata avrebbe ricevuto a sua volta l’“ammonizione”, cioè l’esclusione dai pubblici uffici. I provvedimenti riguardanti i matrimoni della famiglia Pazzi sarebbero stati tuttavia rivisti negli anni immediatamente successivi, anche a causa della loro palese illegalità; mentre la condanna che imprigionava a vita nella torre di Volterra i giovani figli di Piero de’ Pazzi fu commutata nel 1482 con il perpetuo esilio6.
Non poteva mancare la condanna in effigie, punizione peraltro diffusa: il pittore Sandro Botticelli, artista della cerchia medicea più sicura, ricevette la ragguardevole somma di 40 fiorini d’oro per dipingere in bella vista su un muro, secondo i canoni della “pittura infamante”, i ritratti dei congiurati dell’aprile. L’arcivescovo Salviati vi era addirittura raffigurato come pendente nel vuoto ad perpetuum dedecus in pontificali habitu7. Un dedecus pericoloso e scandaloso, in quanto investiva la dignità della Chiesa stessa.
A queste immagini di nemici abbattuti faceva da contraltare una folla di statue di cera che i partigiani dei Medici commissionarono alle botteghe urbane come ex voto, per ringraziare Dio d’aver concesso la salvezza al Magnifico. La bottega del Verrocchio, nella quale Leonardo da Vinci era già attivo e insigne, ne produsse una che ritraeva Lorenzo a grandezza naturale, abbigliato dello stesso abito macchiato di sangue che portava il giorno in cui si era attentato alla sua vita8.
L’ultimo atto dell’esplicita vendetta di Lorenzo riguardò il des...

Indice dei contenuti

  1. I. Firenze, una “repubblica ideale”
  2. II. 1466. La parte “del Poggio” contro la parte “del Piano”
  3. III. Matrimonio o tradimento?
  4. IV. I figli dell’Ammazzagiganti e i “Figliuol dell’Orsa”
  5. V. Come monta la tempesta
  6. VI. I giorni del sangue
  7. VII. La vendetta e l’alibi