I maestri della ricerca teatrale
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I maestri della ricerca teatrale

Il Living, Grotowski, Barba e Brook

  1. 232 pagine
  2. Italian
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I maestri della ricerca teatrale

Il Living, Grotowski, Barba e Brook

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«Non recitare. Agisci. / Non ricreare. Crea. / Non imitare la vita. Vivi. / Non scolpire immagini. Sii. / Se non ti piace, cambialo». Le parole del Living Theatre evocano le inquietudini e le irrequietezze di una generazione di innovatori teatrali. In queste pagine, il bilancio delle fondamentali esperienze sceniche prodotte negli anni Sessanta - Ottanta: la grande rivoluzione del teatro introdotta dai maestri contemporanei, gli spettacoli indimenticabili, la sperimentazione d'avanguardia e, in parallelo, il senso storico di un'epoca.

Vincitore del Premio Nazionale di Teatro «Luigi Pirandello» per il saggio storico-critico

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IV. Al di là del teatro

1. I giorni sacri di Grotowski

Nell’estate del 1968, dopo oltre tre anni di lavoro, erano cominciate anche le prime prove aperte di quello che sarebbe stato l’ultimo spettacolo di Jerzy Grotowski, Apocalypsis cum figuris (debutto ufficiale: l’11 febbraio 1969). Nell’ottobre del 1969, il Teatro Laboratorio di Wroclaw, dopo una tournée inglese, era sbarcato negli Stati Uniti, dove si sarebbe fermato per più di due mesi, presentando Akropolis, Il principe costante e Apocalypsis. L’attenzione della critica fu vivissima: Grotowski fu paragonato a Stanislavskij e il gruppo polacco particolarmente elogiato perché proponeva – a differenza dell’ultimo Living Theatre – un rapporto con lo spettatore che escludeva il contatto fisico, ormai avvertito come inopportuno e falso. Grotowski, in quell’epoca d’impegno politico sentito e talora ostentato, mise in crisi più di un intellettuale radicale.
Stefan Brecht, sospettoso verso «lo sperimentalismo spiritualista» grotowskiano, leggeva Il principe costante come uno spettacolo «in bianco e nero», una sorta di kafkiana «celebrazione della morte» di «tenera distruttività», che comunque rendeva già chiari quelli che sarebbero stati certi tratti o sfumature dell’imminente parateatro: «Il teatro di Grotowski lavora sul presupposto che le limitazioni della psicologia dell’ego possano essere trascese. È [...] intensamente individualistico, ma il suo interesse non è per l’individuo, bensì per l’individualità. I suoi attori selezionano e foggiano i loro gesti non per far risaltare quello che una persona sarebbe capace di fare, ma quello che lo spirito dell’uomo può e deve fare»1. Eric Bentley, invece, pubblicò sul «New York Times» del 30 novembre un’impertinente Open Letter, nella quale arricciava il naso di fronte al «deplorevole formalismo» di Akropolis e non esitava a definire il Principe di Cieslak «un bravo ragazzo con qualche problema di masochismo», ma ammetteva che, nel corso di Apocalypsis cum figuris, era stato raggiunto da una «peculiare illuminazione», o «messaggio» intimo, estremamente privato, che giungeva da una misteriosa lontananza, «un’esperienza che non [gli] era mai capitata prima in teatro»2.
In un certo senso, a questo punto, si poteva parlare del pieno raggiungimento del successo internazionale da parte del gruppo polacco, ma, nel febbraio del 1970, a Wroclaw, Grotowski dichiarava: «Viviamo in un’epoca post-teatrale. Ciò che sta per seguire non è una nuova ondata di teatro, piuttosto qualcosa che lo rimpiazzerà. Troppi fenomeni esistono per pura abitudine, perché si è genericamente convenuto che debbano esistere [...]. Sento che per me Apocalypsis cum figuris è una nuova fase nella mia ricerca. Abbiamo attraversato una certa barriera»3. Nel dicembre dello stesso anno (allorché Il principe costante uscì dal repertorio), proprio durante delle conferenze a New York, Grotowski – che, dopo un viaggio in Oriente, ormai sembrava a molti profondamente trasformato – indicava prospettive nuove che confluiranno in una specie di manifesto: Holiday.
Come la maggior parte dei testi di Grotowski, dedotti dalla trasmissione orale del suo pensiero, anche Holiday ci appare composito e impressionistico, ma in fondo riprendeva, radicalizzandole o capovolgendole, diverse tesi di Per un teatro povero, giungendo, comunque, a delle conclusioni estreme e clamorose: «Non è il teatro a essere indispensabile ma: incrociare le frontiere fra te e me; farmi avanti per incontrarti, in modo da non sperderci nella folla – o fra le parole o in proclami o fra idee meravigliosamente esatte». Dopo essersi confrontato quasi dolorosamente con l’eredità del «padre» Stanislavskij, il massimo che Grotowski ormai concedeva era: «Se Amleto per voi è uno spazio vitale, potete anche misurarvi con lui; non come si fa con un personaggio, ma come un raggio di luce, che cade sulla vostra esistenza, che v’illumina tanto da non farvi mentire, da non farvi recitare»4. Nel 1974, Grotowski sarà anche più esplicito e sancirà un’ulteriore scissione fra la sfera della mimesi estetica e quella della pregnanza e totalità dell’essere: «per il teatro, nel senso che ha avuto finora, rimane posto nella vita comune. Esiste infatti un istinto della recitazione, osservato persino fra gli animali. Basandosi su questo istinto può durare ancora la bella sfera dell’arte. Ma ciò personalmente non mi riguarda più»5. La fuoriuscita dallo spettacolo era una prospettiva o, se si vuole, un destino inscritto nella genesi, nelle idee e nelle principali esperienze della tradizione teatrale polacca: la si può rintracciare da Mickiewicz a Osterwa6; Grotowski si orientava su questa stessa linea, nella quale l’etica prevaleva sull’estetica, portandola conseguentemente a compimento.
Dal 1970 fino al 1977-78 si apre un’altra fase dell’attività grotowskiana: il parateatro, qualcosa, si direbbe, che ha ancora a che fare con il teatro, ma non è rappresentazione in senso proprio, bruciando nell’incontro e nella partecipazione le nozioni di attore e di spettatore, sebbene proprio su una nuova presenza dello spettatore sembri ora riposizionarsi l’attenzione del maestro polacco. In Holiday, Grotowski sostiene che ci sono parole «morte», quantunque usate e, tra esse, «spettacolo, rappresentazione, teatro, pubblico», mentre «vivente» sarebbe solo «l’avventura e l’incontro, non uno qualsiasi, ma quello che vogliamo che accada a noi e, quindi, anche ad altri tra noi», ovvero una specie di fraternizzazione7.
Riprendendo la sua antica polemica (peraltro già stanislawskiana) contro l’«attore-cortigiana»8, Grotowski sostiene che l’impegno nel teatro, il professionismo stesso finiscono per essere un ostacolo in questa direzione: «Un essere umano che offre la sua presenza fisica in cambio di un compenso materiale – in qualsiasi senso – solo per questo si pone in una posizione falsa; oggi ancor più che in passato, quando la sua era una professione chiara nella sua ambiguità, prossima a quella del buffone». Al di là di qualsiasi prospettiva strettamente religiosa, l’obiettivo di fondo diventa così la necessità di trovare un senso esistenziale e Grotowski ripropone la sua denuncia dell’inautenticità, dell’alienazione e della paura che caratterizzerebbero i rapporti quotidiani: «Nella paura, che è connessa alla mancanza di significato, noi smettiamo di vivere e cominciamo diligentemente a morire. [...] La vergogna della nuda pelle, della vita nuda, di noi stessi, e nel contempo, spesso la più completa impudenza quando si tratta di vendersi sul mercato. Noi non ci amiamo, più noi stessi; odiando gli altri cerchiamo di curare questa carenza d’amore»9.
Girando attorno a temi che richiamano ancora l’«atto totale» e quindi una ricomposizione unitaria dell’uomo, altrimenti scisso fra spirito e materia, nella sincerità e nella trasparenza, che adesso dall’attore vengono estesi e proposti allo spettatore, Grotowski afferma ancora:
Noi vogliamo impossessarci degli strumenti: come recitare? Come meglio far finta di essere qualcosa o qualcuno? In che modo recitare i testi classici e quelli moderni? Come recitare le tragedie e le commedie? Ma se uno impara come si fa, non si rivela; uno rivela soltanto l’abilità del fare. E se qualcuno cerca gli strumenti del relativo nostro metodo o di qualche altro, lo fa non per disarmarsi, ma per trovare un rifugio, un porto sicuro, nel quale poter evitare l’azione che sarebbe la risposta. Questo è il punto più difficile. Per anni si lavora e si vuole imparare di più, per acquisire maggiori abilità, ma alla fine non si deve imparare, ma disimparare, non sapere come fare, ma come non fare, e fronteggiare sempre questo fare; rischiare la sconfitta totale; non una sconfitta agli occhi altrui, che non è importante, ma la sconfitta di un dono mancato, cioè un fallimentare incontro con noi stessi.
Holiday invita di conseguenza a riportarsi all’«uomo nella sua totalità», un essere che è «sensuale e nel contempo luccicante». Infine, Grotowski propone di passare tangibilmente a un’azione di cleansing (purificazione): «Questo, pure, è swieto [sacro], essere nello swieto [nel sacro], essere swieto [sacro]»10.
In un’intervista del 1975 a Mario Raimondo, alla domanda su che cosa significasse per lui «il giorno santo diventerà possibile», Grotowski rispose semplicemente: «Questa frase vuol dire che la menzogna della nostra esistenza quotidiana non è fatalmente necessaria [...]. Non è assolutamente necessario, inevitabile, fatalmente necessario, vivere al di fuori della propria vita, rifiutare la propria pelle, rifiutare la propria presenza, rifiutare la presenza dei nostri sensi. È possibile invece toccare veramente, vedere con gli occhi che sono risvegliati, ascoltare con le orecchie che sono svegliate, vivere una vita che è vivente»11.
Ora, per quanto si possano non apprezzare o condividere le ambizioni di creare o raggiungere la sincerità e la trasparenza dell’essere umano (condizioni e ...

Indice dei contenuti

  1. I. La fucina americana
  2. II. Come Van Gogh dipingeva
  3. III. Il cavallo di legno
  4. IV. Al di là del teatro
  5. V. Ritorno al disordine
  6. VI. Traversata artica
  7. Bibliografia essenziale