La fiction italiana
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La fiction italiana

Narrazioni televisive e identità nazionale

  1. 208 pagine
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La fiction italiana

Narrazioni televisive e identità nazionale

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Dallo sceneggiato alle serie poliziesche, dalle storie di mafia alle biografie religiose e i drammi storici, dal fenomeno di popolarità de La Piovra, risposta italiana al serial statunitense Dallas, alla nascita di un'industria seriale con Un posto al sole, la prima soap opera nostrana: Milly Buonanno, da anni impegnata negli studi sul television drama, indaga la storia, l'evoluzione e i caratteri distintivi della narrazione televisiva italiana. Con una scoperta: la formazione del carattere 'tipicamente nazionale' della fiction è spesso il frutto di processi di commistione fra elementi culturali domestici e stranieri, nativi e di importazione, locali e globali, nella tensione costante fra identità nazionale e influssi internazionali.

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Informazioni

1. Alle origini del dramma televisivo italiano

1. Definire il genere

In Italia chiamiamo fiction il dramma televisivo domestico. Non è stato sempre così. L’uso del termine inglese – che ha sostituito l’originaria definizione di sceneggiato (o teleromanzo) – ha cominciato a diffondersi nel linguaggio professionale e accademico, e più tardi nella parlata comune, circa trent’anni fa, in coincidenza con una fase di grande trasformazione del sistema e della cultura televisiva italiana, messa in moto dalla rottura del monopolio delle reti pubbliche e dall’avvento delle reti private (cfr. cap. 2).
In un certo senso, si tratta di una omologazione al lessico degli altri paesi latini. Come ha sottolineato Jérôme Bourdon, «nel campo della televisione, fino agli anni ottanta la parola fiction non veniva usata; esisteva una gamma di termini diversi, mutuati dal teatro (‘dramatique’ in francese, ‘drama’ in inglese, ‘Fernsehspiel’ in tedesco), dalla radio o dalla stampa (‘feuilleton’)» (Bourdon, 2004: 177). Durante gli anni Ottanta il gergo televisivo venne riformulato, principalmente sotto l’influenza angloamericana, con la conseguenza che le preesistenti varianti locali finirono per convergere nello stesso nome. Nei paesi latini, il nome era fiction in francese, ficción in spagnolo e ficção in portoghese. In ciascuno di questi casi, tuttavia, la parola usata appartiene al vocabolario della lingua nazionale – come testimoniano congiuntamente i dizionari e la pronuncia parlata. Il caso italiano è diverso: fiction è e resta un termine inglese, o angloamericano, pronunciato (più o meno correttamente) all’inglese.
Dunque, in Italia si ricorre a una parola straniera dalla pronuncia non nativa per denominare il racconto televisivo indigeno, il prodotto domestico.
In tempi neppure troppo lontani, quando il media-cultural imperialism (Schiller 1969, 1976, 1991) fungeva ancora da «mito centrale degli studi della comunicazione transnazionale» (Miller, 2000: 3), un simile esempio si sarebbe prestato facilmente a corroborare l’idea che il dominio esercitato dalla cultura mediale angloamericana si spinge fino a dettare, per citare Marie Cardinal (2001), «le parole per dirlo». Senza negare una qualche sostenibilità dell’argomento – l’invadenza dell’inglese, specie nel gergo dei media, è del resto evidente – non è questo il punto che mi interessa sottolineare. Piuttosto che risollevare questioni di imposizione/dipendenza culturale molto dibattute, non necessariamente fuori moda, ma che hanno dimostrato di non portare lontano, ritengo più proficuo trarre spunto da questo caso emblematico di contaminazione lessicale e semantica per tentare di ricostruire i rapporti tra nazionale e transnazionale, nativo e non nativo nel dramma televisivo italiano. Si tratta di rapporti iscritti nella lunga durata che, sia pure in configurazioni diverse a seconda delle diverse fasi di sviluppo del sistema e dell’ambiente televisivo nazionale, hanno rappresentato una costante nella storia del dramma televisivo domestico; e hanno contribuito a modellarlo in forme e contenuti che sono diventati parte integrante della sua propria tradizione e identità.
Conviene cominciare dall’inizio, vale a dire dalle origini della televisione italiana. In quegli anni non esisteva la ‘fiction’, ma piuttosto il suo precursore o antenato: lo sceneggiato. Per quasi due decenni, dalla metà degli anni Cinquanta alla metà degli anni Settanta, lo sceneggiato è stato il genere narrativo privilegiato e pressoché esclusivo della televisione italiana. Ha goduto di una enorme popolarità e ancor oggi mantiene radici nel vocabolario e nelle memorie generazionali degli spettatori più anziani (Colombo e Aroldi, 2003), oltre a prestarsi alla nostalgica rievocazione di quanti intendono in tal modo deplorare lo scadimento (vero o presunto) della fiction contemporanea.
Lo sceneggiato, in realtà, è stato una componente fondamentale della strategia di ‘costruzione della nazione’ perseguita dalla televisione italiana delle origini. Che si trattasse di adattamento letterario o di dramma storico, lo sceneggiato ha ricostruito per gli italiani – all’epoca, una popolazione culturalmente disomogenea e largamente illetterata – i cruciali eventi storici e la tradizione letteraria in cui un paese un tempo frammentato, che era diventato nazione da meno di un secolo, veniva sollecitato a riconoscere le radici e i percorsi di una storia e una cultura comune. Abbastanza singolarmente, tuttavia, questo efficace veicolo per la costruzione e la diffusione di comunalità e di identità nazionale, quale lo sceneggiato è riuscito a essere, ha fin dal principio intrattenuto relazioni apparentemente contraddittorie con la tradizione culturale di altre nazioni. Non dispongo di elementi di comparazione sufficientemente precisi da consentirmi di sostenere che ciò costituisse, all’epoca, una peculiarità tutta italiana; una storia delle televisioni europee è appena ai suoi inizi (Bignell e Fickers, 2008), e le pur preziose macro-ricognizioni storiche attualmente disponibili richiederanno di essere integrate da indagini più mirate nel futuro degli studi televisivi europei. Sono invece sufficientemente avvertita della tentazione, non di rado irresistibile per i ricercatori, di decretare unicità o specificità nazionali pur in assenza di una valida base comparativa. Mi limiterò pertanto a ricostruire le origini del dramma televisivo domestico, focalizzando sul breve periodo seminale degli anni Cinquanta, che coincide con il primo quinquennio (o poco più) del broadcasting nazionale in Italia.

2. Palcoscenico domestico

La televisione italiana è nata nel 1954 e per due decenni ha operato come servizio pubblico in regime di monopolio. Parte almeno di coloro che ne hanno avuto esperienza e ne conservano memoria inclinano a considerare il periodo delle origini come una sorta di età dell’oro del medium. All’epoca le politiche di produzione e di programmazione della RAI erano dichiaratamente ispirate a principi di azione pedagogica; il nuovo medium era concepito in modo preminente come strumento di educazione e di elevazione culturale della popolazione.
Se una tale concezione era condivisa, in quegli anni, dalla gran parte delle televisioni europee (Bourdon, 2004), in Italia essa rifletteva non tanto o non soltanto l’adozione di un modello e un ethos di servizio pubblico, quanto le convinzioni profondamente radicate nel gruppo dirigente della RAI circa le ineguagliate potenzialità educative e culturali del nuovo medium. Questo gruppo dirigente era composto da intellettuali e manager che alla prevalente formazione umanistico-letteraria univano un orientamento politico di stampo cattolico-moderato, sensibile a istanze liberali e modernizzanti, in linea con la corrente di sinistra del partito della Democrazia cristiana, allora al governo del paese (Monteleone, 1992). È ben noto (Gundle, 1995) come le forze cattoliche siano state assai più tempestive e lungimiranti delle forze politiche e culturali della sinistra – rimaste arroccate a lungo su posizioni di irriducibile rifiuto ideologico – nel comprendere l’importanza della televisione, e il ruolo strategico che era suscettibile di svolgere nel processo di modernizzazione della società italiana. Può essere utile aggiungere che negli anni Cinquanta, e già da prima, il mondo cattolico aveva una parte di rilievo nell’organizzazione dei consumi popolari, grazie a un capillare circuito sia di sale cinematografiche parrocchiali, sia di filodrammatiche teatrali.
A proposito delle radici umanistiche della cultura televisiva (Bettetini, 1985), Sergio Pugliese, tra i ‘padri fondatori’ della RAI e potente direttore dei programmi dal 1954 al 1965, era un apprezzato drammaturgo. Sotto la sua direzione l’appuntamento settimanale con la prosa, nella serata del venerdì, divenne uno dei cardini del palinsesto, e l’inizio stesso delle trasmissioni (il 3 gennaio del 1954) ricevette un imprinting teatrale mediante la ripresa diretta di una commedia di Carlo Goldoni (Grasso, 1992). Da qui la fisionomia di «palcoscenico domestico» diffusamente riconosciuta alla televisione italiana delle origini.
Il teatro era lo spettacolo preferito delle classi borghesi e intellettuali. La neonata televisione contribuì ad ampliare in misura apprezzabile il bacino di fruizione dello spettacolo di prosa, insediandolo nelle abitudini di consumo (televisivo) di larghe fasce di spettatori della classe media. L’attrazione della novità e – come risultava dalle indagini del tempo (De Rita, 1964) – la dichiarata sete di istruzione del pubblico, che sembrava a sua volta aderire a una concezione in qualche misura «scolastica» del mezzo, valsero a decretare al teatro televisivo un notevole successo, tanto da indurre gli osservatori ad affermare, con qualche esagerazione, che la televisione «avesse compiuto il miracolo di far diventare l’Italia un paese di teatranti» (Lombezzi, 1980: 51). In realtà la radio aveva già molto operato nella direzione di dischiudere al popolo le porte della colta cittadella del teatro di palcoscenico; la televisione ne seguì le orme.
Non la prosa, comunque, ma il romanzo era destinato a rivelarsi precocemente, e in forma duratura, il principale veicolo della diffusione massiva della cultura umanistico-letteraria presso il pubblico italiano. Il progetto pedagogico perseguito dalla RAI trovò infatti uno dei suoi più congeniali e fertili terreni di espressione nell’opera di divulgazione della narrativa romanzesca, al cui servizio quasi esclusivo fu posta una intensa anche se artigianale produzione di dramma televisivo. Il senso di una missione educativa e illuminatrice, congiunto con la più alta considerazione per la cultura classica, diede dunque vita a un genere destinato a divenire ben presto il marchio e l’orgoglio del dramma televisivo italiano: lo sceneggiato o teleromanzo (De Fornari, 1990).

3. Adattamento letterario

Lo sceneggiato era, essenzialmente, un adattamento letterario: un racconto a puntate tratto da un’opera di narrativa già edita o, come si preferiva dire, ‘da opera d’autore’. La scansione in puntate, mediamente sei e mai più di dieci, e l’origine letteraria della storia narrata erano caratteri distintivi necessari, e tuttavia non sufficienti, a definire lo sceneggiato: la cui specifica identità si strutturava su un insieme inscindibile e irripetibile di elementi costitutivi che, accanto alla formula narrativa e alla fonte letteraria, comprendevano un modello espressivo e un preciso disegno culturale.
Girato in interni con tecnologia elettronica, e inizialmente trasmesso in diretta, lo sceneggiato aveva nel teatro di prosa e non nel cinema il suo modello di riferimento nobile, e nobilitante. Dallo studio allestito come un palcoscenico con quinte e fondali, alle sceneggiature scandite in «atti», agli interpreti reclutati preferibilmente nel mondo del teatro, al ruolo preponderante dei dialoghi e dei monologhi sull’azione – e altro ancora – tutto segnalava la consapevole costruzione dello sceneggiato alla maniera di una rappresentazione teatrale. Specialmente nei primi tempi, era vero e proprio «romanzo teatralizzato», in piena sintonia con il palcoscenico domestico allestito dalla televisione delle origini. Anche quando, più tardi, divenne possibile girare in pellicola, eliminare la diretta, ricorrere al montaggio, effettuare riprese cinematografiche in esterni, l’originaria impostazione di teatro da studio non fu mai del tutto dismessa.
Ancorare il dramma al teatro era una scelta coerente e strategica da parte della RAI: coerente con l’impostazione umanistica di fondo, che si rinsaldava nell’alleanza fra la prosa e la narrativa. Strategica rispetto allo scopo di conferire legittimazione (riconducendolo nell’alveo di un consolidato e prestigioso bene culturale) allo sceneggiato, che al tempo stesso si intendeva preservare da possibili contaminazioni e associazioni con il cinema. Ragioni diverse, su cui non è necessario soffermarsi in questa sede (ne tratterò nel capitolo successivo), sconsigliavano di far riferimento ai modelli filmici: sia quelli del cosiddetto cinema d’autore, che nel decennio precedente si era espresso nella celebrata corrente artistica del neorealismo, sia quelli del cinema popolare nazionale, che riscuoteva i suoi maggiori successi nelle sale italiane con il melodramma, la commedia, i generi musicali. La critica e l’estetica televisiva, a loro volta agli esordi, accreditavano l’idea di una essenziale diversità e una necessaria separatezza di linguaggi e stili fra i due media, e non cessavano di deplorare la pretesa di alcuni registi di «fare cinema in televisione» (Lombezzi, 1980: 48).
L’Italia non deteneva certo l’esclusiva dell’adattamento letterario, genere prediletto da tutte le televisioni pubbliche europee per la sua strategica capacità di soddisfare due dei tre fondamentali obiettivi del servizio pubblico: educare e intrattenere. «L’adattamento dei classici [...] è stata una caratteristica della televisione inglese fin quasi dagli esordi della televisione stessa» (Caughie, 2000: 207). In particolare, la BBC inaugurò la sua tradizione di classic serials – sostituendo i precedenti adattamenti in un atto unico (Kerr, 1982) – nei primi anni Cinquanta. E la televisione francese, da parte sua, fece largo ricorso alle fonti letterarie a partire dagli anni Sessanta (Chaniac, 1996). La letteratura, al pari del teatro o della storia, venne dunque ‘mobilitata’ per fornire una legittimazione culturale estrinseca a un medium che, in Italia come altrove, si sospettava fosse «intrinsecamente non buono» (Brundson, 1997: 113).
Soltanto in Italia, tuttavia, l’adattamento letterario ha conseguito e lungamente mantenuto una posizione di assoluta preminenza nel panorama del dramma domestico: i...

Indice dei contenuti

  1. — dedica
  2. Introduzione
  3. 1. Alle origini del dramma televisivo italiano
  4. 2. L’americanizzazione dell’offerta televisiva
  5. 3. «La Piovra». La risposta italiana a «Dallas»
  6. 4. «Un posto al sole». La prima soap opera italiana
  7. 5. Genesi ed evoluzione del poliziesco televisivo
  8. 6. Le ragazze con la pistola
  9. 7. Storie di mafia tra cronaca e immaginario
  10. 8. Le fiction biografiche
  11. 9. Il ritorno al passato
  12. Riferimenti bibliografici